È la sera del 27 maggio 1864, giorno del Corpus Domini, e piove a dirotto. A casa di don Giovanni De Fiore a Rota Greca si sta festeggiando il matrimonio di sua figlia Carmela con Pasquale Perugini di Rende. A partecipare al ballo ci sono molti invitati e tra questi anche don Bruno Cistari, sindaco del paese e cugino della sposa, nonché tutti i suoi fratelli e sorelle.
Alle 21,00 circa, Maria Peppina Marchese, che abita di fronte ai De Fiore, esce di casa per gettare il vaso immondo e nel buio, sotto la pioggia battente, intravede due sagome accovacciate dietro la siepe del giardino di D. Beniamino De Fiore che ciguliavano fra di loro. Impauritasi, gittò subito il cesso e fuggissene in casa.
Sono ormai le 23,00, la festa sta finendo e gli invitati se ne vanno alla spicciolata. Se ne vanno anche Bruno Cistari e i suoi fratelli, che si attardano un po’ sotto la loggia a salutare gli sposi. All’improvviso il buio viene squarciato da due lampi contemporanei a due forti esplosioni. Tuoni? No. Sono due colpi di schioppo che, da dietro la siepe, lasciano partire una quantità di pallettoni di piombo che colpiscono il sindaco alle spalle.
– Ohi frate! Ohi frate! – urlano le sorelle di Bruno Cistari che si buttano su di lui, il quale a sua volta urla per il dolore delle ferite. Immediatamente la musica cessa e tutti, invitati ancora in casa e vicini svegliati dai colpi e dalle urla, si riversano in strada per soccorrere il ferito, che viene trasportato immediatamente in casa De Fiore dove c’è ancora il medico del paese che lo visita. Può cavarsela, le ferite non sembrano così gravi. Qualcuno viene immediatamente incaricato di andare a Cerzeto per avvisare il Pretore e i Carabinieri.
Bruno passa una notte relativamente tranquilla e la mattina seguente, poco dopo l’alba, quando arrivano il Pretore e i Carabinieri, risponde alle domande:
– Per ora non ho elementi contro di chicchessia. Però non debbo tacere che da più di un anno vivo in inimicizia non interrotta, non solo per ragione della carica di sindaco di cui vado rivestito, con i fratelli D. Filippo, D. Carlo, Antonio e Michele Dores, miei compaesani, ma eziandio perché dissenzienti al mio modo di vedere in fatto di politica, essendosi essi addimostrati in ogni tempo acerrimi nemici dell’attuale sistema governativo, tanto vero che, or sono due anni dietro, colla veste di sindaco fui costretto scrivere al Prefetto della Provincia che il predetto D. Filippo Dores, colla qualità di Parroco, rifiutavasi dare sepoltura ad un defunto mio cugino, Gaspare De Fiore, pel pretesto di essere costui capitano garibaldino e comandante questa Guardia Nazionale e dietro il mio rapporto, il Parroco ed il di lui fratello Carlo furono sottoposti a giudizio e condannati. Suppongo quindi che gli anzidetti Dores, D. Carlo ed Antonio come agenti materiali, D. Filippo e Michele nella qualità di mandanti di animo malvaggio e tirannico, siansi determinati ad assassinarmi per libidine di vendetta e per disfarsi di un uomo che, riconfermato nella carica di Sindaco giorni fa, vegliava attentamente sui loro passi…
Le ferite però sono molto più gravi di quanto si pensasse e dopo qualche ora Bruno Cistari muore.
