Sono da poco passate le 9 del 21 maggio 1920 quando il fattorino telegrafico, sconvolto e trafelato, bussa alla porta di Ippolito Chiellino a Carlopoli, paese al confine tra le province di Cosenza e Catanzaro, e gli consegna un telegramma.
– Un telegramma? E che c’è scritto? Leggimelo.. lo sai che…
– Politì… – lo chiama col diminuitivo dialettale, poi tira un lungo respiro – io… io…
– Tu?
– È ‘na cosa brutta… tuo genero Salvatore scrive per dirti che tua figlia Maria è morta e dovete andare subito a Spezzano Grande vicino Cosenza – dice tutto d’un fiato, poi se ne va quasi di corsa.
Alle urla di disperazione dei genitori di Maria accorrono tutti i vicini e subito comincia il vociare sulle possibili cause della morte, tra le quali anche l’uxoricidio visto che gira da tempo la voce che Salvatore non si era mantenuto fedele. Quando arrivano i Carabinieri, anche Ippolito pare propendere per il coinvolgimento di suo genero Salvatore Chiodo, trentenne massaro di Isola Capo Rizzuto al servizio del barone Barracco nei suoi possedimenti silani di Camigliati. Poi Ippolito, sua moglie Angela Aiello e i figli che vivono con loro si mettono in viaggio. Arrivati sul posto, Salvatore va loro incontro piangendo e disperandosi e tra le lacrime racconta che Maria, incinta di quattro mesi, la mattina del 20 maggio aveva avuto dei dolori al ventre ma nessuno ci aveva fatto particolarmente caso; la sera, poi, dopo cena andò a letto che ancora aveva i dolori, ma tutti e due si erano addormentati tranquillamente. Verso le 2 di notte si era svegliato per fare un po’ di acqua e si accorse che Maria non era a letto. Accese il lume che aveva a portata di mano, fece il giro del letto e la trovò stesa per terra, morta. Una disgrazia.
Ma mentre Salvatore Chiodo racconta la tragica fine di sua moglie ai suoceri, al Pretore di Spèzzano arriva un telegramma dei Carabinieri di Carlopoli che lo informano dei sospetti manifestati da Ippolito Chiellino nei confronti del genero. Immediatamente il Magistrato con un medico si precipita al cimitero dove è stata portata la salma e non possono non notare sul corpo di Maria la presenza di numerose e strane ecchimosi. Blocca tutte le operazioni intraprese dai familiari per portare la salma a Carlopoli e dispone l’autopsia. Poi sente cosa hanno da dire i familiari, mentre Salvatore Chiodo, in attesa di sviluppi, è trattenuto nella caserma dei Carabinieri.
– La defunta mia figlia sposò tre anni dietro Chiodo Salvatore col quale convisse in piena armonia in Carlopoli per l’intero primo anno di matrimonio. Quando il Chiodo dovette recarsi alla marina di Isola Capo Rizzuto per ragione del suo mestiere, condusse ivi anche la moglie dimorandovi l’intera invernata, finché in agosto se ne tornarono entrambi a Carlopoli, ma egli subito dopo ripartì lasciando la moglie in casa nostra: costei, per ben 18 mesi, non volle seguirlo avendo appreso, non so da chi, che il marito aveva riallacciato la tresca con un’antica amante di Isola, a nome Maria, con la quale prima del matrimonio aveva fatto due figli. Durante questo periodo il Chiodo ha sempre reclamato la moglie. Nel mese ultimo venne a Carlopoli per riprendersela, conducendola ad Isola, donde, quindici giorni fa, per ragioni di lavoro vennero entrambi a Camigliati…
– I Carabinieri di Carlopoli mi scrivono dei vostri sospetti su vostro genero…
– Il pubblico e non io elevò subito sospetti a carico del marito, unicamente perché questi non le si era mantenuto fedele. I Carabinieri formularono la denuncia spontaneamente avendo io espresso unicamente il desiderio di rivedere mia figlia prima di sepellirla…
– Cosa? Non è possibile, sicuramente vostro genero vi ha convinto a dire così quando vi è venuto incontro stamattina!
