È la sera del 18 gennaio 1923 e fa freddo dopo l’abbondante nevicata del pomeriggio. Nella cantina di Concetta De Rosa a Fagnano Castello gli avventori giocano a carte e bevono vino. Medoro Proto e Francesco Sbarra entrano e vedono, seduto a un tavolino, Rosario Ardis che sta bevendo con altri amici. Uno di questi, Biase Curti, li invita a sedersi con loro ma Proto rifiuta cortesemente per la presenza di Ardis col quale da tempo ha delle beghe che spesso sono finite nella caserma dei Carabinieri e in Pretura. Ardis, forse perché indispettito dall’invito rivolto al suo rivale esce dalla cantina.
– Stai pure qui che se viene compare Rosario lo tiro io – dice Curti a Medoro, rinnovando l’invito a sedersi al tavolo, visto che compare Rosario è uscito, ma a queste parole Medoro si turbò.
Francesco Sbarra capisce che potrebbe nascere l’ennesima rissa e tira via l’amico riportandolo a casa, ma sembra che Proto sia ormai partito di testa perché afferra un bastone e fa per tornare verso la cantina. Sbarra lo ferma, gli prende il bastone e lo riporta a casa. Niente da fare, Proto, ravvolto in un lungo mantello, si avvia di nuovo verso la cantina ma Sbarra questa volta non lo ferma, limitandosi a seguirlo. Medoro entra nella cantina e Sbarra resta fuori. Pochi momenti dopo arriva Ardis con suo fratello Giulio ed entrano a loro volta, proprio nel momento in cui Medoro sta uscendo. I due si incontrano sulla soglia e sono a meno di un passo l’uno dall’altro. Sembrano attimi interminabili, poi Ardis smorza la tensione dicendo:
– Vieni a bere un bicchiere di vino
– Da te non accetto niente! – Proto scuote la testa in segno di diniego e tutti pensano che da un momento all’altro i due si azzufferanno,
– Lasciate stare che il vino si berrà un’altra volta – interviene Sbarra mettendosi tra i due avversari.
Proprio in quest’istante Proto apre il mantello e tira fuori una scure con la quale colpisce violentemente Rosario alla testa, facendolo stramazzare al suolo sanguinante, poi, approfittando della confusione che si è creata, scappa nel buio.
Ardis viene portato nella farmacia di Ernesto Franco ed è lì che lo trovano i Carabinieri. Sull’autore dell’aggressione non ci sono dubbi e Sbarra si incarica di accompagnare il Brigadiere Raffaele Pizzoleo a casa di Proto, ma non lo trovano.
Nonostante le sue condizioni siano gravi per la frattura dell’osso occipitale, Ardis è in grado di parlare, seppure a stento:
– Sono stato ferito da Medoro Proto improvvisamente e senza motivo alcuno… ebbi ad accorgermi che Medoro era in attesa sulla porta della cantina… certo Francesco Sbarra spalleggiava Medoro…
Dopo questa dichiarazione, nei guai finisce anche Francesco Sbarra il quale, forse avvisato, non si fa trovare a casa.
Non passa che qualche ora e Rosario Ardis muore. Omicidio.
Le ricerche dei due latitanti proseguono senza soste, ma sembrano svaniti nel nulla. La sera del 4 febbraio 1923 si presenta in caserma Giulio Ardis, il fratello della vittima, e dice al Brigadiere Pizzoleo di sapere dove si trova Medoro Proto.
– È sicuramente in contrada Tisciolo, nei pressi della Fornace – assicura.
Viene subito predisposto un servizio e, verso le 22,30, una pattuglia composta da Pizzoleo e dai Carabinieri Giuseppe Mazzaferro e Luigi Bova, accompagnati dallo stesso Ardis, parte per tentare la cattura del latitante. Verso l’1,30 del 5 febbraio sono sulla strada nei pressi del luogo indicato. Ad una decina di metri da loro qualcosa si muove tra gli arbusti.
– È lui! Fermo! – urla il Brigadiere.