Anche Giuseppe Cistari, il padre della vittima, sospetta che dietro all’omicidio ci siano i fratelli Dores e non perde tempo a raccontare altri fatti che li avrebbero determinati a liberarsi del figlio. Intanto racconta altri particolari sul mancato funerale:
– Dovendolo portare in chiesa, si pretendeva di averlo trasportato per la strada consolare o sia per dove doveva passare il Santissimo. Il Parroco D. Filippo Dores si oppose e lo condusse in chiesa per altro viottolo. Bruno aveva fatto fare una orazione funebre al suo fratello Filaredo, ma il Parroco non volle che l’avesse recitata. Di questo il Bruno se ne rammaricò tanto per l’offesa che avea pratticato al cugino Fiore, quanto per non avere fatto recitare al fratello. In questo frattempo sopraggiunse il Capitano D. Alfonso Vaccaro ed informatosi del affare predetto, all’arrivo del D. Filippo lo costituì in carcere. Questo fu fatto per assertiva che fece il Bruno essendo corrivo per l’antecedenti fatti ai suoi parenti e considerate che nemicizia ave potuto incorrere…
Poi passa a narrare le colpe politiche in senso stretto:
– Fu incolpato pure come che i sbannati non volevano partire mediante suo discernimento che faceva con dire che Francesco era per venire di nuovo al trono e tutto ciò appare da sentenza scritta da questa giudicatura. Venghiamo all’altro fratello D. Carlo Dores. Lo stesso andava imparando versi ai ragazzi e l’istruiva in questo modo: “Voi Galantuomini tagliatevi il mustazzo, appicatelo a prosciutto che Francesco è loco sutta…”(i versi esatti, riportati nel ricorso fatto da Carlo Dores al Ministro di Grazia e Giustizia per la revoca del domicilio coatto – respinto per difetto di bollo – sono: Oh voi galantuomini tagliativi lu mustazzu; appenditilo a nu prisutti; che Franciscu è locu sutta; Oh voi galantuomini vinditivi lu granu e fativi lu tavutu che Franciscu è venutu. Versi che sarebbero stati canticchiati nel paese da una bambina Proietta di circa anni quattro che girava il paese mendicando un tozzo di pane) fatti che risultano da sentenza e Bruno come Sindaco riferì alla giustizia e ne fu carcerato e ne subì la pena in Spezzano (Carlo Dores fu condannato a sei mesi di domicilio coatto a Spezzano Albanese) e considerate che inimicizia poteva conseguire. In quei tempi e positamente nel giorno del 1° 9mbre è solito che i preti vanno a fare visita al Parroco e siccome il fratello del detto Bruno è anche prete, così unito agli altri fece anche visita al scellerato Parroco. Tutti i fratelli si avventarono sopra al detto Luigi e lo cacciarono fuori col dirli che per amore del suo fratello non lo vollero ricevere in casa; se ne andiede senza cappello perché lo volevano uccidere e se non fosse stato pei suoi amici ciò sarebbe seguito…
E le accuse non si fermano qui:
– Fu vibrato un colpo di fucile alla finestra o sia ad uno bassetto diretto a D. Carlo e nel fare il suo pensiero pensò che fosse stato Bruno Cistari il colpevole, anzi andò da D. Emilio Mari il suo nipote e disse che Bruno Cistari aveva sparato una fucilata al suo zio Carlo… v’è altro elemento anche chiaro. Bruno mandò alcuni travagliatori per cacciare l’acquaro del molino. Il fratello di D. Carlo a nome Antonio si presentò al Guardiano Giuseppe (Spallato) e che cosa li disse? Li disse che il suo patrone non vuole trovarvi qui e li disse che se si lo vuole fare a cortillati, a fucilati, a muzzicuni in qualunque maniera che voleva attaccarsi ma poi all’ultimo conchiuse che doveva aggire e che delli loro mani doveva morire, come accaduto… Vi è altra inimicizia con un certo Fiore Francesco (Palagatta) che prettendeva certi pistilli e che nel carnevale si liticarono e n’è pienamente a conoscenza il pubblico. Il mio pensiero è che il mandante sia D. Filippo, l’uccisori l’altri due fratelli d’unità all’altro nemico Francesco Fiore Palagatta.
Per non sbagliare, Giuseppe Cistari ce li mette tutti, o quasi, perché i fratelli di don Filippo sono tre e non due e se non specifica i nomi è un guaio. Ma se ci possono essere dei dubbi su quali dei fratelli Dores puntare l’attenzione come possibili esecutori materiali dell’omicidio, certamente il più sospettato dei tre è Antonio per le minacce che avrebbe fatto tramite il guardiano e, perché no, su Francesco Fiore per la lite avuta con Bruno. Antonio Dores viene interrogato e racconta la sua versione dei fatti:
– La sera in cui fu ucciso Cistari io mi ritirai da campagna alle ore 24 (16,30 circa) essendo andato alla vigna armato di fucile ed ove mi trattenni fino all’ora che mi ritirai. Andai in campagna per vegliare i miei interessi ed il fucile, ad una canna, lo portavo carico a pallini, onde non farmi sfuggire di sparare a qualche uccello se mi fosse dato vederlo. Mi ritirai a casa venendo dritto da campagna e solo, attraversando il paese per innanzi la casa di D. Giovanni De Fiore, indi mi recai dall’apprezzatore Giacinto Fiore per andare insieme il giorno seguente a stimare la fronda serica di proprietà della mia famiglia ed ivi mi trattenni circa mezz’ora, che fu il solo trattenimento che feci venendo da campagna e, ritirandomi a casa di poi passai per innanzi la chiesa e per la strada Gancarella mi ridussi a casa.
