Sono le 20,30 del primo aprile 1933 e il diciannovenne Francesco Chilelli sta tornando a casa in contrada Castagno di Fiumefreddo Bruzio dopo essere stato a fare visita al suo compare Gaetano Frangella, che abita a poche centinaia di metri. Nel buio due vampate, le detonazioni di due fucilate e un disperato urlo:
– Scalascio mio, mi hanno ammazzato!
Palma Miceli, suo padre Saverio e sua madre Giovanna Provenzano sobbalzano: quella è la voce di Francesco, il marito di Palma da appena un mese! I tre si precipitano fuori di casa verso la direzione da cui provenivano la fucilata e l’urlo e trovano, ad una cinquantina di metri da casa, Francesco steso a terra a ridosso di una piccola pianta di castagno. Boccheggia, cerca disperatamente di prendere tutta l’aria che può, ma non c’è niente da fare, muore immediatamente. Le urla strazianti di Palma, la corsa disperata di suo padre verso le case più vicine e poi le urla delle persone che accorrono sul posto e poi ancora qualcuno che corre in paese per avvertire i Carabinieri e i genitori del giovane.
Il Maresciallo Menotti Minervini e i suoi uomini arrivano sul posto prima di mezzanotte e constatano che Francesco Chilelli è stato colpito da una fucilata all’addome. Poco dopo arriva il medico condotto che, alla luce di una lanterna, apre la camicia della vittima e osserva l’orrenda ferita: una breccia ovolare del diametro di circa sette centimetri dalla quale fuoriesce una massa di anse intestinali. Ai margini della breccia, molti forami a margini introflessi della grandezza di un cece, disposti a rosa. Poi molti altri fori di pallini nella regione clavicolo-omerale destra. Osservando meglio, il medico nota l’annerimento dei margini della ferita e la presenza di un cartoncino da cartuccia nella breccia, quindi le fucilate sono state esplose a brevissima distanza, forse cinque o sei metri.
Chi può avere ucciso, sparandogli nel buio nascosto dietro un cespuglio, un giovane appena ammogliato e da tutti ritenuto di carattere mite, incapace di reagire a qualsiasi provocazione, benvoluto da tutti e che non aveva nemici?
Palma, la fresca e giovanissima vedova, sospetta che ci possa essere un movente passionale che la riguarda. Prima del matrimonio era stata insistentemente corteggiata da Ernesto Iorio e un mese prima del matrimonio, incontratala le disse: “Tu te lo sposi il Chilelli, ma non te lo faccio godere!”. Non solo, Ernesto, dice la giovane vedova, le mandò a dire per certo Vincenzo Addentato che avesse pure sposato il Chilelli, ma che non glielo avrebbe fatto godere più di un mese. Esattamente ciò che è avvenuto e questa circostanza non può certamente passare inosservata. I Carabinieri rintracciano il giovanotto, ma è sotto gli occhi di tutti che non c’entra niente perché al momento dell’omicidio era in paese in compagnia di molte persone che lo confermano e, di più, Vincenzo Addentato giura di non aver mai riportato a Palma messaggi di Ernesto. Bisogna cercare altrove.
Il Maresciallo Minervini si mette a scavare nelle vite di tutti i parenti più prossimi della vittima per capire se possa trattarsi di una vendetta trasversale e dopo molti sforzi scopre che il suocero dell’ucciso, prima del matrimonio di Palma e Francesco, allo scopo di diseredare il figlio Giuseppe, vendette al nonno dell’ucciso un appezzamento di terreno per L. 5mila, ma che in effetti valeva molto di più, a condizione però che Francesco avesse sposato Palma ed andasse a convivere con lui. Tale condizione, per ovvie ragioni, non venne riportata nell’atto di vendita. Ma perché Saverio Miceli voleva diseredare suo figlio Giuseppe? I motivi debbono ricercarsi nel fatto che egli non era soddisfatto del comportamento del figlio il quale, anni prima, abbandonò la casa paterna ed andò a convivere in Falconara Albanese – contrada Vignale – con lo zio paterno Alessandro Miceli, che aveva in animo di dargli in sposa una sua figlia illegittima, procreata mentre era legalmente coniugato con donna tuttora vivente. Giuseppe, allora minorenne, chiese al padre il consenso per sposare la ragazza, consenso che il padre rifiutò. Di qui l’odio fra i due fratelli Miceli, odio che non è venuto mai meno. Giuseppe, intanto, raggiunta la maggiore età ed ultimato il servizio militare, sposò la ragazza, senza preoccuparsi dei genitori i quali non intervennero al matrimonio e la stessa cosa fecero Giuseppe e suo zio Alessandro al matrimonio tra Palma e Francesco.