Un lampo accompagnato da una detonazione li sorprende, mentre Proto scappa. I militari si lanciano all’inseguimento ma, fatti appena cento metri circa, Proto si volta e spara di nuovo. Tre colpi questa volta. Poi si rimette a correre. Il Brigadiere ad un certo punto cade in un fosso, profondo cinque metri, battendo violentemente il petto contro il calcio del fucile e resta tramortito. Mazzaferro e Bova continuano l’inseguimento. Ardis, che prudentemente è rimasto più indietro, sente i lamenti del Brigadiere e lo soccorre. Dopo qualche minuto, malfermo sulle gambe, Pizzoleo riprende l’inseguimento.
Nel frattempo anche Bova cade e ad inseguire il fuggiasco resta solo Mazzaferro il quale è ormai ad una decina di passi da Proto. Un ultimo sforzo e poi lo ammanetterà.
Correndo, Proto si gira e spara altri due colpi urlando.
– Vigliacco, torna indietro se non vuoi morire!
Questa volta Mazzaferro risponde al fuoco. Spara quattro volte contro Proto e la sua mira è micidiale. Il fuggiasco fa qualche passo e poi rotola giù lungo la scarpata sottostante. Morto.
Dopo pochi minuti, uno dopo l’altro, arrivano anche il Carabiniere Bova e il Brigadiere Pizzoleo.
Battista Cozza abita a pochi metri dal luogo dove è avvenuta l’ultima sparatoria e si sveglia di soprassalto. Esce in mutande e sale sulla sommità della collinetta, cioè verso il punto da dove gli è sembrato che i colpi provenissero. Qualche metro sotto di lui sente delle persone. Ha paura che sparino anche contro di lui e urla:
– Non sparate perché io sono in mutande!
– Reali Carabinieri! – gli risponde il Brigadiere e Cozza si tranquillizza perché ne ha riconosciuto la voce. Poi riconosce, o almeno così gli sembra, uno dei fratelli Ardis, non Giulio ma Francesco, quello che tutti chiamano ‘U Surdu – abbiamo inseguito fin qui Medoro Proto ma è riuscito a sottrarsi alla cattura – lo informa il Brigadiere (il quale una volta tornato in caserma verbalizzerà l’accaduto così come lo abbiamo letto).
Battista Cozza, pensando di fare una buona cosa, gli dice:
– Venite a casa che vi preparo il caffè.
– Grazie, non possiamo…
A questo punto Cozza torna a letto, ma verso le 5,00 sente bussare alla porta. Sono il Carabiniere Bova e ‘U Surdu che gli chiedono della legna per accendere un fuoco e riscaldarsi.
– Dobbiamo piantonare il cadavere di Proto…
– Ma… non era scappato?
– Lo abbiamo trovato morto…
Cozza si mette qualcosa addosso e va dietro al Carabiniere e comincia a pensare che ci sia qualcosa di strano: il cadavere è proprio nel posto da dove qualche ora prima il Brigadiere gli ha parlato. “Perché il Brigadiere mi ha detto che Medoro era fuggito mentre doveva averne quasi ai piedi il cadavere?” si chiede. Poi getta un’occhiata al corpo steso a terra sul fianco sinistro con le mani semi aperte bene in vista e si fa il segno della croce. Nota anche un’altra cosa che gli sembra strana: i due Carabinieri che piantonano il cadavere hanno i pantaloni della divisa e le giacche da borghesi. Con questi dubbi rientra a casa, riproponendosi di tornare più tardi. E infatti torna dopo un paio di ore e, gettata un’occhiata al cadavere, che adesso è coperto da un lenzuolo bianco, spalanca la bocca per la sorpresa: nella mano destra c’è una rivoltella! Anche l’abbigliamento dei Carabinieri è diverso, adesso sono vestiti in divisa.
L’arma che impugnava il Medoro consiste in una rivoltella a rotazione tipo Saint-Etien e alla presenza dell’Autorità Giudiziaria costatammo che era caricata a sei colpi, tutti esplosi, verbalizza il Brigadiere Pizzoleo.
I Carabinieri e Giulio Ardis vengono interrogati dal Pretore e forniscono tutti la stessa ricostruzione dei fatti: raccontano che Proto è comparso davanti a loro all’improvviso sparando mentre scappava, raccontano dell’inseguimento, delle cadute e dell’ultima, fatale sparatoria e di come lo abbiano ritrovato con la rivoltella ancora in pugno.