– Queste mie dichiarazioni sono sincere e non suggerite da Chiodo Salvatore… è vero che stamattina mi ha raccontato di come l’ha trovata morta, che non riscontrò sul corpo alcuna lesione e che non avvertì nemmeno rumori o lamenti e quindi doveva essere stata colpita da morbo improvviso…
– Come erano i rapporti tra i due?
– Mi risultavano buoni… tranne per ciò che riguarda la relazione con la donna. Nelle lettere che inviava a mia figlia si manifestava affettuoso…
– Pare che vostra figlia fosse incinta, sapete come portava avanti la gravidanza?
– Si, era incinta però non appariva in alcun modo sofferente, né in vita soffrì alcuna seria malattia, era forte e ben composta…
– Allora, sporgete querela contro Chiodo?
– Non ho elementi sicuri che il decesso sia avvenuto per opera delittuosa, ma chiedo che la giustizia ne accerti la vera causa…
– Sicuramente!
Poi viene interrogato Salvatore, che ripete al Pretore, parola per parola, lo stesso racconto che ha fatto ai suoceri, aggiungendo solo che Maria non gli ha mai dato alcun dispiacere, che la sera prima di morire aveva fatto anche il bucato nonostante i dolori al ventre e che lui era andato in giro per procurarsi dei fiori di maggio per farle un infuso calmante ma che non ne aveva trovati. Il Pretore, avvisato dei primi risultati della sezione cadaverica in base ai quali sono state rinvenute numerose contusioni interne sull’intestino tenue, sul colon discendente e sull’utero che contiene un feto di sesso femminile al quarto mese. Non perde tempo e lo accusa formalmente di omicidio premeditato, facendolo trasferire nel carcere di Spezzano in attesa dei necessari esami autoptici, per i quali si dovrà attendere qualche mese. Nel frattempo le indagini dei Carabinieri vanno avanti, ma non si scopre nulla di interessante. Il 5 luglio Salvatore, interrogato, a sorpresa dichiara:
– Pensando meglio sulle mie condizioni, voglio riferire alla giustizia la piena verità intorno alla morte di mia moglie – forse ci siamo –. Sono stato vari giorni perplesso, ritenendo di poter sfuggire alle torture del carcere preventivo perché, dopo tutto, non mi si può negare la scemante dell’onore, l’unico forte motivo che mi ha accecato ed improvvisamente determinato ad uccidere mia moglie.
– Andiamo al sodo, Chiodo – taglia corto il Pretore.
– Devo premettere delle cose signor Pretore.
– Sentiamo…
– Mi determinai al matrimonio per le premure fattemi dalla sua nonna ed io aderii sperando di unirmi ad una donna degna del mio affetto e che si dedicasse alla mia famiglia con amore. Appena sposati io la circondai delle cure più affettuose ma pur troppo fin dai primi giorni ebbi a notare nel suo contegno di moglie e specialmente nell’intimità coniugale una certa freddezza che si era tramutata presto in una vera riluttanza. Cominciai a non avere più pace e spesso le chiedevo conto di questo senso di antipatia ma lei si stringeva nelle spalle ed accresceva i sospetti della mancanza d’amore per me…
– Insomma, pensavate a un tradimento?
