IL BOVARO

– Quando finisci di trasportare il granone devi andare a sorvegliare i fichi. Stanotte dormirai lì – l’ordine che Giuseppe Canonico dà al ventenne bovaro Michele Ruà è perentorio.
– Don Peppì, io stasera i fichi non li posso guardare, devo andare a Luzzi da mia moglie che mi ha mandato a chiamare – la risposta è altrettanto perentoria, ma dopo una breve discussione don Peppino è costretto a cedere e manda un altro a sorvegliare i fichi.
Alla fine della giornata, è lunedì 24 agosto 1891, Michele riporta il carro con i buoi nel posto dove i braccianti raccolgono il granone, stacca gli animali dal giogo, si rinfresca e all’imbrunire parte dalla contrada Pianette del comune di Montalto Uffugo per andare a Luzzi, sulla sponda opposta del fiume Crati.
Michele, un tipo dalla statura inferiore alla media e piuttosto mingherlino, si inoltra nel boschetto che lo separa dal fiume quando ormai è buio. Il fitto della vegetazione si interrompe pochi metri prima dei binari delle Ferrovie Meridionali, all’altezza del casello 52. Michele è ancora nel fitto della vegetazione ma ormai mancano meno di 100 metri al greto del fiume quando il rumore di un ramo spezzato alle sue spalle lo fa girare di scatto. Ha solo il tempo di intravedere qualcosa che sta per abbattersi sulla sua testa, poi cade a terra tramortito mentre un altro colpo di scure lo colpisce al braccio sinistro. La figura si muove con rapidità accanto al bovaro, gli gira dietro, lo solleva, gli passa una corda attorno al collo e la serra con forza fino a quando capisce che Michele è morto stecchito, poi lo lascia per terra, si allontana di qualche metro, scioglie l’asino dalla pianta dove lo aveva legato, torna sul luogo del delitto, prende in braccio il cadavere, lo sistema in groppa all’asino e va verso il fiume. L’asino si ferma a qualche metro dall’acqua che scorre placidamente. Il cadavere viene scaricato e poi trascinato per le spalle fin dentro la corrente, però con i piedi fuori dall’acqua. “Il fiume se lo porterà via” pensa la figura mentre riprende le redini dell’asino e rientra nel boschetto.
– Don Peppì… Michele non c’è… i buoi sono soli e ancora legati e nel carro c’è la sua giacca…
– Lascia stare… fa sempre così, forse tornerà più tardi o forse tornerà domani. Prendi i buoi e il carro e comincia a trasportare il granone.
Ma Michele, ovviamente, non tornerà.
È l’alba del 27 agosto e tre uomini camminano sul greto del Crati con l’intento di passare la mattinata a pescare. La loro attenzione viene richiamata dal cadavere di Michele che per metà galleggia nell’acqua calma del fiume e per metà è ancorato sulla sabbia. Non perdono tempo, corrono verso il ponte sul Crati, lo attraversano e si precipitano dai Carabinieri del loro paese, Luzzi, i quali avvisano subito il Pretore di Rose. Partono i primi accertamenti e sopralluoghi e ci si rende subito conto che il morto non è morto nel punto in cui è stato trovato e che la competenza territoriale non è della Pretura di Rose ma di quella di Montalto Uffugo.
Quasi dirimpetto al punto ove giace il cadavere di Michele Ruà, cioè nella riva sinistra del fiume, sita in territorio di Montalto Uffugo, distante circa due metri dalla corrente dell’acqua, su due ciottoli ho osservato varie piccole macchie di sangue. Distante da questo punto circa dieci metri ho osservato altre due piccole macchie di sangue come le precedenti. Quindi, seguendo il tracciolino che immette nel bosco dirimpetto, a cento metri circa, si osservano sul suolo le impronte dei piedi di un asino privi di ferri, orme che partendo dal bosco si diriggono verso il punto in cui le macchie si son trovate, ma che poscia scompaiono nell’avvicinarsi alla corrente e dal detto punto in cui le orme dei piedi dell’asino non si ravvisano più, si osserva invece uno strascino sull’arena, il quale facilmente indica essere stato di là trascinato il cadavere. Continuando il tracciolino che s’addentra nel bosco e precisamente l’alveo del torrente seccagno che mena al ponticciuolo ferroviario presso il casello numero 52, ho altresì osservato in diversi punti altre cinque macchie di sangue. Dopo oltrepassato di circa cinquanta metri il ponticciuolo ferroviario, altre due macchie di sangue piccole ed altre due di maggiore rilevanza ho riscontrato sul suolo. Stante tutte le numerose osservazioni da me fatte, ritengo che l’omicidio sia stato nel territorio di Montalto commesso e di là trasportato il cadavere nel fiume Crati con la credenza di allontanare le tracce del delitto.
