UN SOTTILE NASTRO DI FUMO

La mattina del 27 dicembre 1931, il settantenne contadino Antonio Reda, soprannominato Ped’i suriciu (negli atti è riportato piede di sorcio. Nda), va, con sua moglie Saveria Jaquinta, dal suo fondo agricolo fino a Bisignano  per far macinare delle ulive. Nel pomeriggio, finita l’incombenza, i due stanno per tornare alla loro casetta colonica quando Saveria viene colta da uno dei suoi consueti disturbi cardiaci ed è costretta a restare in paese. Così il vecchio, promettendole di tornare la mattina dopo, va a casa da solo per dare da mangiare agli animali chiusi nella stalla attigua all’unica stanza di cui si compone la casetta. Poi, verso l’ora di cena, come al solito arrivano le sue due nipoti con qualcosa da mangiare:
– No… ho mangiato in paese…
Le due ragazze si fermano fino a poco dopo le 20,00, poi tornano a casa nel fondo vicino.
– Hai chiuso la porta col maschio? – è la solita raccomandazione dopo i due furti subiti poco tempo prima.
– Si, buonanotte!
– Buonanotte!
La mattina del 28 dicembre Saveria Jaquinta sta meglio e aspetta impaziente l’arrivo del marito. Aspetta fino a mezzogiorno e poi, preoccupata, si avvia da sola verso la casetta. La porta è chiusa e la chiave è posata sul muretto accanto alla porta. Saveria avverte uno strano odore e poi vede uscire da una finestra un sottile nastro di fumo. “È successo qualcosa di brutto”, pensa subito afferrando la chiave e spalancando la porta. Non può credere ai propri occhi: le tracce ancora fumanti di un incendio che ha distrutto il letto, di cui restano soltanto le cavallette di ferro; il fuoco che arde ancora su una trave e su una tavola del soffitto.
– Totò… Totò – nessuna risposta. Che sia uscito a chiedere aiuto? Poi vede nel centro della stanza un gran mucchio di cenere da cui affiorano pezzetti di indumenti bruciacchiati – o gesummaria! – urla mentre si avvicina e, scomposto lo strato superiore della cenere, la povera donna scopre con orrore il cadavere bocconi, quasi del tutto carbonizzato, del marito. Osserva meglio e nota sul fianco sinistro del cadavere un largo squarcio da cui fuoriesce un pezzo di intestino. Con un inconscio moto di amorosa pietà verso il compagno della sua vita cerca di introdurre, col dito indice, quel pezzo di intestino nell’addome. Saveria nemmeno piange, non ci riesce, è ancora incredula che a Totonno sia potuta capitare una fine così orribile. E guarda quel mucchio di carne annerita con stupore. Ma sopra una spalla di suo marito c’è qualcosa, qualcosa di bruciato che non appartiene a Totonno. Saveria si avvicina ancora e prende in mano quella cosa. Poi un urlo di terrore e disgusto: è il loro gatto, carbonizzato come suo marito. Istintivamente la donna lo butta fuori dalla porta: che sia un segno di malocchio?
Solo adesso comincia a capire la tragedia ed esce sull’aia mettendosi a urlare per richiamare i vicini. Solo adesso le lacrime cominciano a solcarle il viso.
I vicini accorrono immediatamente e la fanno stendere a terra, temendo che il suo cuore malato possa spezzarsi da un momento all’altro e, mentre qualcuno dei vicini si ferma con lei per assisterla e confortarla per il triste e immeritato destino del marito – vecchio e onesto contadino stimato da tutti –, qualcun altro corre a Bisignano per avvisare i Carabinieri, che arrivano accompagnati dal medico condotto.
Il cadavere del povero Totonno, all’occhio esperto del medico, presenta non solo lo squarcio sul fianco sinistro, sicuramente prodotto da un colpo di scure, ma anche una grave ferita da corpo contundente, sicuramente prodotta da un colpo dato col dorso di una scure, alla nuca che ha causato una vasta e profonda frattura della volta cranica. Il vecchio è stato ammazzato!
Considerando, poi, che la porta d’ingresso non presenta segni di effrazione, le ipotesi sono due: o Totonno è uscito di casa per un bisogno corporale ed è stato sorpreso dall’assassino che lo ha ammazzato e poi trascinato in casa, oppure ha aperto volontariamente la porta a qualcuno che conosceva. Un furto? Apparentemente no perché gli animali sono nella stalla e in casa non manca nulla di tutto il ben di Dio che si trovava all’interno. No, qualcosa manca. Due fucili e una rivoltella che il vecchio teneva nella casetta per difesa dopo i furti subiti. Forse una vendetta dei ladri che aveva denunciato, suggerisce qualcuno dei vicini, ma il Maresciallo esclude subito questa ipotesi perché sa con certezza che i responsabili dei furti sono stati arrestati, condannati e stanno ancora scontando la pena. Piuttosto, il Maresciallo un sospettato lo ha: si chiama Filippo Di Dio, un merciaio ambulante nativo della Sicilia, noto ladro ostinato e non privo di certa abilità nella consumazione delle sue imprese ladresche. I Carabinieri lo rintracciano ma l’alibi che fornisce è abbastanza attendibile e lo rilasciano. Per quanti sforzi si facciano, non si riesce a trovare niente contro nessuno e il procedimento aperto contro ignoti viene chiuso per insufficienza di prove.