– Un giorno – continua come se niente fosse – Fiducioso di riuscire a conquistare il suo cuore, volli seguire lei e la sua famiglia a lavorare alla marina di Isola Capo Rizzuto presso Trocinello Francesco che gestiva una masseria con Trocinello Giuseppe. Quest’ultimo dimorava presso la mandria dove aveva alloggio mia moglie con i suoi parenti. Io invece facevo viaggi con un traìno per trasporti dalla mandria alla masseria e pernottavo quasi sempre in quest’ultima e quindi lontano da mia moglie. Un giorno, tornato in ora inoltrata dalla mandria, sorpresi il Trocinelli Giuseppe in compagnia di mia moglie. Tal fatto mi sorprese dolorosamente e mi destò gravi sospetti di infedeltà, specialmente quando mi accorsi che nel caseggiato della mandria non vi era, in quel momento, alcuno dei parenti di mia moglie. Insistei verso mia moglie per allontanarci da quel luogo e costei però si rifiutò adducendo a pretesto che non poteva vivere lontana dai parenti, coi quali ebbi frequenti quistioni, finché mi imposi con mia moglie riuscendo a condurla in casa mia a Isola. Quivi abbiamo vissuto insieme qualche mese ma lei faceva sempre resistenze per ritornare presso i suoi parenti e, difatti, mentre io ero andato a lavorare, un giorno del 1918, scappò di casa restando a Carlopoli lunghi mesi, quasi due anni, costringendomi a vivere da solo. Facevo pervenire ai suoi parenti e a lei stessa le mie continue richieste di avvicinarsi a me, che nonostante le sue colpe la desideravo sempre, ma non fui mai contentato, tanto da decidere a ricorrere alla giustizia o di andare addirittura in America. Dopo tante scenate, nel marzo ultimo, riuscii ad avvicinarmi a mia moglie e condurla in Isola a casa mia, dove dimorammo per circa due mesi ma lei si mostrava sempre ostile a me. verso la fine d’aprile, per ragione di lavoro, dovetti recarmi in Sila al servizio del barone Barracco, rimanendovi fino agli ultimi giorni di maggio. Intanto mi pervenivano in Sila notizie che mia moglie, molto spesso, si recava senza il consenso mio e dei miei parenti alla marina di Isola a trovare i suoi parenti che lavoravano con il Trocinelli Giuseppe col quale, non vi era più dubbio, ella aveva stretto intime relazioni. Decisi di riprendere mia moglie e condurla presso di me a Camigliati per fare l’ultimo tentativo di riconciliazione e per evitare a me funeste conseguenze perché ogni tanto mi sorgeva l’idea di finirla tragicamente.
– E quindi?
– Cercai di persuaderla a convivere d’accordo con me secondo la legge e la morale, ma lei si stringeva sempre nelle spalle e diventava più malinconica. Ho dovuto gridarle sul viso l’onta fattami con la tresca che continuava col Trocinelli e lei, come per esasperarmi di più, si chiudeva in un triste silenzio. La sera del 20 giugno, dopo cena, ripresi il discorso ma con la stessa sorte, di guisa che ci mettemmo a letto disturbati. Non avevo potuto chiudere occhio tanto ero scosso dall’ira che la presenza di quella donna ingrata mi destava ed ebbi dei momenti di accecamento finché, passata qualche ora in questa condizione, seguendo l’impulso improvviso mi slanciai con furia addosso alla donna che afferrai per la gola per strangolarla, ma lei riuscì a divincolarsi e balzò a terra. Le fui nuovamente addosso e, ghermitala nuovamente per la gola, le poggiai con veemenza il mio ginocchio sinistro sul ventre; emise qualche gemito ma dopo un istante era cadavere. La sollevai e adagiai sul letto e, accortomi del grave delitto commesso, pensai di chiamare gente rivolgendomi subito ai “vanghieri” per avvisarne l’amministrazione Barracco ed anche mio zio Chiodo Giuseppe che abita pure in Camigliati… se ho ucciso fu perché avevo subita l’onta più grave che si possa infliggere ad un marito amorevole come me… quella notte questo intenso dolore mi accecò – poi pronuncia una frase che con tutto questo racconto non c’entra niente e il Pretore, che già dubitava, salta sulla sedia – Debbo dichiarare che al fatto non vi è stata la partecipazione, sia pure morale, di altre persone…
