MI CHIAMO GIULIANO SALVATORE

È il 2 settembre 1943, quasi mezzogiorno. L’Appuntato Renato Rocchi, il Carabiniere Antonio Mancino e le due Guardie Giurate Giuseppe Barone e Vincenzo Mangiaracina stanno pattugliando la trazzera Jato nella zona di Quarto Molino in territorio di San Giuseppe Jato. Sono stanchi dopo nove ore di cammino – sono partiti da San Giuseppe Jato alle 3 di notte – e si fermano aspettando che passi qualcuno che possa trasportare merce di contrabbando, in un punto dove la trazzera passa ad una quarantina di metri dal fiume Jato, adesso in secca. Tra loro e il letto del fiume c’è solo un leggero declivio, quasi del tutto coperto da  un fitto canneto. Dopo pochi minuti un rumore di zoccoli sulla terra dura li mette in allerta. Dalla cima di un dosso, a una quarantina di passi da loro, spunta un giovanotto di una ventina di anni che tiene per le briglie un cavallo carico con due grossi sacchi. Il giovanotto si ferma per qualche istante guardandosi intorno, poi prosegue verso la pattuglia.
– Alt! – gli intima l’Appuntato e il giovanotto si ferma senza fare storie – che cosa porti nei sacchi?
– Un po’ di grano… vossia mi facissi passare, per carità… – gli risponde il giovanotto, implorandolo con tono di sottomissione.
– Mi pare che è un po’ più di un poco… questo è contrabbando! Le tue generalità! Favorisci i documenti – gli intima con tono severo.
– Mi chiamo Giuliano Salvatore di Salvatore – gli risponde porgendogli la carta d’identità. L’Appuntato  la legge e trova la conferma: Giuliano Salvatore di Salvatore, nato a Montelepre il 20 novembre 1922, contadino.
– Giuliano, sei in arresto per contrabbando e ti dobbiamo sequestrare il cavallo ed il grano. Favorisci con noi in caserma.
– Per carità… mi facissi passare…
– La legge è questa…
In questo frattempo, dalla stessa direzione da cui proveniva Giuliano, arriva il rumore di un gruppo di uomini a cavallo. Per evitare di essere avvistati e mettere così in guardia quegli uomini, l’Appuntato Rocchi ordina al Carabinere Mancino e alla Guardia Barone di sorvegliare Giuliano, mentre lui e la Guardia Mangiaracina vanno incontro agli uomini per fermarli.
La Guardia Barone si abbandona a sedere su di una pietra tenendo la doppietta sulle gambe, il Carabiniere Mancino resta in piedi accanto a Giuliano, dandogli il fianco sinistro. Giuliano è immobile, pensieroso. Certamente rimugina in testa ciò che gli potrebbe capitare una volta che in caserma lo perquisiranno e controlleranno meglio il cavallo. Si, è davvero preoccupato perché in una tasca del soprabito ha un’arma, una pistola automatica Beretta calibro nove modello 1934 appartenente all’Esercito Italiano. Anche il cavallo sarebbe dell’esercito, ma se lo era preso tempo prima dopo averlo trovato in campagna. Per il cavallo può cavarsela con poco, ma la pistola, un’arma da guerra, potrebbe costargli addirittura la vita poiché era in vigore allora un bando degli Alleati che comminava al riguardo la pena di morte. Giuliano si guarda intorno: Mancino e Barone sono distratti, l’Appuntato e l’altra Guardia non sono più a vista. È questo il momento: tira fuori la pistola e spara un colpo a Mancino che è a una quarantina di centimetri di distanza, offrendogli il fianco sinistro. Lo centra