Novembre 1933, Pretura di Acri. In attesa di essere interrogati per una serie di furti di cui sono accusati, ci sono tre pregiudicati che abitano a Bisignano: Rodolfo Marchese, Antonio Paldino e Mario Benedetto. Quest’ultimo, che dei tre nominati è il meno traviato e nella società criminosa ha il ruolo piuttosto di un succube, incalzato dalle domande del Pretore finisce per confessare tutto. Gli altri due sono infuriati. È infuriato soprattutto Marchese, giovane di appena 23 anni e già tanto innanzi nella carriera dei delitti, il quale, nonostante sia più giovane degli altri due, li tiene tuttavia a sé soggetti col timore che loro incute l’indole sua feroce e sanguinaria, tanto che di ogni impresa ladresca è sempre il condottiero ed impone agli altri due la sua volontà sopraffattrice fino al punto che distribuisce a suo libito il ricavato dei furti senza che gli altri due soci osino protestare. Riportati in carcere alla fine degli interrogatori, Marchese e Paldino cominciano a guardare Benedetto con occhio torvo ed a sorvegliarlo continuamente, quasi impedendogli ogni contatto con gli altri detenuti. Benedetto, infastidito e preoccupato di questa loro muta ostilità, protesta e comincia a ribellarsi. Allora Marchese rompe ogni indugio e gli lancia contro un orciuolo, poi un piatto e, infine, una pietra divelta dal pavimento, senza per fortuna colpirlo. Attirato dal chiasso, interviene il guardiano che fa uscire Benedetto e lo rinchiude in un’altra cella, sottraendolo così all’ira omicida di Marchese.
Benedetto, ancora in preda all’orgasmo per il pericolo corso, comincia a camminare avanti e indietro nella cella borbottando:
Se canto… se canto… li farò vedere io!
Poi sembra calmarsi. All’ora stabilita Benedetto e i suoi nuovi compagni di cella si coricano sui tavolacci e uno di loro comincia a parlargli:
– Certo che se non fosse intervenuto il guardiano, Marchese ti avrebbe ammazzato…
Si, mi voleva uccidere davvero… teme ch’io sveli qualche suo segreto… – gli risponde.
– Quale segreto? – gli fa, curioso.
– Marchese mi ha confidato che gli autori dell’omicidio di Ped’i suriciu sono stati lui e Paldino
– Davvero? E ti ha detto pure come hanno fatto?
Erano andati dal vecchio per rubare, hanno dapprima tentato di penetrare nella casetta attraverso il tetto ma, essendosi il vecchio messo a gridare, scesero dal tetto e, fattisi avanti la porta d’ingresso che nel frattempo il vecchio aveva aperto per gridare al ladro, lo avevano spinto dentro e quindi ucciso, bruciandone poscia il cadavere insieme ad un gatto che avevano pure ucciso, ponendoglielo fra le braccia
Il racconto è stato ascoltato anche dagli altri due detenuti della cella che facevano finta di dormire e che chiamano subito il guardiano per raccontargli tutto. Questi chiama Benedetto che racconta anche a lui il terribile segreto e poi firma una dichiarazione scritta che la mattina dopo è sul tavolo del Pretore.