– Avete incontrato qualcuno per strada che possa confermare?
– Non ricordo con quali persone io sia scontrato andando a casa, sebbene fossero state moltissime…
– Pare che abbiate fatto delle minacce al Sindaco, minacce di morte tramite il suo guardiano…
– Io non ho fatto mai minacce al Sindaco Cistari per mezzo del suo servo Giuseppe Spallato… io feci le lagnanze contro il padrone perché a tutti permetteva lo scavo della creta in un suo fondo ed a me l’avea vietato, ma minacce mai! Lo Spallato alle mie doglianze rispose: “Questi son gli ordini… non ho che dirti…”. È vero altresì che la mia famiglia ha speso qualche moneta per la causa di mio fratello don Carlo il quale ha anche scontato la pena di sette mesi d’esilio in Spezzano Albanese, ma per tale dispendio della mia famiglia ed umiliazione del detto mio fratello ci avevano colpa più di uno, ma il Sindaco Cistari più di tutti. Ma questo finì poi avendo fatto pace.
– E quando siete rientrato a casa, i vostri fratelli c’erano o erano ancora fuori?
– Allorchè mi ritirai da campagna gli altri tre miei fratelli Carlo, Filippo e Michele erano in casa e, ritiratomi, di noi non uscì più nessuno in quella sera.
Antonio Dores ha parlato di un fucile ad una canna e questo contrasta con i fatti perché i colpi sparati contro Bruno Cistari furono due e a brevissima distanza uno dall’altro, quindi, se è stato Antonio a sparare, deve avere avuto un complice – come risulta già agli atti dalla testimonianza di Maria Peppina Marchese e le cose si complicano. Il Pretore interroga anche la servitù di casa Dores e come prima cosa ha la conferma che solo Antonio possiede un fucile e che il fucile è effettivamente ad una canna. Per il resto le testimonianze rischiano davvero di inguaiare Antonio perché tanto Maria Rosaria Maida che Francesco D’Elia si contraddicono tra di loro e contraddicono quanto ha affermato il loro padrone:
– Il giorno del Corpus Domini, quello dell’omicidio del Sindaco, i due preti D. Filippo e D. Carlo, dopo la Chiesa si ritirarono insieme in casa e potevano essere le ore 22 d’Italia. L’altro fratello don Michele si ritirò circa un quarto d’ora dopo i due preti. Don Antonio poi venne a casa al tocco delle ore 24. Niuno di essi quel giorno uscì con fucile, non escluso don Antonio. Questi non va mai in campagna nei giorni festivi, festeggiando il giorno dedicato al Signore – dice Maria Rosaria Maida.
– Sei sicura che don Antonio è uscito senza fucile?
– La sera del Corpus Domini alle ore 24 don Antonio si ritirò e perché il portone era chiuso, al picchio andai io ad aprirlo e vidi bene che non aveva fucile.
– Sicuro? – insiste il Pretore.
– Mentre egli era fuori di casa, il fucile io l’ho visto per tutto il giorno vicino al capezzale del suo letto dove era solito tenerlo e tiene di presente.
Chiarissimo.