in pieno e il Carabiniere si accascia al suolo. Barone ha un sussulto, alza la testa e vede Mancino mentre cade e Giuliano, a non più di quattro metri da lui, che gli sta puntando la pistola contro; vede il dito che tira il grilletto e sa che non ha il tempo di difendersi sparando, così dimena il corpo di qua e di la ad evitare i colpi. Gli va bene perché nessuno dei quattro colpi che Giuliano gli spara va a segno. Poi sente il clic di un colpo a vuoto; capisce che il delinquente ha finito i colpi e allora imbraccia il fucile e fa fuoco, ma Giuliano è velocissimo nel deviare le canne dell’arma e il colpo va a vuoto. L’assassino adesso afferra il fucile dalle canne e cerca di strapparlo a Barone. Ne nasce una violenta colluttazione dagli esiti incerti.
L’appuntato Rocchi e la Guardia Mangiaracina sono distanti circa 180 passi dal punto dove hanno lasciato i colleghi e Giuliano, quando sentono prima un colpo di rivoltella, subito dopo altri quattro in rapida successione e infine una fucilata. Capiscono che è accaduto qualcosa di grave, abbandonano il progetto di fermare gli uomini che stanno arrivando a cavallo e tornano indietro di corsa. Appena scollinano il dosso dal quale era apparso Salvatore Giuliano, vedono questi che sta scappando verso il canneto e la Guardia Barone che gli spara addosso. Un lamento e poi il giovane sparisce nella vegetazione. Hanno la sua carta d’identità e sanno che è ferito. Lo prenderanno con calma perché adesso devono dedicarsi al Carabiniere Mancino, colpito nel decimo spazio intercostale sinistro, lungo la mammellare. Il proiettile è uscito dall’altra parte, sotto l’arcata costale destra, in corrispondenza dell’ascellare anteriore
A terra c’è la Beretta, che viene sequestrata. Mangiaracina viene mandato a San Giuseppe Jato a dare l’allarme e chiedere soccorso, mentre Rocchi e Barone cercano di trasportare a braccia il ferito verso il paese. Si fermano ad una casa colonica e chiedono una sedia sulla quale caricano Mancino e continuano a camminare per non perdere tempo. Poi arrivano in automobile il Maresciallo Garrone e il dottor Licari che visita sommariamente il ferito e consiglia di portarlo in un luogo di cura, cioè l’ospedale della Croce Rossa di Monreale.
Durante il tragitto da San Giuseppe Jato a Monreale, il Maresciallo Garrone, piuttosto che dalla preoccupazione medica di non affaticare il ferito, era pressato dalla preoccupazione professionale di conoscere come si fossero svolti i fatti e perciò prova a fare qualche domanda a Mancino il quale, con grande fatica, conferma il racconto fatto dalla Guardia Giurata Barone.
Intanto Salvatore Giuliano, benché ferito alla spalla destra, riesce ad allontanarsi indisturbato e lungo il cammino incontra un pastore, tale Cangelosi, al quale chiede aiuto per pulirsi due ferite sulla spalla destra.
– Com’è successo? – gli chiede il pastore.
– Mi hanno sparato una fucilata poco prima a Quarto Mulino… là c’è pure un carabiniere ferito e probabilmente anche morto… – gli risponde Giuliano. Pulite le ferite se ne va e di lui si perdono le tracce fino al 23 dicembre 1943 quando, intercettato da una pattuglia dei Carabinieri durante un rastrellamento a Montelepre, uccide a colpi di mitra il Carabiniere Aristide Gualtiero.