Questo errore potrebbe risultare fatale all’assassino. Ma c’è qualcos’altro che non quadra: sul cadavere, oltre il solco tipico dello strangolamento, vengono osservate due distinte tipologie di ferite. Tre ferite, la prima sull’avambraccio destro, la seconda e la terza nella regione mascellare destra e superiore presso il padiglione auricolare corrispondente, sono state prodotte da un coltello a punta e sono in fase di cicatrizzazione. Le altre due invece sono recentissime e sono state prodotte da colpi di scure. Che ci sia stato, nelle due settimane precedenti, un altro tentativo di assassinarlo?
Le ombre cominciano ad assottigliarsi quando viene interrogata la vedova di Michele Ruà, la diciottenne Cherubina Sauro che racconta:
Circa tre mesi dietro avevo sposato col rito religioso soltanto Michele Ruà da Regina (Lattarico). Egli per un mese ebbe con me singero affetto da marito e ciò fu mentre egli era al servizio di don Ferdinando Caracciolo da Montalto. Però di seguito, lasciato detto servizio, si mise in quello di Giuseppe Canonico pure da Montalto e d’allora il Ruà non pensò più all’amor mio; di rado mi recai a trovarlo ma ne ebbi dei maltrattamenti. Egli mi manifestò che avea illecite relazioni con Orsola Canonico, sorella di Giuseppe, vedova. Michele stesso mi disse altresì che la Orsola Canonico aveva invidia di me; mi disse inoltre che amoreggiava con la figlia nubile di Giuseppe Canonico, Saveria, che le aveva proposto di rapirla e che mentre la voleva pur sedurre, Saveria gli aveva detto di lasciarla stare per allora mentre avrebbe rubato denari al padre e poi sarebbero assieme fuggiti. Tali manifestazioni non una ma svariate volte mi vennero fatte da Michele e ripetute fino al giorno ventitre, giorno in cui lo vidi per l’ultima volta. Come ho detto, per le relazioni illecite contratte con l’Orsola, Michele non mi vedeva di buon occhio, però durante il mese di agosto era divenuto nuovamente affezionato con me e  proprio il ventitre lo rividi nel bosco vicino la stazione di Acri-Bisignano ed ebbi con lui anche contatto carnale, assicurandomi che alla fine del mese terminava l’obbligo di servizio presso del Canonico e lo avrebbe lasciato e se ne sarebbe venuto ad abitare con me in Luzzi. Mi fece allora stesso vedere una diversità di ferite che avea sul corpo e mi disse con coltello era stato ferito per gelosia da Orsola Canonico e dalla nipote Saveria
– Hai sospetti nei confronti di qualcuno?
Sospetto che l’omicida abbia potuto essere la Canonico ma io tanto non posso affermare…
Adesso che il mistero delle ferite da coltello è stato svelato, è evidente che i sospetti cadano su Orsola Canonico, sospetti aggravati da numerose confidenze che parlano di minacce di morte e dalla testimonianza del diciottenne Luigi Martino:
Quattro o cinque mesi fa seppi in trattative di matrimonio Orsola Canonico e Michele Ruà, tanto che erano state fatte le fedi di nascita al Municipio ed eransi fatte le pubblicazioni nella chiesa di Montalto. In seguito non so perché il Ruà non convenne a finalizzare il matrimonio ed invece della Canonico sposò, con rito ecclesiastico soltanto, Cherubina Sauro. Per la gelosia Orsola si sdegnò contro il Ruà e, sapendomi suo amico, la Canonico mi propose di accompagnarla in un appostamento mentre con una scure voleva uccidere Michele. Io mi rifiutai ed essa insistette dicendo che per eseguire il suo disegno si sarebbe anche vestita da uomo… Orsola era gelosissima e non volea assolutamente che Michele fosse andato nella casa di Cherubina Sauro
Ma, osserva il Brigadiere Giovanni Pinto che ha svolto le prime indagini, il delitto non si poteva commettere dalla sola vedova Canonico Orsola. E di chi altro si potrebbe sospettare? Certamente di Giuseppe Canonico e tale Giuseppe Caloiero su cui pesano maggiori indizi di colpabilità. Giuseppe Caloiero, da dove spunta costui? Presto detto: è il fidanzato ufficiale e prossimo alle nozze con Saveria Caloiero, figlia di Giuseppe, nipote di Orsola, feritrice di Michele insieme alla zia, per la quale quest’ultimo, stando alle dichiarazioni di Cherubina Sauro, aveva perso la testa. A coinvolgere i due uomini nell’omicidio sarebbero gli antecedenti rancori e gelosia di donne che esistevano fra Ruà e i due denunciati. Un po’ vaghi come indizi di colpevolezza, tanto che l’autorità giudiziaria non emette alcun provvedimento restrittivo per i due uomini, ma nemmeno per la vedova Canonico, e di questo si lamenta il brigadiere Pinto il quale, nel riferire al Pretore di Montalto Uffugo le molte confidenze ricevute, scrive: La voce pubblica luzzese persiste nell’indicare autrice del reato la famiglia Canonico, in particolar modo la vedova Orsola Canonico, e continua la meraviglia del perché non si procedette a nessun arresto, significando che l’indagini si proseguono col massimo interessamento, onde raggiungere il desiderato intento.