Il denaro è sempre un movente plausibile, ma chi convince definitivamente che ad uccidere Francesco Chilelli sia stato suo cognato Giuseppe è un testimone, il quale racconta che quando ancora erano in corso le trattative di matrimonio tra Palma e Francesco, in occasione della fiera del Buon Consiglio a Falconara Albanese, Giuseppe Miceli gli confidò che se si fosse concluso il matrimonio e suo padre avesse dato tutto alla sorella, diseredandolo, dopo il matrimonio non avrebbe fatto terminare un mese ed avrebbe ucciso il cognato Chilelli.
Giuseppe Miceli finisce in carcere con l’accusa di omicidio premeditato, seguito subito dallo zio Alessandro, ritenuto l’ispiratore del delitto allo scopo di vendicarsi indirettamente contro il fratello. I due gridano la propria innocenza e si apre una durissima battaglia legale, che vede protagonisti in campi opposti i principi del foro cosentino Tommaso Corigliano, Francesco Vaccaro e Pietro Mancini. Esposti, memorie difensive, richieste di perizie, verifiche dei tempi di percorrenza tra diversi luoghi e quello dell’omicidio non si contano e tutte le opposte ricostruzioni sembrano convincenti. In questo clima, il Giudice Istruttore Tommaso Gemelli, l’8 maggio 1934 ritiene sufficienti le prove a carico degli imputati e li rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.
Il 20 ottobre 1934 la battaglia legale prosegue nell’aula della Corte d’Assise che, dopo tre udienze, il 23 ottobre, ribalta tutto e assolve Giuseppe Miceli per insufficienza di prove e suo zio Alessandro per non aver commesso il fatto, motivando, per quanto riguarda Giuseppe Miceli, che non c’è certezza sull’ora precisa in cui il delitto venne commesso – i testimoni ascoltati in aula lo collocano tra le 20,00 e oltre le 21,00 – né si è potuta calcolare con esattezza la distanza che intercede tra il punto in cui il cadavere è stato rinvenuto e la casa degli imputati. Su queste basi, è vero, non si può condannare. Per quanto riguarda Alessandro Miceli, la Corte è categorica: non esiste proprio nulla.
Gli assassini resteranno ignoti. Forse. Ma i percorsi che fa la Giustizia a volte sono tortuosi e, a volte, anche dettati dal caso. Mai dire mai.
Fiumefreddo Bruzio 1 aprile 1950. Dall’omicidio di Francesco Chilelli sono passati esattamente 17 anni. Qualche tempo prima alla Compagnia Carabinieri di Paola è arrivato il nuovo comandante, il Capitano Francesco Biondi, che rispolvera il fascicolo dell’omicidio e pensa di aver trovato delle palesi incongruenze che non erano state debitamente esaminate, così ordina al Maresciallo Gaetano Modica, attuale comandante della stazione di Fiumefreddo, di fare nuove indagini, consapevole delle difficoltà da affrontare per il troppo tempo passato.