Il Carabiniere Mancino non ce la fa e nel pomeriggio del 3 settembre muore. Adesso l’imputazione contro Salvatore Giuliano è quella di omicidio volontario e di tentato omicidio. 

Carabiniere Antonio Mancino

Vengono ascoltati molti testimoni che non aggiungono niente alle indagini, poi gli inquirenti si imbattono nel pastore Cangelosi il quale racconta l’incontro fatto con il latitante e delle due ferite alla spalla destra. Viene sentita anche la madre di Giuliano, Maria Lombardo, la quale ammette che suo figlio è uscito di casa armato con la Beretta modello 1934.

Giuliano, dopo il secondo omicidio, decide di costituire una banda e il 30 gennaio 1944 assalta il carcere mandamentale di Monreale, riuscendo a far evadere alcuni parenti e amici.

Adesso la banda è più numerosa e Turiddu si può dedicare a pianificare e realizzare una lunga serie di rapine e sequestri di persona, diventando ben presto temuto e rispettato da tutti.
Il 27 marzo 1944 il Giudice Istruttore di Palermo ordinava il rinvio dell’imputato al giudizio di quella Corte d’Assise, ma la difesa di Giuliano ricorre in tutti i gradi di giudizio e il 30 dicembre 1946 la Corte Suprema, constatando che a Palermo non ci sono le garanzie per uno svolgimento sereno del dibattimento, sposta tutto alla Corte d’Assise di Cosenza, dove il dibattimento comincia il 23 luglio 1947.
da sinistra: Sciortino, Salvatore senior,
Salvatore Giuliano, Mike Stern.

Dall’omicidio del Carabiniere Antonio Mancino sono passati quasi tre anni e Turiddu di strada ne ha fatta molta, troppa. A maggio del 1945 aderisce all’ EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia). Ottenuti i gradi di colonnello e la promessa di finanziamenti per rafforzare la banda, comincia una serie di azioni militari assaltando le caserme dei Carabinieri di Bellolampo, Pioppo, Borgetto e Partinico, la sede della radio a Palermo e numerose sedi delle organizzazioni contadine legate principalmente al Partito Comunista. Tutto mentre la propaganda dei separatisti costruisce il mito del bandito che toglie ai ricchi per sfamare i poveri. Poi arriva l’orrore del 1 maggio 1947 con la strage di Portella della Ginestra.

Qualche giorno dopo accade qualcosa di molto strano: mentre a Partinico viene ucciso a colpi di lupara il sindacalista della CGIL Michelangelo Salvia, a Montelepre arrivano, a bordo di una Jeep, due americani, il capitano Mike Stern e il sergente Wilson Morris, entrambi agenti dei servizi segreti americani, e una misteriosa donna di nazionalità spagnola, poi identificata per Maria Cyliacus, alias Maria Lamby Karintelka, una spia svedese che utilizza vari nomi di copertura per la sua attività di spionaggio.  Vanno a casa dei Giuliano dove sono accolti con tutti gli onori dal capofamiglia, Turi l’americano, e dove pranzano. Dopo aver posato per la macchina fotografica di Wilson Morris, i tre stranieri, Turi l’americano e Pasquale Pino Sciortino, cognato del bandito ed esponente di spicco della banda, salgono a bordo della Jeep e si dirigono sulle montagne intorno al paese, dove incontrano Turiddu Giuliano e restano con lui sulle montagne una settimana intera, cambiando ogni notte rifugio. Di cosa devono parlare due spie americane e una svedese con Turiddu Giuliano? Mistero. Fatto sta che tutto avviene alla luce del sole nella totale indifferenza degli inquirenti e dopo questa allegra settimana si scatena una serie impressionante di attacchi alle Camere del Lavoro di Palermo. 

Giuliano con Maria Lamby Karintelka

È in questo contesto che a Cosenza comincia il processo per il primo omicidio commesso dal bandito. Ma i Giudici non sono affatto intimoriti: nei giorni precedenti hanno già processato per due distinti omicidi Giuseppe Giuliano, fratello di Turiddu, e Giuseppe Badalamenti, cugino dei Giuliano e componente della banda (c’è da dire, a questo proposito, che i due furono assolti per insufficienza di prove: Giuseppe Giuliano con sentenza dell’8 luglio 1947 e Badalamenti dell’11 luglio successivo).