Poi il Brigadiere riesce a convincere una informatrice a mettere nero su bianco le confidenze, nella speranza che possano essere decisive per procedere a qualche arresto:
Appena ritornato da Montalto ove si era recato onde porgere querela contro la vedova Canonico e nipote Saveria per le lesioni riportate il giorno prima – racconta la ventottenne contadina Serafina Ripoli –, Michele mi disse: “Se io vado soffrire qualche cosa altro, non può essere stata che la vedova Canonico perché solo costei ha inimicizia con me” – poi aggiunge –. Due o tre giorni dopo quello dell’uccisione, transitando in prossimità della masseria Canonico, due contadini che mi seguivano a breve distanza e che non conosco, parlando tra di loro dissero: “Il Ruà fu ucciso dalla vedova Canonico, siccome fu veduta costei inseguirlo e dopo che era caduto vibrargli un colpo alla testa, e ciò da un ragazzo al servizio del Canonico.
Beh, sembrano proprio frasi costruite apposta per l’uso e vengono prese in minima considerazione. Poi Orsola Canonico fa la sua prima mossa: attraverso la testimonianza spontanea di tale Stella Runga, fa sapere di avere un alibi: la notte tra il 24 e il 25 agosto le due donne dormirono insieme, per circa due ore, sotto un carro nella macchia dov’era semenzato il granone, senza allontanarsene affatto. Nelle vicinanze dormivano altre persone che potrebbero, eventualmente, confermare.
Ma ormai la situazione si è così ingarbugliata con una miriade di confidenti e testimoni che parlano a favore o contro di questo e di quello e, complice anche la condanna a 3 mesi di reclusione per Orsola e a 15 giorni della stessa pena per Saveria che il Pretore di Montalto Uffugo infligge loro l’8 ottobre 1891 per le lesioni causate al povero Michele, il Procuratore del re decide di prendere direttamente in mano la questione. Riguardati tutti gli atti e condotte nuove indagini, fissa la propria attenzione su alcuni fatti:
1) Orsola Canonico, che già aveva apparecchiati i documenti del novello matrimonio con Michele Ruà, invasa da gelosia vigilava e con ogni suo potere ostacolava che il Ruà avesse avvicinata la Sauro affinché se ne fosse disaffezionato, siccome in effetti avvenne;
2) Nondimeno il Ruà confidò alla Sauro di aver goduto la Orsola e di aver le sue mire non su costei ma sulla Saveria, figlia di Giuseppe Canonico e nipote alla Orsola e, per soprasello, fidanzata nella sola età di 14 anni all’altro bifolco Giuseppe Caloiero. Tali segreti si divulgarono via via, di che si fa fede da tre testimoni:
3) Codesta causa (che è la causa del delinquere) accomunava insieme in unico sentimento di odio e di vendetta contro del Ruà i tre Canonico ed il Caloiero, né gli effetti furono difformi da tal principio. Ruà, è accertato, fu minacciato di morte sia da Caloiero che da Orsola;
4) Il 18 agosto Ruà fu ferito con un coltello da Orsola Canonico ma sporse querela contro la vedova e sua nipote Saveria. Poiché, per pusillanime che il Ruà fosse stato, avrebbe potuto difendersi contro una sola assalitrice, è da indurre che le assalitrici furono due, la Saveria e la Orsola;
 5) Il 23 agosto il Ruà, di carattere indeciso ed instabile, ebbe la leggerezza di confidare di aver condotto la Sauro dalla stazione nel bosco Ischia ed in tale occasione le mostrò le ferite aperte dai coltelli della Saveria e della Orsola. Cotal concubito o solo il convegno dei due nell’Ischia difficilmente rimase ignorato alla vigilante Orsola ed era tutt’altro che fatto per ammansire le ire di lei. Anzi si ebbero altri due fomiti per divampare. L’una fu che, avendo ella chiesto la promessa di remissione le fu questa negata dal Ruà. L’altro fomito d’ira fu che la mattina del 23 di agosto la suocera del Ruà venne a chiamarlo per condurlo alla moglie.