Che Maria Chiellino non fosse donna da tradire la fede coniugale lo giurano tutti, così come tutti puntano il dito sulla infedeltà di Salvatore e il Maresciallo Alfredo Chimienz, comandante la stazione di Spezzano Sila, comincia un lavoro di sfiancamento per condurre Salvatore a dire la verità vera e il 9 luglio sembra esserci una svolta: Salvatore Chiodo chiede di essere interrogato e rivela:
– Ora che mi sono messo sulla via della verità debbo confessare tutto: nell’inverno decorso sono stato alla concia di Barracco a Isola Capo Rizzuto insieme con mio zio Chiodo Giuseppe ed avendogli confidato i miei sospetti di infedeltà da parte di mia moglie, egli me li confermò dicendo di aver visto che costei amoreggiava con Peppino Trocinelli. Mi sorse così l’idea di trarre vendetta sull’adultera e detto mio zio m’incoraggiò a disfarmene. Quando venni in Sila, egli mi suggerì di propalare la notizia che mia moglie soffriva dei dolori di ventre, in modo da convincere i vicini della malattia e non fare sorgere alcun dubbio sulla morte improvvisa. Fu proprio lui ad istruirmi che avrei potuto riuscire nell’intento strangolandola piano piano in modo da farle perdere il respiro senza lasciare traccia al collo e poi percuotendola sulla pancia, mi aggiunse che tale mezzo era sicuro anche per procurarmi l’impunità, come aveva imparato in America ed ottenuto di recente un suo amico in San Giovanni in Fiore ch’era tornato pure dall’America. Il 20 giugno insistette su queste cose e mi esortò a chiedere pure il fiore di maio. Io eseguii fedelmente le sue istruzioni ma, ripeto, il delitto l’ho consumato solo io e per le ragioni d’onore che ho dichiarato.
La chiamata in correità di Giuseppe Chiodo porta subito al suo arresto, ma lui nega tutto e contrattacca:
– Mio nipote nell’aprile ultimo venne con me in Camigliati ed un giorno, senza esserne richiesto, mi confidò che aveva sospetti sulla fedeltà della moglie. Voleva vendicarsi facendola morire a poco a poco per sposare poi una donna di San Giovanni in Fiore; io lo esortai ad abbandonare la moglie qualora si fosse accertato del suo tradimento e, poiché non me ne parlò più, specie dopo che condusse seco costei in Camigliati, ritenni di averlo dissuaso da quel truce proposito, anche perché i loro rapporti mi sembrarono cordialissimi. Verso l’imbrunire del 20 giugno, Salvatore venne da me per chiedere fiore di maio, caffè e zucchero dicendo di doverlo somministrare alla moglie per certi dolori al ventre. Con un’ora di mattino mi mandò a chiamare per annunziarmi la morte della moglie. Subito mi recai sul posto e trovai la Chiellino a letto cadavere e mio nipote che fumava seduto vicino al focolare. Non dimostrava alcun dolore per la perdita della moglie e senz’altro mi disse che era morta per una forte doglia…
– Ma voi, delle intenzioni di Salvatore, ne avete parlato alla moglie? Sapevate se il tradimento di cui la accusava era vero o meno?
– Non avvertii la Chiellino delle intenzioni malevoli del marito perché speravo che costui avesse cambiato idea e nulla posso dire circa la condotta della Chiellino che mi consta buona…
– Sapevate dei dolori di cui avrebbe sofferto la Chiellino?
– Una volta lei mi disse che soffriva alquanto per la gravidanza, ma io non so dire se erano proprio questi i dolori cui alludeva il marito … per questo ho creduto alla morte improvvisa…
– Vostro nipote sostiene che siete stato voi a rivelargli la tresca della moglie, a convincerlo ad uccidere la moglie e ad insegnargli come fare.