L’agguerrita e numerosa difesa sostiene che Giuliano ha sparato all’impazzata mentre scappava, per giunta dopo essere stato ferito, per difendersi dalle fucilate che gli esplodeva la Guardia Barone.
Per credere questo – ribatte l’accusa rappresentata dal Procuratore Generale della Repubblica, cavalier Luigi Ammirati – bisognerebbe ammettere che il Giuliano non solo si voltò a sparare, incurante del fatto di trovarsi contro due avversari, ma si attardò anche ad assistere agli effetti dei suoi colpi prima di riprendere la fuga, altrimenti non si spiegherebbe come avrebbe potuto affermare al teste Cangelosi che vi era un Carabiniere ferito e forse anche morto; questa consapevolezza non avrebbe potuto avere se, per come vorrebbe far credere la difesa, il Carabiniere fosse stato ferito da uno dei colpi sparati all’impazzata dal Giuliano.
La difesa, insistendo nella tesi della legittima difesa, sostiene che non è vero che il colpo mortale fu esploso da brevissima distanza e tira in ballo le parole del dottor Licari il quale dichiarò di non aver notato sul corpo del ferito le tracce tipiche di un colpo sparato a bruciapelo e che, quindi, il colpo fu esploso da una certa distanza.
Il perito, attacca l’accusa, ha dato solo prova della superficialità delle sue osservazioni, dimostrata del resto anche dal contenuto della scarna relazione, dalla quale, se non ci fosse stato l’ausilio del referto e del verbale di autopsia, non si ricaverebbe nemmeno colla dovuta precisione l’ubicazione dei forami della ferita. Il motivo per cui non furono trovate le tracce tipiche di un colpo a bruciapelo? La risposta, per l’accusa, è nei testi di medicina legale: oltre una certa distanza media di centimetri trenta, le armi da fuoco a canna corta con cartucce a polvere nitro composta, come appunto quella del Giuliano, non proiettano più residui solidi della esplosione e non danno perciò luogo ad affumicatura o a tatuaggio e che, del resto, anche per colpi esplosi a minore distanza, invano si cercherà affumicatura o tatuaggio quando sia stata investita una parte del corpo coperta da vesti, sulle quali soltanto si esercita l’azione ustionante della fiamma e sulle quali si depositano i residui solidi dell’esplosione, attorno alla perforazione creata in esse dal passaggio del proiettile. E questo è proprio il caso in questione perché il Carabiniere Mancino, al momento in cui venne ferito, vestiva la propria divisa di pesante panno. Se il dottor Licari avesse tenuto presenti i dettami della scienza, non avrebbe dovuto escludere la possibilità che il colpo fosse stato esploso a bruciapelo. Ma c’è un altro aspetto balistico che smonta la tesi del colpo sparato a distanza per legittima difesa: alcuni degli organi interni interessati dal proiettile durante il suo tragitto, vennero trovati “spappolati”. Ora, è noto che i fenomeni di scoppio, cui deve attribuirsi lo spappolamento degli organi interni, stanno in diretto rapporto colla forza viva del proiettile (la quale è proporzionale alla lunghezza della canna dell’arma da cui proviene) e colla speciale struttura anatomica delle parti colpite. I fenomeni di scoppio, perciò, se frequenti nelle ferite da vicino per armi lunghe da guerra, le quali imprimono ai proiettili una velocità iniziale sempre superiore ai seicento metri al secondo, sono ben rare, e solo quando l’arma sia stata impiegata a bruciapelo o quasi, nelle ferite per armi corte da guerra, le quali – e specie la pistola Beretta che non è certo fra le più potenti – imprimono al proiettile una velocità iniziale sui duecento metri al secondo. Non basta ancora? L’autopsia ha dimostrato che il colpo fu sparato dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra e quindi non è possibile che Giuliano, disceso il leggero declivio per inoltrarsi nel canneto, nella posizione in cui si trovava mentre, secondo la difesa, sparò all’impazzata, potesse colpire dall’alto verso il basso una persona che si trovava più in alto di lui. E poi c’è sempre la dichiarazione fatta a Cangelosi e da questi riferita agli inquirenti. Ma adesso, il pastore, quella dichiarazione deve confermarla in aula. Convocato, Cangelosi non si presenta. Non si presenta fino a quando i Carabinieri non lo vanno a prendere a casa e lo portano a Cosenza. Ma dopo quasi quattro anni da quando incontrò un giovanotto sconosciuto in campagna, ha avuto tutto il tempo di capire chi è diventato quel giovanotto ed il timore che incute. Ritratta, dice che non è vero che Turiddu gli disse che c’era un Carabiniere ferito. Adesso non parla più di due