Fiumefreddo Bruzio 1 aprile 1950. La mezzanotte è appena passata quando i Carabinieri, dopo lunghe, pazienti, accurate e laboriose indagini, pongono in stato di fermo l’ormai quarantacinquenne Vincenzo Addentato, proprio colui il quale era stato indicato dalla giovane vedova Palma Miceli come il latore di un messaggio di minaccia verso il suo futuro marito, da parte dell’altro pretendente Iorio. Dopo qualche ora i militari fermano un’altra persona, il quarantatreenne Domenico Sansone, entrato nella prima indagine solo come testimone, ma molto conosciuto nei tribunali per il suo lungo certificato penale. Ciò che scopre il Maresciallo Modica è stupefacente:
Già dal 1932, sebbene apparentemente non lo dimostrasse, nell’animo dell’Addentato era sorto dell’odio verso il Chilelli, siccome questi non aveva voluto sposare certa Domenica, cognata dell’Addentato perché, secondo la voce di allora, era stata sedotta dall’Addentato stesso. Nel frattempo Francesco Chilelli si era prima fidanzato e poi sposato, il 25 febbraio 1933, con Palma Miceli. Il matrimonio metteva fine alle speranze di Vincenzo Addentato di sistemare sua cognata e gli aveva fatto perdere anche l’amante perché, pare, da circa tre anni manteneva relazioni intime con Palma, dopo averla sedotta. Inoltre, tra Vincenzo e Francesco vi era stata una furibonda lite per una fisarmonica venduta dal primo al secondo e non pagata per l’intero importo pattuito. La tresca tra Palma e Vincenzo venne all’orecchio di Francesco dopo il matrimonio e la conseguenza fu che a Palma fu proibito di salutare l’ex amante e a quest’ultimo fu intimato di non passare sotto la casa della coppia. Tutto questo ha suonato come grave offesa all’Addentato e giorno dopo giorno gli ha fatto nascere il proposito di togliere di mezzo il Chilelli e così, circa quindici giorni prima, ha premeditato di ucciderlo e farla finita.
Ma Vincenzo Addentato, da uomo scaltro e astuto, ritenne necessario trovare un complice o, meglio, qualcuno che avesse fatto il lavoro sporco al posto suo e la scelta cadde su Domenico Sansone che rispondeva allo scopo riunendo tutti i requisiti necessari: avevano commesso molti furti insieme; Sansone già un anno prima aveva tentato di uccidere, per futili motivi, suo zio, sparandogli; era notorio inoltre che Sansone aveva relazioni intime con la propria sorella e non tollerava che se ne parlasse e così, Vincenzo Addentato, sfruttando questo argomento delicato, incominciò a preparare l’animo di Sansone. Verso la metà del mese di marzo 1933 gli riferì che Francesco Chilelli propagava la voce di averlo visto mentre si congiungeva con la sorella. Dopo qualche giorno, incontrandosi nuovamente, gli propose di togliere di mezzo il Chilelli perché non sapeva farsi i fatti suoi, incominciava a dare fastidio a tutti quanti e non voleva nemmeno, per gelosia, che l’Addentato passasse per la sua proprietà. La intelligente preparazione aveva fatto nascere nel Sansone un certo risentimento e così questi condivise la proposta di uccidere Chilelli.
Decisero di ucciderlo di sera quando ritornava a casa e Sansone si incaricò di sparargli ma, non avendo il fucile, questo gli fu dato da Vincenzo Addentato che glielo portò qualche giorno prima nella sua abitazione in contrada Barbaro. Addentato, invece, si incaricò di far combinare che Chilelli si trovasse a lavorare con loro in modo da poterlo trattenere per farlo rincasare più tardi. E così fu. Il primo aprile 1933, finito di lavorare, mentre Addentato, secondo il piano prestabilito, trattenne fino ad una certa ora Francesco Chilelli in casa di sua suocera, Sansone, che era andato via prima con una scusa, si appostò dietro un cespuglio vicino ad un castagno ad una cinquantina di metri dalla casa della vittima designata e attese pazientemente che Chilelli gli giungesse a tiro, cioè a non più di 5 metri, e gli sparò dal basso in alto colpendolo all’addome. Almeno questa era l’intenzione ma, nell’eccitazione del momento, toccò contemporaneamente tutti e due i grilletti producendo un’unica detonazione e lo colpì anche alla spalla. Sansone si allontanò subito e, facendo un lungo giro, andò a casa di Vincenzo Addentato in contrada Diamante nel comune di Falconara Albanese, dove si incontrarono per la restituzione del fucile. Poi Sansone, appresa la notizia che Francesco Chilelli era stato spacciato, se ne tornò tranquillamente a casa senza essere visto da alcuno. L’altro assassino, invece, tornò sul luogo del delitto ove rimase a vegliare vicino al morto fino dopo l’arrivo dei Carabinieri.