– Io vidi tutti i quattro fratelli Dores in casa. Don Antonio stava già ritirato sin dalle ore 21. Nel giorno del Corpus Domini, don Antonio dopo mezzogiorno andò dall’apprezzatore senza fucile. Nel tempo della sua assenza il fucile l’ho visto al suo posto in una stanza tutta diversa da quella del suo letto, dormendo egli in quel tempo, come adesso, in cucina…
Guai in vista. E guai in vista perché le persone che abitano lungo il tragitto indicato da Antonio dicono, interrogate, di non averlo visto e addirittura che quella strada, cioè la strada che passa per il rione Magnocavallo, la Fontana e, quindi, dal rione Migliano dove è situata la casa dei De Fiore teatro dell’omicidio, non è mai praticata da don Antonio. Piuttosto, invece, pratica l’altra strada, più breve e più comoda per andare nelle sue terre, che, da Casa Dores in via Babillonia, passa per la chiesa e per il Vallone. Qualcuno, invece, dice che Antonio Dores in campagna ci va quando vuole, a prescindere che sia festa o meno.
Ma, si chiedono i giudici, è mai possibile che una persona che abbia in mente di ucciderne un’altra se ne va in giro per le strade del paese con il fucile in spalla mostrandosi potenzialmente a tutti? E poi, come mai nessuno lo ha visto passare? Certo è che dall’apprezzatore c’è stato perché lo testimonia tutta la famiglia di quest’ultimo e testimoniano anche di averlo visto con il fucile a una canna in spalla. Molto strano. Tutto ciò fa chiedere al padre di Bruno Cistari di arrestare don Filippo che, nella sua qualità di parroco, è in grado di condizionare i testimoni, ma non se ne fa niente.
Però emergono altre circostanze, queste molto più serie di quelle indicate dal padre di Bruno, che potrebbero essere un buon movente per uccidere.
– Circa un anno prima della morte del Cistari, questi avea avuto domanda dal Parroco di supplimento di congrua, al quale egli rispose che, non solo non gliela avrebbe accordata, ma opinava ritirare al comune, cui pria appartenevano, i beni depredati dal Parroco, qual congrua, ed allora gli avrebbe assegnato in contante la competente congrua, a tenore dei regolamenti che la stabilisce. A tale oggetto iniziò il Sindaco Cistari una corrispondenza, il cui esito è tuttavia pendente – racconta Beniamino De Fiore –. Qualche giorno prima della morte del Cistari, avuta la comunicazione della conferma a Sindaco, mi fece la confidenza che oramai che aveva altri tre anni di carica innanzi di se, opinava promuovere la nomina del Parroco definitivo, mercè legale concorso, essendo il Filippo Dores un semplice economo parrocchiale e non coi tempi, avendo impresso nell’animo principi retrivi e contrari all’attuali libere e civili istituzioni. Mi diceva ancora che se non aveva sfogo dalla Prefettura, ne avrebbe fatto istanza financo al Guardasigilli e Ministro dei Culti. Io gli dissi allora di lasciar stare questo e non curarlo, ma l’amico Sindaco mi rispose: “Oh caro Beniamino, abbi sempre fitta in mente la massima <<Inimico tuo ne crederis in aeternum…>> ti troverai bene”. Ricordo che nell’inverno del 1863 e propriamente nel giorno della commemorazione dei morti, poiché vi è costumanza qui che la notte dalle due ore in poi il Parroco vestiva dieci o dodici suoi dipendenti con camice bianco, rappresentando le anime del purgatorio, li faceva girare nel paese, sempre di notte tempo, questuando le castagne in suffragio che esse rappresentavano. Tale usanza dalle autorità locali si tollerava, ma quando, avvenuto il fatto che la mattina precedente, il fratello del Sindaco, signor Luigi Cestari sacerdote, di coscienza delicata e scrupolosa, teneva a male quella inimicizia esternata fra le due famiglie e di tanto in tanto andava furtivamente a visitare il Parroco, ebbe a soffrire l’umiliazione di esser messo alla porta come il più vile servo o come un uomo che soffre la lebbra, con le parole “La tua famiglia ci vuole rovinare e tu hai il coraggio di venirci a visitare?”. Tale azione, indegna di chi vanta avere animo gentile, toccò sul vivo l’animo sensibile del Sindaco Bruno Cistari ed immantinente, come per reagire, non volle tollerare la scandalosa questua notturna e perciò fece bandire che chi oltre le due ore trovavasi girovago per il paese, siino vivi o anime purganti, sarebbe stato arrestato. La mattina de’ tre novembre, Carlo Dores dall’altare, dopo compiuto il sacrificio incruento, predicò al popolo che, giacchè il Sindaco avea vietato con bando e con la forza la questua consueta delle castagne, chi avrebbe avuto tale volontà, le portasse a casa sua…