Potrebbe essere una calunnia nel tentativo di vendicarsi dei suoi compari, potrebbe essere vero e avere partecipato anche lui al barbaro omicidio, ma Benedetto ha altre frecce al suo arco: in primo luogo non può avere partecipato al delitto perché era sotto le armi e poi c’è il particolare del gatto che fino a questo momento non era a conoscenza degli inquirenti perché la vedova non lo aveva mai raccontato a nessuno, ma ora che glielo chiedono conferma di aver trovato il gatto bruciato sul corpo del povero marito. Benedetto sta dicendo la verità. Resta da stabilire in che modo è venuto a conoscenza del segreto:
Tornato dal servizio militare – racconta al giudice – e stretta amicizia con Marchese e Paldino, questi, anche per incoraggiarmi ad associarmi a loro nelle imprese ladresche, mi misero a parte delle loro imprese precedenti, ma non di questa. Dopo dieci o dodici giorni dal furto di un asino che commettemmo tutti e tre insieme, mentre una mattina stavamo andando a lavorare insieme, mi raccontarono, confidando nella mia amicizia, che erano stati loro ad uccidere Ped’i suriciu a scopo di furtomi hanno anche raccontato che avevano mangiato in casa del morto e che, quindi, erano andati via portandosi dietro un fucile ed una rivoltella
Marchese e Paldino si limitano semplicemente a negare tutto, ma il Pretore sa che deve insistere sul più debole dei due, Paldino, e alla fine ottiene qualcosa:
Qualche giorno prima o dopo il Natale del 1931 venne in casa mia, sull’imbrunire, Filippo Di Dio per dirmi che mi voleva Marchese. Ci andai insieme al siciliano e ci trovammo anche Verta e, per un attimo, vidi affacciarsi anche Mario Benedetto. Marchese mi propose di andare tutti insieme a rubare un maiale ma rifiutai e andai via. La sera dopo mi venne a chiamare una figliastra di Marchese e anche questa volta mi propose, insieme agli altri, di andare a rubare alla casetta di Ped’i suriciu. Ricordo che erano tutti avvolti nei loro mantelli e Marchese aveva anche una scure… 
– C’era anche Benedetto? – gli chiede il Pretore, cercando di capire fino a che punto arriva a mentire.
– No, questa volta non c’era.
– Sei andato con loro?
– No, dissi loro che dopo i due grossi furti subiti, nella casetta non si sarebbe trovato niente. Di Dio insistette dicendo: “Qualche cosa si troverà sempre…”
– E poi?
– Marchese, Di Dio e Verta, avvolti nei mantelli, sono usciti. Feci con loro la strada fino al punto ove comincia la strada di campagna che conduce alla casetta di Reda, poi li ho lasciati per andare a casa della mia amante, situata alla fine del paese. L’indomani mattina seppi da lei che Reda era stato ucciso nella notte… poi la sera sono andato a casa di Marchese per sapere come era andata la cosa, ma lui, indicando la moglie, mi fece cenno di tacere e, nel contempo, presa una scure che era dietro la porta, ne tolse il manico e lo buttò nel burrone antistante… capii che non mi avrebbe detto nulla per la presenza della moglie e andai via. L’indomani mattina, andando al lavoro nei campi, dietro le mie insistenze mi confessò che giunti tutti e tre vicino alla casetta, avendo sentito delle donne che parlavano in casa, si nascosero. Quando le donne uscirono, Marchese bussò regolarmente alla porta, il vecchio gli aprì e siccome stava mangiando, lo invitò e mangiarono insieme. A questo punto entrarono gli altri due e, così mi disse testualmente Marchese, gliel’ha suonate. Non volle dirmi altri particolari, né allora e né dopo perché, disse, i Carabinieri andavano indagando.
Marchese, da parte sua, continua semplicemente a dire che lui non c’entra niente.
A questo punto, riaperta l’istruttoria con la certezza che Benedetto non ha potuto partecipare al delitto, vengono incriminati Marchese, Paldino, Di Dio e Verta ma, mentre i primi due ripetono ossessivamente le proprie versioni, gli altri due negano addirittura di conoscere i compari con i quali sono stati processati in passato per furto. Poi c’è la svolta che inchioda Paldino. I Carabinieri scoprono che uno dei due fucili rubati al vecchio è stato venduto al giovane e ignaro Umile Capocasale proprio da Paldino:
Il fucile me lo aveva dato Marchese alla presenza di Benedetto con l’incarico di venderlo a Capocasale – si difende, accusando gli altri come al solito.
 Marchese e Benedetto lo smentiscono, ma è la testimonianza di Capocasale ad essere decisiva:
All’atto dell’acquisto richiesi la ricevuta comprovante la denunzia dell’arma e Paldino mi rispose che me l’avrebbe consegnata non appena gli fosse pervenuta da Cosenza, ove il fucile era stato comprato da Paldino
Per il Giudice Istruttore può bastare per rinviare al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza i quattro compari per omicidio con l’aggravante di averlo commesso allo scopo di assicurarsi l’impunità per il delitto di furto commesso ai danni del Reda stesso. È il 22 agosto 1934. Il Giudice Istruttore, però, ha dimenticato i reati di distruzione di cadavere e incendio doloso. Questi altri due reati saranno aggiunti all’inizio del dibattimento, su richiesta del Pubblico Ministero.
Durante il dibattimento non è più così certo che Di Dio e Verta abbiano partecipato al delitto, quanto meno perché a loro carico c’è solo la chiamata in correità fatta da Paldino, ladro qualificato innanzi a Dio ed agli uomini, che già in un altro processo in cui era implicato, per escludere le proprie responsabilità, aveva parlato di persone avvolte in mantelli. E poi, Benedetto non ha mai nominato gli altri due pregiudicati e la sua testimonianza è attendibile. Ciò senza parlare degli alibi offerti da questi due, i quali contano pure qualcosa.