Per quanto molti conoscevano la relazione avuta con la moglie del morto, l’Addentato non fu sospettato perché era subito accorso sul luogo del delitto. Qualcuno, al contrario, trovò strano il fatto che si fosse allontanato con la scusa di dover controllare una carbonaia in cottura, cosa non vera, ma i suoceri testimoniarono onestamente che era stato in casa con loro fino a quando si sentì lo sparo e anche i parenti della vittima testimoniarono di averlo visto accorrere sul posto tra i primi insieme ai suoceri e i sospetti sul suo conto caddero subito. Di Sansone nessuno dubitò perché fu visto tornare a casa verso le 17,30.
Il Maresciallo Modica però sospetta che nel delitto possa essere coinvolta anche la vedova di Chilelli e provvede a fermarla, ma dopo un paio di giorni, poiché non sono emerse responsabilità a suo carico, viene rimessa in libertà.
Interrogato, Domenico Sansone confessa subito:
– È vero che Chilelli è stato ucciso da me, ma mi ha mandato Vincenzo Addentato e lui stesso mi ha dato il fucile.
Vincenzo Addentato, al contrario, nega tutto e accusa il compare:
– Sono innocente, è stato Sansone e me lo ha confessato lui stesso tre o quattro giorni dopo il funerale. Vedendolo passare l’ho chiamato e gli ho chiesto cosa aveva quel giorno che zappavamo insieme, quando si è incazzato e poi se n’è andato via prima di sera. Sansone mi rispose di lasciarlo andare ma poi, viste le mie insistenze, mi ha confidato che tre o quattro giorni prima dell’omicidio mentre si trovava in contrada “Cozzo della finestra” insieme alla sorella e stava scherzando toccandola alla faccia e alle braccia, l’aveva visto Francesco Chilelli che passava per andare a fare “butumu”, cioè erba. Chilelli si mise a ridere ma Sansone non diede importanza alla cosa. Quel giorno, invece, che stavamo zappando, Chilelli gli aveva detto di averlo visto proprio mentre si congiungeva con la sorella e per quello Sansone si era offeso. Temendo che la notizia si propagasse, ha pensato di ucciderlo e l’ha fatto…
I due vengono messi a confronto e, nonostante le precise accuse di Sansone, Addentato continua a negare di avere organizzato l’omicidio e continua ad attribuirne la responsabilità al solo Sansone. Solo il 6 aprile, dopo vari confronti sia con Sansone che con altri testimoni, Addentato si decide a confessare:
– Volevo vendicarmi di Chilelli. Una quindicina di giorni prima del delitto ho incontrato Sansone in contrada Due Fiumi, dove inizia la conduttura dell’acqua per il mulino di Tiribinti e gli ho detto che Chilelli parlava di averlo visto mentre si congiungeva con la sorella e Sansone ha detto che era vero. Gli
chiesi se aveva intenzione di vendicarsi perché anche io avevo qualcosa da fargli pagare e, ottenuto il consenso, ho proposto di toglierlo di mezzo alla prima occasione. Siamo rimasti d’accordo che doveva ucciderlo Sansone perché per me era più facile rimanere in casa di mia suocera senza destare sospetti e in questo modo potevo trattenere Chilelli fino a quando si faceva buio e fino a quando Sansone faceva in tempo a ritornare sul posto dopo essersi armato di fucile. Poiché Sansone mi ha fatto presente che non aveva fucili buoni, gli ho dato il mio…
chiesi se aveva intenzione di vendicarsi perché anche io avevo qualcosa da fargli pagare e, ottenuto il consenso, ho proposto di toglierlo di mezzo alla prima occasione. Siamo rimasti d’accordo che doveva ucciderlo Sansone perché per me era più facile rimanere in casa di mia suocera senza destare sospetti e in questo modo potevo trattenere Chilelli fino a quando si faceva buio e fino a quando Sansone faceva in tempo a ritornare sul posto dopo essersi armato di fucile. Poiché Sansone mi ha fatto presente che non aveva fucili buoni, gli ho dato il mio…
Per Sansone è arrivato anche il momento di liberare del tutto la propria coscienza e, dopo aver confessato l’omicidio di Francesco Chilelli, confessa anche una serie interminabile di furti commessi insieme a Vincenzo Addentato ed altri che, nel frattempo, sono emigrati. Questi reati, però, non li pagheranno perché si tratta di reati prescritti e più volte amnistiati.