Il denaro, un ottimo motivo per uccidere. Le indagini proseguono ma non si trova niente di concreto né su don Filippo, né su don Carlo, né su Michele Dores e nemmeno su Francesco Fiore, finito in questa brutta storia senza sapere come e perché. Su Antonio restano dei dubbi soprattutto perché il padre della vittima asserisce che l’apprezzatore, suo parente, gli avrebbe confessato una frase molto compromettente pronunciata da Antonio Dores poco prima che avvenisse il delitto: “Se dimani accadesse qualcosa al Sindaco, io non ne sono responsabile. Voi mi sarete testimone che sono stato fino ad ora tarda qui con voi”. L’apprezzatore nega recisamente questa circostanza ma Antonio Dores, nel dubbio, viene arrestato. Qualche giorno dopo anche Giacinto Fiore, l’apprezzatore, rischia l’arresto per falsa testimonianza e ad inguaiarlo è suo figlio Pasquale che giura di aver sentito distintamente Antonio pronunciare quella e altre frasi. L’equivoco viene chiarito perché le frasi incriminate non furono pronunciate la sera prima del delitto, bensì la mattina seguente: “Vedete che fatto, tale uccisione la vogliono per forza addebitare a me. In niun conto non ci vogliono lasciare andare, noi ci facciamo i fatti nostri ed invece ci vogliono inquietare non ostante che siamo parenti. Voi mi potete giovare facendomi da testimone che il giorno precedente la notte che fu ucciso il Sindaco, io sono stato in casa vostra col fucile e se voleva fare questo non sarei andato certamente pel paese col fucile in mano”. Dette la mattina dopo l’omicidio assumono un valore completamente diverso. Ma perché l’apprezzatore non lo ha detto subito al giudice?
– Deve sapere che io soffro all’udito, quindi le parole profferite da Antonio Dores non le intesi affatto.
Non c’è altro. Il Pubblico Ministero fa le sue richieste e sottolinea:
Poiché se il prosieguo di istruzione non ha aggiunto altri elementi sul conto di Carlo, Filippo e Michele Dores, ha ribaditi e sempre meglio sviluppati quelli che si elevano contro Antonio Dores, mentre che poi a riguardo di Francesco Fiore non è comparso neanche un lontano indizio. Quindi ci sarebbero elementi sufficienti a mandare Antonio Dores al giudizio della Corte d’Assise, sebbene non sia affatto chiaro come abbia fatto l’imputato a sparare due colpi consecutivi con un fucile ad avancarica a una sola canna, visto che non è stata fatta alcuna indagine per scoprire eventuali complici.
La Sezione d’Accusa però non è d’accordo e ritiene che in tanta scarsezza di indizi non è prudenza avventurare un pubblico giudizio, per cui dichiara non farsi luogo a procedimento penale per la deficienza di pruove contro Antonio Dores e auspica nuovi lumi sulla faccenda. È l’11 aprile 1865.
La svolta potrebbe esserci un anno dopo quando al Procuratore del re di Cosenza arriva una lettera anonima da Rota Greca, datata 5 maggio 1866:
Signore,
Volete conoscere lu misfatto del omicidio del anno 1864 il mese di maggio. Chiamate a Fedele Milito, sa tutto il misfatto come andato la morte di D. Bruno Cistaro della comune di Rota Greca, quanto ha fatto questa dichiarazione il detto Milito vi erano anche testimoni che sono a questi prigioni che sia Vincenzo Culletto della Rejna, a fatto questa dichiarazione il detto milito che io so tutto il fatto, ma per detto di Dorotea Esposita e Carmela Ditanassa e Maria Rosa Caruso Marianna Milito, Congetta Sita, Rosaria Mariamelia la Capo Mastra della filannara di D. Giovanni Fiore e Gennaro Milito, Angiolarosa Costanza, questi sono tutti testimoni per il detto misfatto e sono tutti della Comune di Greca Rota. Carmino Tommaso che a fatto questo omicidio a fatto dei minacci a Dorotea Esposita che se non acconsentiva al suo volere la faceva come avea fatto al laltro misfatto.