Il Carabiniere Giuseppe Mazzaferro viene indagato per omicidio volontario, ma è un atto dovuto, le testimonianze dei suoi colleghi e di Giulio Ardis, quelle che contano, sono tutte a suo favore. Battista Cozza, invece, racconta al Pretore ciò che ha visto e tutte le sue perplessità. Altri raccontano una diversa successione nell’esplosione dei colpi di arma da fuoco e Carlo Cozza, lontano parente dell’ucciso, lancia accuse gravi e precise contro i Carabinieri:
– Adempio al dovere di mettere in guardia la giustizia contro la commedia che si sta recitando allo scopo di salvare quei carabinieri che hanno voluto barbaramente uccidere il mio povero cugino. Io ho fatto per ben tre anni il Carabiniere e sarei il primo a giustificare la Benemerita Arma se sapessi ch’essa ha agito nell’adempimento di un suo dovere. Invece in questo caso non è così. Anzitutto informo la Signoria Vostra che in quella sera i due carabinieri Bova e Mazzaferro furono visti vestiti in maschera (Bova da pulcinella e Mazzaferro da donna, come raccontano altri testimoni, nda) allo sposalizio tra Giacomino Trotta ed Assunta Amato. Ad adempiere al servizio andarono solo dopo questa festa, verso le 22,30. a dimostrare l’artifizio delle loro versioni sta quanto segue: nessun colpo fu sparato sulla via rotabile, diversamente sarebbe stato inteso da Pasquale Tarsitano, che ha la sua abitazione in prossimità della strada stessa. Inoltre è addirittura inesplicabile che un individuo colpito a morte, rotolando per parecchi metri lungo il pendio, possa mantenere la posizione in cui si trovava il cadavere, che sembrava quasi composto a bella posta. Ma poi, quello ch’è addirittura assurdo è l’ammettere che il mio povero cugino, rotolando, abbia potuto mantenere la rivoltella in mano, così come è stata vista da Vostra Signoria. Ad ogni modo l’arma, e specialmente il tamburo, si sarebbe dovuta trovare coperta di terriccio, nulla, invece, di tutto questo. Sono cose che debbono essere spiegate e sulle quali la Giustizia deve fare le opportune indagini. Devesi ancora tener presente che se il disgraziato fosse davvero precipitato dall’alto in basso, avrebbe dovuto, tra i rovi, perlomeno stracciarsi la giacca o comunque fermarsi in presenza di un ostacolo, viceversa sul luogo dove la vittima fu rinvenuta era pendio e le pietre notate da Vostra Signoria furono messe da me e dal Brigadiere di Malvito. Per quanto mi consta il povero mio cugino non è mai stato in possesso di una rivoltella; se avesse avuto tale arma, se ne sarebbe servito per commettere il delitto contro Rosario Ardis. Aggiungo che sarebbe bene accertare la località dove sarebbe caduto il Brigadiere Pizzoleo, che non si sa precisamente dove sia.
Sembra proprio che i dubbi di Carlo Cozza siano più che legittimi. Vedremo che piega prenderà l’indagine.
Ad avvalorare le perplessità espresse da Carlo Cozza ci sono sia la perizia sul luogo dove fu ritrovato il cadavere, eseguita dal Pretore di San Marco Argentano, sia i risultati dell’autopsia, eseguita dai dottori Federico Franco e Pasquale Farsetti. Vediamo come sono i luoghi dove è avvenuto lo scontro a fuoco: si giunge ad una collinetta, alla cui vetta trovasi una pagliaia murata, mentre nel lato che guarda a Nord è situata una casa colonica abitata da Cozza Battista, distanti una dall’altra un cento metri. sulla falda opposta della collinetta, a Sud, che discende a valle con un declivio alquanto notevole, alla distanza di cento metri o poco più dalla pagliaia, notiamo avvolto in un lenzuolo bianco il cadavere di un uomo che indossa abiti di fustagno nero e scarpe chiodate di cuoio nero. Detto cadavere giace sul lato sinistro, con la testa poggiata sul braccio omonimo, ch’è alquanto ricurvo. Le gambe sono anch’esse un po’ ricurve ed incrociate, mentre il braccio destro è disteso sulla persona e nella mano impugna una rivoltella. Alla distanza di un metro o poco più dalla testa del cadavere trovasi un cappello nero col cocuzzolo poggiato sul terreno e le falde sollevate ed in prossimità dello stesso cappello notiamo una mantellina militare grigio-verde, raccolta e ripiegata. Il terreno pieno di sterpi ed assai bagnato a causa dell’abbondante pioggia e sugli abiti che indossa il cadavere nulla si osserva che possa far sospettare che una colluttazione abbia avuto luogo tra la vittima e l’aggressore o gli aggressori.