Omicidio aggravato dalla premeditazione è l’accusa a carico di Domenico Sansone.
Concorso in omicidio aggravato quella a carico di Vincenzo Addentato.
È il 19 luglio 1951 quando il Giudice Istruttore li rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.
Il 6 dicembre 1951 comincia il dibattimento. Addentato ritratta e dice:
– Dissi ciò che piacque ai verbalizzanti per liberarmi dallo stato di depressione e di stanchezza in cui mi trovavo. I Carabinieri non mi usarono violenza vera e propria, invece per sei giorni consecutivi, giorno e notte dall’1 al 6 aprile 1950, mi lasciarono in piedi, digiuno e senza nemmeno un goccio d’acqua, sorvegliato a vista da un Carabiniere a turno il quale, quando perché assonnato chiudevo gli occhi e chinavo il capo, mi dava uno schiaffo per svegliarmi. Un giorno chiesi al Maresciallo dell’acqua ed egli rispose: “devi crepare se non dici quello che ha detto Sansone e se non consenti, né ti farò dormire, né ti farò mangiare”. Mi fu detto prima che cosa dovevo riferire, poi ripetevo quanto mi era stato detto…
E gli interrogatori davanti al Pretore, prima, e al Giudice Istruttore, poi? “Mi avranno mal capito o io non mi sarò espresso bene…”
Il 20 dicembre accade qualcosa di estremamente grave: qualcuno penetra nella Cancelleria della Corte d’Assise passando attraverso l’aula dibattimentale e ruba il fucile usato per uccidere Francesco Chilelli e 9.000 lire che sarebbero dovute servire per pagare le indennità dei testimoni e quasi l’intero verbale di una deposizione relativa ad un altro processo. Ancora più grave, se possibile, è che i ladri sono scappati passando dall’ufficio del Presidente della Corte di Assise.
Nonostante ciò, il dibattimento va avanti senza altri scossoni. Nell’udienza del 12 gennaio 1952, gli avvocati Pietro e Gaetano Mancini chiedono per il loro assistito Vincenzo Addentato l’assoluzione. Gli avvocati Orlando Mazzotta e Roberto Fagiani chiedono per Domenico Sansone l’esclusione dell’aggravante della premeditazione e la concessione delle attenuanti della provocazione, dei valori morali e delle attenuanti generiche e, quindi, la condanna al minimo della pena.
Il Pubblico Ministero chiede per Vincenzo Addentato la condanna all’ergastolo e per Domenico Sansone la condanna, con la concessione delle attenuanti, a 24 anni di reclusione e il beneficio del condono di 10 anni della pena.
Nella stessa udienza viene emessa la sentenza:
Vincenzo Addentato, esclusa l’aggravante della premeditazione e con la concessione delle attenuanti generiche, viene condannato a 22 anni di reclusione, più pene accessorie.
Domenico Sansone gode degli stessi benefici del correo, ma gli viene contestata l’aggravante della recidiva generica (per aver sparato contro suo zio) e viene condannato a 20 anni e 1 mese di reclusione, più pene accessorie.
Ad entrambi gli imputati vengono condonati, in base ai Regi Decreti n. 1511 del 25/9/1934, n. 77 del 15/2/1937, n. 56 del 24/2/1940, n. 1156 dell’1/10/1942 e Decreto Legge n. 930 del 23/12/1949, complessivamente 11 anni della pena loro inflitta.
I ricorsi in Appello vengono rigettati il 21 gennaio 1953.
Il 26 agosto 1953, essendo scaduti i termini di legge per la presentazione dei ricorsi per Cassazione, la pena diventa definitiva.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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