Verso le 15,00 del 27 novembre 1904 il diciassettenne Antonio Pignata sta tornando a Grisolia dalla campagna, portando come al solito la scure in equilibrio sulla spalla sinistra e le mani in tasca. Imboccata Via San Giovanni, si imbatte in Fedele Crusco, visibilmente alticcio, e la madre e il fratello di questi. Gli sembra che la donna stia tentando in tutti i modi di far rientrare a casa il figlio ubriaco e siccome conosce la brutta fama di cui godono i fratelli Crusco, dediti al vagabondaggio, raramente lavorano, spesso si ubriacano ed il Fedele quando è in istato di ubbriachezza è oltremodo molesto, insultante e per un nonnulla fa quistioni, cerca di girare al largo ma ormai è troppo tardi, Fedele lo vuole cimentare e, spalleggiato dal fratello, gli vorrebbe togliere la scure. Pignata, ovviamente, resiste, forte della sua poderosa arma. Fedele allora cambia tattica. Approfittando del fatto che, nel tentativo di disarmare l’avversario, gli è caduta per terra la pipa che aveva in bocca, con tono minaccioso gli intima di raccoglierla da terra e di restituirgliela. Pignata non ne vuole sapere e si rischia di arrivare alle mani con conseguenze imprevedibili.
Anche Pietro Rocca, 20 anni, e Biase Marino, 16 anni, verso le 15,00 del 27 novembre 1904 stanno tornando a casa dalla campagna e imboccano Via San Giovanni. Davanti a loro si sta svolgendo la quistione tra i fratelli Crusco e Antonio Pignata. Pietro Rocca decide di intervenire per calmare gli animi e cerca di indurre il Fedele, perché brillo e perché più riottoso verso il Pignata, a tornarsene a casa. In questo frattempo a Fedele cade di bocca la pipa e comincia con le sue pretese nei confronti di Pignata. È in questo momento che Pietro Rocca interviene e, con l’intento di calmare la situazione, raccoglie da terra la pipa e la mette in tasca a Fedele Crusco. Non l’avesse mai fatto! Fedele raccoglie da terra un sasso e comincia a fare atto di minaccia verso tutti indistintamente. Rocca lo circonda con le braccia per farlo desistere ma Fedele estrae un coltello a serramanico cominciando a trinciare l’aria ed il muro di una casa onde intimorire il Rocca il quale riesce a disarmarlo, riponendoglielo in tasca. In tutto questo, la madre dei fratelli Crusco incoraggia Pietro Rocca a trascinare il figlio a casa e così Pietro vorrebbe fare con buoni modi, tirando dolcemente il Fedele per un braccio, Salvatore, l’altro fratello che non era affatto ubbriaco, estrae di tasca un coltello a doppio taglio, a manico fisso, di quelli detti stiletto a foglia d’oliva. Rocca, al quale nel frattempo Fedele si sta avvinghiando, capisce che, trovandosi in quella posizione, se Salvatore volesse colpirlo – ma per quale ragione dovrebbe colpirlo? –, avrebbe certamente la peggio e lasciato Fedele cerca di ripararsi in una casa vicina che ha la porta aperta e quasi ci riesce, ma Salvatore gli è addosso e, stando quasi dietro, gli tira un tremendo colpo di stiletto sotto la mammella sinistra.
– Mi ha ammazzato! – urla cadendo all’interno della casa, mentre Salvatore Crusco indugia nel barbaro rituale di leccare la lama insanguinata. Questo dà a Domenica Nevicato, la proprietaria della casa nella quale Pietro è stramazzato, l’opportunità, prima che Salvatore colpisca di nuovo, di chiudere la porta, contro la quale cominciano ad essere tirati dei colpi per sfondarla.
– Andate via chè Rocca è morto! – urla la donna da dietro la porta sprangata, facendo segno a Pietro di non fiatare.
Sul posto arriva anche Fedele Crusco con il suo coltello in mano, ma Salvatore lo blocca.
– L’àiu fattu iu…
– Per la Madonna! E iu nun l’àiu fattu nenti ancora! – gli risponde Fedele con gli occhi iniettati di sangue.
A questo punto i fratelli Crusco tornano sui propri passi e in compagnia della loro madre fanno per andarsene. Domenica Nevicato e sua madre, pietosamente, prestano le prime cure al ferito e cercano di tamponare l’emorragia premendo sulla ferita una pezzuola, mentre una sorella sgattaiola fuori di casa e va a chiamare il medico.