Quindi il Procuratore ricostruisce la preparazione dell’agguato: Le persone che lavoravano col Ruà, cioè la famiglia Canonico ed il Caloiero che stette con quella nel 24 di agosto, avevano potuto, dopo la venuta della suocera, od indipendentemente da tal venuta, calcolare che il Ruà sarebbe andato a casa e fondato su questo calcolo fu certamente l’aguato. In sul rabbruzzare od in sul vespro del 24 il Ruà, sciolti i buoi dal giogo, si avviava alla volta di casa. quello era il momento opportuno in cui il Caloiero, unendo le sue vendette a quelle dell’Orsola, si liberava dal rivale e lo puniva di voler tradotta in giudizio la propria fidanzata e soppresse l’unico ostacolo opposto al conseguimento delle felici nozze da lui agognate. Ciò si conferma dalla circostanza che non molto lungi dal fondo dei Canonico si rinvenne lo strangolato Ruà.
E l’alibi di Orsola? Il Procuratore ritiene di averlo smontato: Attesoché a fronte di tali e tanti indizi non è credibile l’alibi. D’altronde, se la Orsola si supponesse che non fu l’esecutrice, resterebbe sempre la mandante dell’assassinio, nel qual caso l’alibi perderebbe ogni valore.
C’è un po’ di confusione. Il Procuratore prima accusa i tre Canonico e Giuseppe Caloiero, poi sostiene che ad uccidere Michele Ruà siano stati Orsola e Caloiero, così cerca di precisare: con l’assassinio Giuseppe Canonico si vendicò dell’oltraggiatore della fama della figlia Saveria e della sorella Orsola. E conclude: Attesoché le minacce e ferite e risse precedenti e l’impossibilità morale di essere stati altri gli assassini, convincono che tali furono il Caloiero ed i due Canonico (Orsola e Giuseppe). Stando così le cose, chiede ed ottiene l’emissione dei mandati di cattura nei confronti dei fratelli Canonico e di Giuseppe Caloiero. Per Saveria gli indizi non sono sufficienti e viene prosciolta in istruttoria. È il 31 dicembre 1891.
Ma subito dopo gli interrogatori di rito Giuseppe Canonico e Giuseppe Caloiero, pur restando imputati vengono messi in libertà provvisoria. In carcere resta soltanto Orsola.
Il 20 febbraio 1892 il Pubblico Ministero formula le sue richieste nei confronti degli imputati e conclude che non ci sono indizi sufficienti a carico dei due uomini e che quindi devono essere prosciolti. A rispondere dell’omicidio di Michele Ruà deve essere solo la vedova Orsola Canonico.
La Camera di Consiglio del Tribunale di Cosenza, il 29 febbraio successivo, concorda con questa impostazione perché ritiene che, sebbene gli indizi acquisiti siano sufficienti di per sé a convincere che la Orsola Canonico fu quella che premeditò e perpetrò l’omicidio, bisogna considerare il fatto che Orsola, donna robusta e aitante, poteva vantaggiosamente affrontare il Ruà, di esile costituzione, ed assai pusillanime, per come ne affermano vari testimoni. Quindi la donna avrebbe fatto tutto da sola o aiutata da sicari rimasti ignoti alla giustizia ma certamente non dal fratello o dal nipote Giuseppe Caloiero che nel frattempo ha sposato Saveria.
Il dibattimento è fissato per il 15 ottobre 1892 ma gli indizi raccolti contro Orsola Canonico non reggono alla prova dell’aula e la giuria l’assolve.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

 

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