Ora l’autopsia: il vestiario non era né scomposto, né lacerato da farci supporre una qualsiasi colluttazione, né era molto sporco di sangue per l’assenza di grave emorragia esterna, né tampoco era inzaccherato di fango, che anzi persino le scarpe del morto si mostravano pulite. Sulla mantellina militare si notano nella parte laterale sinistra due fori distanti circa quindici centimetri e che corrispondono ad altri due fori consimili che si trovano sulla manica sinistra e sulla parte laterale sinistra della giacca, gilè, camicia e maglia del morto. Anche sulla parte destra degli indumenti, all’altezza della mammella si notano due fori poco distanti l’uno dall’altro. Sulla metà sinistra del pantalone si osservano altri due fori: in avanti l’uno, in corrispondenza della coscia, indietro l’altro, verso la natica sinistra. Sul braccio sinistro una ferita di forma circolare a margini contusi. Detta ferita ha un tragitto che va obliquamente dal basso in alto e dall’esterno all’interno e termina in un’altra ferita circolare, a margini frastagliati, che trovasi sulla regione laterale interna del braccio. Questa ferita combacia esattamente con altra di forma un po’ ellittica che trovasi sulla parte laterale sinistra del torace, sulla linea ascellare media, in corrispondenza della settima costola e che penetra in cavità. Al di sopra di questa ferita, dieci centimetri circa più in alto, all’altezza del capezzolo della mammella, trovasi altra ferita a forma circolare e margini contusi penetrante anch’essa in cavità. I fori non presentano né alone di annerimento, né bruciacchiature.
Sulla parete laterale destra del torace, a quattro centimetri dal capezzolo della mammella, si notano altre due ferite circolari, a margini sfrangiati con estroflessione dei tessuti. Le due pallottole, esplose tra i tre ed i sei metri di distanza, sono penetrate dal lato sinistro del torace, hanno attraversato i polmoni ed il cuore, e sono fuoriuscite dalla parte destra del torace: morte istantanea. Ma sono le ferite alla gamba sinistra quelle ritenute più interessanti per ricostruire l’esatta dinamica dei fatti: per il notevole dislivello dei due forami, al di sopra del ginocchio verso il lato interno della coscia l’uno, ed alla metà del solco della natica l’altro, non si comprende bene come il tragitto del proiettile, pure essendo il ferito in posizione poco più in alto del feritore, possa andare dal ginocchio alla natica. Per comprendere ciò occorre pensare ad un meccanismo di azione alquanto diverso. Stabiliamo primieramente che il colpo alla coscia non era mortale e ha dovuto precedere di pochi secondi gli altri due al torace, subitamente mortali. E poiché abbiamo detto essere difficile, se non addirittura impossibile, che il feritore stando all’impiedi, pure essendo più basso del ferito, abbia potuto colpire il ginocchio con foro di uscita alla natica, noi riteniamo che Proto Medoro ha ricevuto il primo colpo stando abbassato al suolo, in atto di chi tenta di fuggire furtivamente. Se noi vogliamo considerare tale posizione naturale ed istintiva in chi tenta di fuggire di nascosto, vediamo che la coscia, abbassandosi ed avvicinandosi alla gamba, verrà a trovarsi in posizione quasi orizzontale alla direzione del proiettile tirato dall’avanti all’indietro ed in tale posizione, trovandosi per ragioni statiche le ginocchia un po’ divaricate, sarà più facile colpire la porzione laterale interna del ginocchio, come nel nostro caso. La direzione poi del colpo e la situazione delle ferite ci fa ritenere che il proiettile ha seguito una traiettoria diversa da quelli diretti al torace e perciò crediamo che esso sia stato