Perché non tentare?
– Conosco che tra Carmine Tommaso e Dorotea Esposito vi erano trattative di matrimonio – attacca Fedele Milito – ed in seguito la Esposito reuscì dalla promessa fatta. Il Tommaso, indispettito dalla risoluzione fatta dalla Esposito, più volte l’ha minacciata ed in un giorno l’impugnò il fucile contro e le disse che da lui la polvere sapeva dolce e sapeva far cadere le persone. Questo discorso mi veniva fatto dalla stessa Esposito, alla quale io, avendo domandato quali erano le persone che il Tommaso avea fatto cadere, ella mi rispose che sospettava forte che il Tommaso volea riferire quel suo discorso all’omicidio del Sindaco D. Bruno Cistari il quale era stato ucciso uno o due mesi prima. Lo stesso sospetto fu fatto ancora da Carmela Spallato agnomato Ditanasso, la quale trovossi presente alla minaccia fatta alla Esposito. Questa confidenza, trovandomi carcerato in Cosenza, la svelai a Francesco Cavallo di Rota ed a Vincenzo Gulletta del rione Regina di Lattarico, anche carcerato.
Dorotea Esposito, però lo smentisce:
– Io era in trattative di matrimonio con Carmine Tommaso ma ritirai la parola perché i miei fratelli d’affezione non volevano, essendo il Tommaso un giovane scapestrato. Il Tommaso del mio rifiuto fu irritato e più volte mi è venuto appresso minacciandomi, tanto che mi ridussi a non essere più libera di uscir di casa per timor di lui. Finalmente, una mattina di giugno o luglio del 1864, io stava alla filanda di D. Giovanni De Fiore e venne il Tommaso il quale cominciò a farmi le solite minacce, cacciando anche un pugnale, dicendo che l’avessi sposato per forza o mi avrebbe uccisa. Alcune donne che trovavansi colà gli dissero che mi avesse lasciato andare, altrimenti i miei fratelli avrebbero ucciso a lui, al che egli tosto rispose: “A me? e chi mi uccide? Se qualcuno osa tirarmi uno schioppo, io con la mia polvere gli fo fare una fumata… la polvere mia ti cridi ca… ti cridi ca…” e piegava il capo di dietro innanzi. Poi io fuggii e non so più nulla…
– L’arma era un fucile o un pugnale?
– Io vidi cacciare un pugnale e non un fucile…
– Ti è venuto il sospetto che Tommaso si riferisse all’omicidio del Sindaco?
– Dalle parole del Tommaso niun sospetto io conseguii in rapporto a tale omicidio poiché le sue minacce riguardavano me ed i miei fratelli…
– Hai parlato di questo con Fedele Milito? Lui sostiene che tu sospettavi del Tommaso come assassino del Sindaco…
– Con Fedele Milito io mi lamentai di queste minacce del Tommaso ma non gli dissi di aver formato alcun sospetto e forse egli dovette malamente capire le mie parole…
Qualcosa di più ha sentito Carmela Spallato:
– Verso le ore della sera dello stesso giorno, io trovavami addetta a raccogliere il verme serico da terra e Carmine Tommaso stringeva i mancanelli da dietro la banchina alla stessa camera e non vedeva e non sapeva che io trovavami nell’istessa stanza e solo solo parlava, come se fosse un farnetico e diceva: “La debbo ammazzare, allora mi quieterò quando l’avrò ammazzata: la polvere mia è dolce e la so sparare e quando sparo mi riesce e so uccidere”. Io sentii questo soliloquio e non vi risposi parola alcuna, ma solamente feci sospetto che questo suo parlare di dolcezza di polvere e di riuscire i suoi colpi non volesse riferire all’omicidio del nostro Sindaco…
– Ne avete parlato con Fedele Milito?
– Trovandomi a parlare con Fedele Milito, è pur vero che glielo manifestai.
Un po’ troppo poco, infatti il 18 luglio 1866 il Giudice Istruttore dichiara non farsi luogo a procedimento penale contro Tommaso Carmine per difetto d’indizi.[1]
L’assassino (o più probabilmente gli assassini) di Bruno Cistari resterà impunito.
[1] ASCS, Processi Penali.
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