Ma i guai verso le 15,15 del 27 novembre 1904 a Grisolia, non sono ancora finiti.
Avvisati di ciò che è accaduto a Pietro Rocca, la moglie, i cognati e il suocero arrivano sul posto proprio mentre i fratelli Crusco e la loro madre se ne stanno andando. Non solo: nello stesso momento arriva sul posto anche il padre dei Crusco. Adesso si rischia una carneficina. Nelle mani appaiono coltelli e sassi e le minacce, da una parte e dall’altra, si sprecano.
– Li vidi tutti accapigliare e cadere a terra – racconterà Filomena Novello.
La gente accorre e dopo qualche momento di terrore tutto finisce fortunatamente solo con qualche contusione e tutti tornano a casa.
– Che cosa vi aveva fatto mio genero che lo avete ferito? – fa Rosaria Tiso quando i Crusco passano davanti alla sua casa.
– Puru tu parri, porca fricata? – le risponde Fedele Crusco minacciandola con il coltello. La donna, a quella vista, rientra precipitosamente in casa terrorizzata e Fedele comincia a tirare colpi alla porta per sfondarla, ma viene trascinato via e da questo momento di lui e del fratello Salvatore si perdono le tracce.
Tra la mammellare e l’ascellare anteriore si nota una lesione di continuo a margini netti e precisi e della lunghezza di mm quindici circa, diretta in basso, innanzi in dentro. La specillazione mostra il carattere di essere penetrante in cavità. I fatti obiettivi dell’emitorace sinistro confermano quel carattere. si osserva inoltre tumefazione di tutta la regione. Tale lesione è prodotta da arma da punta e taglio, coltello acuminato ed a stretta lama. Giudico che tale lesione sia pericolosa di vita, sia per la topografia, sia per i caratteri ed ove mai il pericolo venisse a scongiurarsi, la guarigione potrà ottenersi non prima del ventesimo giorno. È la diagnosi del dottor Francesco Adduci.
Per il Brigadiere Paolo Ferlisi, comandante la stazione di Verbicaro, è davvero qualcosa di inspiegabile. Non c’è alcuna ragione apparente che possa giustificare una violenza del genere. Ma, scavando, qualcosa potrebbe esserci: molti testimoni riferiscono che nei circa nove mesi che Fedele Crusco passò a New York per trovare lavoro, sua moglie cedette alle lusinghe del suocero di Pietro Rocca e, così pare, ne nacque anche un bambino la cui sorte è ignorata da tutti. Quando Fedele tornò, perché anche in America aveva poca voglia di lavorare, informato della cosa abbandonò la moglie, confidando a qualcuno la sua determinazione a farla pagare cara al suocero di Pietro Rocca. Quest’ultimo, quindi, sarebbe stato ucciso per vendicare il torto subito dai Crusco ad opera di suo suocero. Sembra una pura fantasia ma è l’unica traccia investigativa e su questa si muovono gli inquirenti, senza però trovare niente di concreto.
Il giorno dopo, 28 novembre, quando il sole è già sparito nel mare, il Brigadiere Ferlisi e il Carabiniere Giovanni Greco sono a Grisolia per assumere informazioni quando, a mezzo della voce pubblica, vengono a sapere che il ventiduenne Salvatore Crusco e suo fratello, il ventiquattrenne Fedele, potrebbero tornare a casa per la notte. I due militari fanno credere a tutti che stanno rientrando a Verbicaro e invece rimangono appiattati vicino il Cimitero fino alle 20,30. Dopo una mezzoretta di attesa i Carabinieri vanno a bussare a casa dei Crusco allo scopo di tentare al loro arresto ma infruttuosamente. Quando escono, delusi per il fiasco, vengono avvicinati da alcune persone degne di fede che hanno notato i loro movimenti e vengono informati in via confidenziale che i due latitanti potrebbero essere nascosti in casa di Biase Cimino. Si fanno indicare la casa, vanno lì, lo interrogano e Cimino risponde di non essere in sua casa nessuno dei ricercati. Ma Ferlisi non gli crede e i due militari passano una minuta perquisizione domiciliare, accorgendosi così che in una stanza c’è un finestrino praticato nel tavolato che immette nella soffitta, ove si accede mediante l’agilità personale. Cimino sbianca in viso mentre Ferlisi e l’altro Carabiniere si arrampicano ed entrano nella soffitta, poi sente un “Altolà” e un rumore di roba che si sposta. Tombola! Nascosti dietro una grossa cassa ci sono i fratelli Crusco che vengono immediatamente arrestati, come anche Cimino e portati con i ferri ai polsi in quella camera ad uso caserma che i Carabinieri hanno a Grisolia.