tirato, con molta probabilità, se non con assoluta certezza, da persona diversa, munita d’arma della stessa natura e calibro. A questo punto i periti, spinti dalla voglia di trovare conferme alle loro tesi, vanno anche loro ad ispezionare i luoghi dove è avvenuto il fatto e, nella loro ottica, trovano ciò che cercano, riuscendo ad essere molto più precisi del Magistrato che li ha preceduti: il luogo si presenta con una collinetta di facile accesso dal lato NORD, ove il terreno, in parte ricoperto a cespugli, sale in dolce pendio. Quasi sulla cresta della collina vi è una capanna chiusa a semplice incannucciata; a distanza di venti metri o poco più sul declivio, la casa di un contadino. Dal lato SUD, che guarda l’abitato del Comune di San Marco, la collina precipita in ripida discesa con terreno ricoperto da ginestre ed olivi. Da questo lato è difficile l’accesso, più difficile ancora una fuga ed un inseguimento. Il Proto Medoro cadde ucciso ai piedi di un ulivo a dieci metri circa dalla cresta della collina restando con i piedi in basso e la testa in alto sul detto pendio. Ora, se si deve ritenere inverosimile la versione dell’inseguimento attraverso i campi per due chilometri, si dovrà supporre logicamente che per delazione ricevuta da confidenti dei carabinieri, il Proto Medoro fosse sorpreso nel pagliaio. Egli avrà sentito il rumore dei passi o gli ordini impartiti, anche a voce bassa, alle due pattuglie per l’accerchiamento ed avrà cercato di fuggire di nascosto abbassandosi dietro la capanna o fra i cespugli. Scorto e non arrestando la sua fuga, avrà ricevuto il primo proiettile, che gli ha traversato la coscia, dalla pattuglia appostata dietro la casetta. Allora gli si presenta come unica via di scampo la ripida discesa verso Sud, per la quale egli si butta saltando la cresta della collina, sperando di fuggire ancora, ma viene subito raggiunto da altri due proiettili che lo colpiscono al torace, tirati uno dopo l’altro dalla stessa o da altra pattuglia situata sul davanti, che subito dopo il colpo avrà cercato d’aggirarlo spostandosi in avanti ed in basso. Tale ipotesi spiega la leggiera obliquità dei colpi al torace: dal basso in alto e dal lato sinistro alla mammella destra, con leggiera obliquità anche da dietro in avanti.
Potrebbe essere un buon contributo per chiarire alcuni aspetti molto controversi della vicenda e rispondere a molte delle legittime perplessità esposte da varie parti: perché non si è riusciti, o non si è voluto, trovare il fosso dove è caduto il Brigadiere Pizzoleo? Come mai molti testimoni insistono sulla presenza dei Carabinieri Mazzaferro e Bova alla festa di matrimonio fino a sera inoltrata? Forse perché, tra dire e non dire, erano ubriachi? È possibile che i vestiti di un uomo morto che rotola per una decina di metri lungo un pendio molto scosceso restino intatti e puliti e che l’arma impugnata gli resti stretta nella mano? Oppure è vero, come sostiene Battista Cozza, che la pistola fu messa nella mano del morto in un secondo tempo? Come mai la mantellina di Proto era ripiegata accanto al cadavere?
Ma anche dall’altro punto di vista, quello cioè dei Carabinieri e degli inquirenti, ci sarebbero delle domande da porre: si mira a stabilire che la morte di Medoro Proto fu una vera e propria esecuzione, forse premeditata? Se così fosse, quale sarebbe stato il motivo di un fatto così enorme? Sarebbe cambiata qualcosa se i Carabinieri, invece di insistere col racconto dell’inseguimento su un terreno molto difficile, avessero detto di essersi appostati intorno al pagliaio per arrestare il latitante e che il conflitto a fuoco avvenne solo in quel momento?