ferite sulla spalla destra ma di un pertusu, un foro soltanto, con il relativo pertusu di uscita sul petto di Turiddu; adesso dice di avere appreso da quel giovanotto che c’era stato “un confiertu” (un conflitto), inserendo così anche nella sua deposizione quel termine già contenuto nel referto e su cui la difesa si è tanto soffermata, osservano i giudici, che hanno quasi pietà per quell’uomo spaurito perché hanno colto il terrore incombente sui testimoni quando venivano interrogati su circostanze che potessero risolversi a danno degli imputati ed i pronti dinieghi dei testimoni stessi non appena si faceva il temuto nome del Giuliano o dei suoi congiunti. I Giudici si rendono ben conto delle modifiche e delle aggiunte fatte dal teste Cangelosi a richiesta di colui al quale in Sicilia non si può ancora dire di no!
Ovviamente cambia versione anche Maria Lombardo, la madre dell’imputato, la quale, in una lettera fatta pervenire alla Corte, adesso dice che per riferimenti avuti subito dopo il fatto dallo imputato, Turiddu avrebbe sparato mentre scappava, inseguito di colpi di arma da fuoco degli agenti e solo quando già “colpito due volte” ritenne necessario sottrarsi “al grave pericolo di essere ucciso”.
È strano però che simile importante dichiarazione la madre del Giuliano abbia fatto solo alla vigilia del processo, osservano i giudici, e che solo nel luglio 1947, e cioè dopo oltre tre anni dalla chiusura dell’istruzione, ella, pur avendo il figlio una agguerrita e numerosa difesa, abbia appreso che “nel processo i fatti sono narrati in maniera diversa”. Qualcosa non va nella strategia difensiva: la madre di Turiddu resta ferma sulle due ferite riportate dal figlio, mentre Cangelosi adesso dice che aveva un solo pertusu.
Giuliano non aveva interesse a sparare, sostiene la difesa, perché fermato per un semplice delitto annonario.
Giusto, ribatte l’accusa, per quel reato nemmeno i Carabinieri avevano interesse, né avrebbero potuto, impunemente, sparare contro chi si dava alla fuga lasciando sul posto il cavallo, la merce oggetto del reato e la propria carta d’identità. Il problema è che Giuliano praticava il commercio illegale del grano con un cavallo razziato in danno dell’Esercito Italiano e portava con sé una buona pistola carica e pronta all’uso. Giuliano ben sapeva a cosa sarebbe potuto andare incontro se gli avessero trovato addosso l’arma da guerra. Allora il fermo operato nei suoi confronti costituisce evidentemente l’occasione, già prevista, che lo avrebbe indotto – come lo indusse – a rompere immediatamente i legami colla società. In lui era già il Giuliano bandito perché gli uomini non si trasformano di punto in bianco, sicché lo impiego delle armi, costi quel che costi, è illogico se rapportato ad altro uomo, ma è ben logico rispetto al Giuliano.
Il 24 luglio 1947 la giuria emette il verdetto di colpevolezza per i reati di omicidio volontario in danno del Carabiniere Antonio Mancino e di tentato omicidio in danno della Guardia Giurata Giuseppe Barone. I due reati però vanno unificati sotto la forma di delitto continuato in quanto il Giuliano agì nello stesso contesto di tempo ed evidentemente in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, non avendo altro movente alla sua azione che quello di guadagnare la libertà a prezzo di quanti avrebbero potuto ostacolarlo. Compete all’imputato la attenuante di avere risarcito il danno perché, mentre la persona offesa ha dichiarato di essere stata integralmente risarcita prima del giudizio, è certo che l’iniziativa del risarcimento è dovuta al Giuliano, non avendo i suoi genitori, poveri contadini, disponibilità finanziarie. L’imputato non merita altre attenuanti, nemmeno quelle generiche, avuto riguardo alla eccezionale gravità del reato ed alla condotta posteriormente tenuta dal colpevole.
Quindi, pena adeguata alle modalità dei fatti è quella di anni trenta di reclusione, prendendo a base quella di anni 24 per il delitto più grave ed operando un aumento di anni sei per la continuazione. La detta pena resta poi determinata in anni 24, colla diminuzione di un sesto per effetto della circostanza attenuante.[1]
Salvatore Giuliano, ormai scomodo anche per i suoi protettori, resterà latitante ed operativo fino al 5 luglio 1950, quando verrà trovato morto ammazzato, a ventotto anni di età, in circostanze mai del tutto chiarite.

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1]  ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze Corte d’Assise di Cosenza.
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