– Assolutamente nulla conosco del ferimento subito da Rocca Pietro e che mi si crede addebitare – nega subito Salvatore Crusco il quale continua a negare anche gli addebiti più evidenti, senza cedere di un millimetro.
– E se è vero che non sai niente di niente del fatto, perché ti sei nascosto?
– Siccome la voce pubblica incalzava me quale autore del ferimento del Rocca, io ad ogni buon fine mi nascosi, temendo le ricerche della giustizia…
– Ah! E dove saresti stato il giorno e l’ora del delitto, una volta che sostieni di non esserne l’autore?
– Mi trovavo in casa mia, come lo può affermare Biase Cimino…
Poi è la volta di suo fratello Fedele e la musica cambia:
– Io, ubriaco, ero cercato a farmi rincasare da mio fratello e da mia madre quando vidi, se non erro, Antonio Pignata al quale chiesi di raccattarmi una pipa che mi era caduta per terra. Nel frattempo intervenne Pietro Rocca ad invito di mia madre per condurmi a casa; io, dispiaciuto, anche perché il di lui suocero mi ha offeso nell’onore di mia moglie, presi una pietra ma senza intenzione di menarlo, pietra che gettai poco dopo a terra. Io, a dire il vero non ho visto alcun’arma in mano del Rocca , ma siccome temevo di lui, estrassi un coltello a piega e cominciai a trinciare l’aria ed il muro d’una casa onde intimorire il Rocca, il quale riparò in una porta vicina dove, raggiunto da mio fratello, fu da questi colpito. Io, temendo che il Rocca volesse farmi del male, lo inseguii fino ai pressi della porta della casa di Nevicato dove non entrai, però, perché mio fratello Salvatore mi persuase ad andare via dicendomi: “Fedele, andiamo via che a Pietro l’ho fatto io…”, volendo significare che l’aveva ferito lui. Dopo tali fatti accorsero incontro a me Garofalo Raffaela, Ignazio ed Antonietta; io, intimorito ancora una volta, estrassi il coltello per tenerli a distanza, ma la Raffaela mi prese per le braccia per manomettermi e io per difendermi le tirai un calcio al ginocchio. Ritirandomi a casa insieme a mio fratello ed ai miei genitori, nel passare nanti la porta di casa del Rocca, la suocera di costui mi ingiuriò “cornuto” ed io, dispiaciuto, estrassi il coltello e dissi: “Vecchia, ancora mi volete inquietare?”. Dopo tutti questi fatti pensammo bene di nasconderci presso il nostro amico Biase Cimino al quale confidammo tutti i fatti – si ferma qualche secondo e poi, scuotendo la testa, continua – non basta che i Garofalo hanno contaminato il mio onore coniugale, ma anche le sorelle Raffaela ed Antonietta Garofalo, insieme alla madre, in mia presenza, l’anno scorso mi chiamarono “cornuto” insieme ai miei e per tal fatto mi querelo…
Per essere stato ubriaco, come anche i testimoni e la vittima affermano, le cose le ricorda benissimo e ciò potrebbe lasciar pensare che tutto sia stato premeditato e che la famiglia Crusco ha organizzato la messinscena dell’ubriacatura per ammazzare Pietro Rocca e alleggerire la posizione di Fedele, designato come esecutore del delitto, con la scusante dell’ubriachezza. E forse per tentare di sostenere ancora questa tesi Salvatore ha mentito spudoratamente. Ma siccome la confessione di Fedele stride con le dichiarazioni di suo fratello, il Pretore di Verbicaro li mette a confronto:
– Fratello, non avere paura, dì la verità alla Giustizia, tu che eri serio la sera in cui avvenne il fatto e ricordi meglio di me che ero ubbriaco… ricordati che io ero incoraggiato da te e da nostra madre a rincasare quando nel pretendere che Antonio Pignata mi avesse raccattato la pipa cadutami, questa fu raccolta da Pietro Rocca che si trovava a passare e che, ad invito di nostra madre cercò d’indurmi a rincasare , quando io, temendo del Rocca per l’inimicizia e per l’onta inflittami da suo suocero, presi una pietra per farlo allontanare e dopo estrassi il coltello per intimidirlo… – Fedele esorta il fratello.