La posizione di Paldino si fa sempre più grave quando anche la sua amante lo smentisce: la notte dell’omicidio del vecchio Reda non è stato a casa sua.
Nella ricostruzione dei fatti durante il dibattimento, sembra chiaro che a colpire il vecchio Reda è stato il solo Marchese, accusato di ciò sia da Benedetto che da Paldino. Ma ci sono delle sfumature che convincono i giudici più delle accuse. La prima: Marchese, seriamente preoccupato dalla prospettiva di essere condannato a morte, urla con furia disperata la sua innocenza, senza però riuscire a smentire con fatti concreti le accuse, poi, sentita la requisitoria del Pubblico Ministero che chiede per lui l’ergastolo, la sua convulsa agitazione cessa d’incanto. La seconda: Marchese era il temuto capo di coloro che parteciparono alla spedizione notturna in casa del vecchio e in questa veste era l’unico che poteva prendere una iniziativa di sangue, sia per la sua indole feroce, sia perché, avendo egli per il passato assunto sempre la direzione e il compito maggiore nell’esecuzione delle imprese criminose – alle quali non mancava mai di associarsi Paldino – pare difficile ammettere che egli avesse ceduto, quella notte, a Paldino o ad altri quel tristo ruolo, dato che anche nel mondo criminale vi è, purtroppo, la vanità di affermare e conservare sugli altri il privilegio gerarchico.
Marchese e Paldino durante la giornata del 27 dicembre 1931 avevano notato Reda e sua moglie nell’abitato di Bisignano e ritenevano che la casetta colonica quella notte sarebbe rimasta incustodita. Vi andarono e cercarono di entrare dal tetto, non accorgendosi della presenza del vecchio, invece ritornato. Reda cominciò a urlare e, forte e animoso com’era (robusto e alto metri 1,80), forse uscì dalla casetta con uno dei suoi fucili in mano per mettere in fuga i visitatori notturni. Marchese e Paldino, visto che la casetta era custodita, ben avrebbero avuto il tempo e il modo di allontanarsi senza essere scorti dal vecchio. E tutti i partecipanti a quella impresa – qualunque ne fosse stato il numero – lo avrebbero certamente fatto, se tra essi non ci fosse stato Marchese, le cui tendenze sanguinarie, pronte a scatenarsi per ogni futile motivo, trovarono in quella inopinata reazione del vecchio il motivo e l’occasione per prorompere ad un’azione di sangue non necessaria, che certo non era nel programma criminoso del Paldino. Se questa è la ricostruzione più verosimile dei fatti, verrebbe a mancare tra l’omicidio e il furto un sicuro nesso di causalità perché l’omicidio non fu necessariamente diretto a commettere il furto, ma piuttosto un’azione fine a sé stessa. È questa sicura mancanza di nesso che fa propendere il Pubblico Ministero ad escludere l’aggravante che importa l’estrema sanzione della morte. Non ci sono prove, riguardo a Paldino, che la sua partecipazione all’omicidio sia andata oltre alla inattiva solidarietà morale e quindi la sua opera ha avuto una minima importanza nell’esecuzione dell’omicidio. Invece Paldino deve essere considerato colpevole così come il suo capo Marchese per gli altri reati di distruzione di cadavere e incendio doloso, commessi per occultare l’omicidio, nonché del furto aggravato dei due fucili e della rivoltella di proprietà della vittima.
In considerazione di tutto questo, il Tribunale Penale di Cosenza condanna Rodolfo Marchese all’ergastolo con isolamento diurno per 2 anni, pena comprensiva anche dei 5 anni di reclusione per gli altri reati. Antonio Paldino se la cava con il totale di 25 anni di reclusione. Per entrambi c’è anche la condanna alle spese e ai danni in favore delle parti civili. In più, per il solo Rodolfo Marchese, viene ordinata la pubblicazione della sentenza per estratto, e per una sola volta, nei comuni di Bisignano e Cosenza, nonchè sul quotidiano “Il Mattino” di Napoli e sul bisettimanale “Cronache di Calabria” di Cosenza.
Filippo Di Dio e Salvatore Verta vengono assolti per insufficienza di prove. È il 19 luglio 1935.
Il 18 marzo 1936 la Corte d’Assise di Cosenza dichiara inammissibili i ricorsi presentati dagli imputati.
Il 28 dicembre 1936 la Suprema Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso di Antonio Paldino avverso l’ordinanza di inammissibilità della Corte d’Assise di Cosenza.[1]

 

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

 

Lascia il primo commento

Lascia un commento