Un ginepraio in cui si rischia di restare impigliati con brutte conseguenze. Ma tanto il Pubblico Ministero che il Procuratore Generale del re non hanno dubbi: non va passato sotto silenzio che i periti settori, esorbitando dal loro ufficio, hanno voluto fare una ricostruzione del fatto che è in perfetto ed evidente contrasto con tutte le altre risultanze del processo. Poiché la versione data dal Mazzaferro concorda in modo armonico coi risultati di tutta la prova specifica e generica, quest’Ufficio chiede che l’Eccellentissima Sezione d’Accusa dichiari non doversi procedere a carico di Mazzaferro Giuseppe per i reati a lui ascritti per avere operato nello stato di difesa legittima. È il 6 marzo 1924.
Due mesi dopo la Sezione d’Accusa accoglie la richiesta e questa vicenda si chiude.
Però rimane aperta un’altra questione: che fine ha fatto Francesco Sbarra, coimputato con il defunto Medoro Proto nel processo per l’omicidio di Rosario Ardis?
Intanto bisogna dire che a Fagnano giravano voci su un presunto favoreggiamento offertogli dai Carabinieri del luogo – lo avrebbero trovato a casa e non lo avrebbero arrestato – e sul quale indagano i militari di San Marco Argentano, senza risultati.
Francesco Sbarra viene arrestato dal Brigadiere Pizzoleo e dal Carabiniere Bova il 15 febbraio 1923, in piena bagarre per la vicenda di Medoro Proto. Si dichiara innocente spiegando, e i Carabinieri dovrebbero ricordarlo, che fu proprio lui a guidare i militari a casa di Proto subito dopo il ferimento e che fu lui a togliere il bastone che Proto avrebbe voluto usare per colpire Rosario Ardis. Indica anche molti testimoni che lo scagionerebbero e infatti nessuno dice che ha partecipato in alcun modo all’aggressione, anzi c’è chi giura di averlo sentito dire a Proto: “Compare, andiamo a casa”. In effetti ad accusarlo è solo Giulio Ardis, il fratello di Rosario, il quale, al contrario, riferisce di averlo sentito dire, dopo il colpo di scure: “Stai bene adesso?”.
Ma allora perché è scappato?
– Per sconsiglio di Sebastiano Arena…
Interrogato, Arena risponde:
– Avendo saputo della quistione avvenuta tra Ardis Rosario e Proto Medoro, nella mia qualità di fascista, feci delle indagini se vi fosse stato un movente politico, ma invece mi risultò che si trattava di vecchi rancori personali fra i due. Mi si disse pure che Francesco Sbarra si trovò nel fatto e che aveva levato un bastone al Proto, prima che questi colpisse l’Ardis con la scure. Lo Sbarra ebbe a domandarmi che cosa diceva il ferito e io, allora, gli feci noto che aveva fatto il suo nome ed allora lo Sbarra mi disse di essere intervenuto come paciere levando il bastone a Medoro…
Bene! Arena finisce indagato per complicità in omicidio e favoreggiamento, ma i tempi sono quelli che sono e non ci sono conseguenze.
Ci si aspetterebbe per Sbarra un proscioglimento in istruttoria, però questa vicenda è costata due morti e un procedimento disciplinare ai Carabinieri Mazzaferro e Bova per la partecipazione in maschera alla festa di matrimonio e non si può chiudere in quattro e quattr’otto. Il 2 luglio 1923 la Sezione d’Accusa rinvia Francesco Sbarra al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di concorso in omicidio. Per Medoro Proto viene dichiarata estinta l’azione panale in seguito alla sua morte.
Il 26 marzo 1924 inizia il dibattimento e c’è subito una novità: la famiglia Ardis ritira la costituzione di parte civile e questa mossa è un bel vantaggio per Francesco Sbarra. Ma la dichiarazione in aula del Brigadiere Pizzoleo rischia di inguaiare di nuovo Sebastiano Arena:
– Non devo tacere che l’Arena, per la sua condotta, non merita fede illimitata.
Niente da fare nemmeno questa volta.
Il 29 marzo 1924 la giuria assolve Francesco Sbarra per non aver commesso il fatto.[1]
[1] ASCS, Processi Penali. Le vicende narrate sono contenute in due distinti procedimenti penali.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.