– Adesso ricordo bene e non posso negare tutte tali particolarità… – cede, ammettendo di essere stato sul posto. Poi Fedele continua:
– Non puoi negare nemmeno che quando il Rocca riparò in una porta vicina tu lo raggiungesti e, temendo che mi volesse fare ancora del male, gli vibrasti un colpo di coltello… – cerca di indurlo a dire che avrebbe agito per legittima difesa, cambiando ciò che ha detto nell’interrogatorio.
– Adesso neppure mi fido a negare tale circostanza, sono stato davvero io che ho ferito Pietro Rocca!
Finalmente ci siamo, ma l’idea che Pietro Rocca sia stato accoltellato per una vendetta trasversale fa rabbrividire.
Biase Cimino non può negare di avere ospitato i due ricercati e si difende dicendo che non ha saputo negare quel favore ai suoi amici, favore che potrebbe costargli caro.
Gli imputati hanno confessato, il ferito sembra essere sulla via della guarigione, salvo alcune note di pleurite, e sembra logico chiedere la libertà provvisoria, ma i giudici per ben tre volte la negano ai fratelli Crusco, mentre la concedono a Cimino. Nel frattempo, ai Garofalo viene consegnato un mandato di comparizione per la querela sporta nei loro confronti da Fedele Crusco e rispondono con una querela contro tutti i Crusco, genitori compresi. Gli imputati, a questo punto salgono a 9, con varie tipologie di reato.
Il 1904 finisce con queste schermaglie e l’anno nuovo si apre con una nuova richiesta di libertà provvisoria per i fratelli Crusco. È il 17 gennaio 1905. Il giorno dopo arriva al Pretore di Verbicaro una stringata nota a firma del sindaco di Grisolia: Il ferito, segnato a margine, è morto stamane. Prego V.S. Ill.ma dare i provvedimenti di regola per il suo seppellimento. Ma di funerale e sepoltura non si può parlare se prima non si esegue l’autopsia, perché sono passati quasi due mesi dal fatto e bisogna accertare se le cause del decesso siano o meno dovute alla coltellata ricevuta dal povero Pietro Rocca.
Secondo il perito la morte è diretta conseguenza della coltellata: Un’arma da punta e taglio penetrando dallo esterno in cavità ha prodotto una lesione di continuo la quale ha interessato il polmone, il pericardio ed il ventricolo sinistro del cuore, determinando una pleuro-polmonite adesiva circoscritta intorno alla lesione stessa; ed in conseguenza si ebbero anormali aderenze degli organi interessati. E poiché l’andamento della lesione cardiaca non fu favorevole, il ventricolo sinistro leso, rimase temporaneamente ed incompletamente occluso dalle consecutive proliferazioni connettivali le quali, in un momento di iperfunzionalità dell’organo, non avendo potuto offrire valido sostegno, ne avvenne la morte. A questo punto si decide di procedere per il reato di lesioni seguite da morte e i fratelli Crusco la libertà provvisoria se la sognano.
Passano ancora nove mesi prima che la Sezione d’Accusa ordini il rinvio a giudizio di Salvatore e Fedele Crusco, quest’ultimo in stato di libertà provvisoria, nonché di Biase Cimino per favoreggiamento. Tutti gli altri imputati minori vengono prosciolti.
Il dibattimento inizia il 12 giugno 1906 e la sentenza viene emessa il giorno dopo: assoluzione per Biase Cimino, condanna a 11 anni e 8 mesi di reclusione per Salvatore Crusco e condanna a 5 mesi e 12 giorni di reclusione per suo fratello Fedele.
Il 18 settembre 1906 la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso di Salvatore Crusco.
Appena l’Italia entra nella Prima Guerra Mondiale, il 27 maggio 1915 Governo emana un indulto di cui Salvatore Crusco può usufruire, vedendo così la sua pena diminuita di 1 anno e quindi può tornare in libertà.[1]
Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta
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[1] ASCS, Processi Penali.
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