– Non è vero, è stato lui a confidarmela… nego di avergli suggerito i mezzi da lui messi in pratica per disfarsi della moglie, non fui io a dargli le istruzioni per preparare i vicini alla notizia della morte improvvisa. Respingo, dunque, l’accusa di complicità che mi muove questo nipote degenerato. Egli solo deve rispondere del turpe delitto…
– Certo il vostro comportamento prima e dopo il fatto non vi aiuta, anzi confermerebbe la dichiarazione contro di voi…
– Io sapevo soltanto la sua intenzione… quando vidi che fumava vicino al cadavere… ammetto… debbo confessare di aver capito che aveva commesso il delitto e volli tacere per favorire la sua condizione – almeno ha cominciato a dire qualcosa di quanto, sicuramente, sa.
Intanto Salvatore cambia di nuovo versione e, il 14 luglio, accusa lo zio Giuseppe di essere il vero assassino di sua moglie:
– Io ero timoroso e riluttante al delitto. la mattina del 20 giugno andammo a lavorare da soli e tornò nuovamente alla carica con maggiore insistenza e quando si accorse che mi mancava l’animo, mi disse: “Stasera vieni a cercare la camomilla e poi lascia aperta la porta di casa perché dopo mezza notte farò io la festa!”. Difatti, nella notte, entrato cautamente per la porta da me lasciata aperta, il brigante di mio zio afferrò subito per la gola mia moglie che dormiva e poiché questa cercava divincolarsi, la trascinò a terra dove con le mani le turò la bocca per non gridare e la pestò col ginocchio, tenendola ferma finché si accertò che era morta. poi scappò consigliandomi di dare l’annuncio della morte prima di far giorno e mandarlo a chiamare. Tutto ciò io eseguii fedelmente, ma venne alla seconda mia chiamata, fece una capatina nella stanza senza profferir parola e subito si allontanò senza farsi più vedere.
– Lo sai che adesso è difficile crederti, perché non hai confessato subito?
– Il contegno tenuto da me finora mi è stato da lui fortemente raccomandato perché uomo di mondo, sapeva che la cosa sarebbe finita senza la punizione di alcuno, invece la giustizia ha sventato le sue astuzie… quale motivo potrei avere per accusare questo mio zio se non fosse colpevole? In Camigliati vi sono altri parenti eppure io debbo accusare mio zio perché brigantescamente mi ha trascinato nelle carceri. La giustizia mi punirà severamente, ma non deve sfuggire chi è il vero, il maestro ed autore principale di questo delitto.
– Vedi Salvatore, la cosa difficile da capire è il movente che avrebbe spinto tuo zio a commettere l’omicidio. Sai se tra lui e tua moglie vi erano dei risentimenti?
– Non so quale motivo personale avesse mio zio per ideare tutto questo piano. Mio zio è un uomo brutale, capace delle più grandi efferatezze, difatti per incoraggiarmi al delitto mi narrò di tante gesta criminose compiute in America… era affiliato alla mano nera!
Ma zio Giuseppe si mantiene sulle sue posizioni e continua ad ammettere soltanto di aver favorito il nipote, un tristo soggetto, col suo silenzio. Nemmeno l’ennesimo confronto a cui i due vengono sottoposti serve a modificare le posizioni. Ma una novità c’è: l’avvocato di Salvatore, Tommaso Corigliano, chiede che il suo assistito sia sottoposto a perizia psichiatrica perché istigato da una infernale e persistente opera di suggestione da parte dello zio Giuseppe tale da, lentamente, disgregare ogni energia volitiva, onde qualsiasi attività psichica si coordinò, irresistibilmente, al desiderio ed al bisogno tirannico del delitto. Istanza respinta.
Così si arriva al 13 settembre 1920 quando i periti consegnano al Pretore la loro relazione sulle cause che hanno determinato la morte di Maria:
1) Giudichiamo che la causa unica della morte di Chiellino Maria sia stato lo shock traumatico, seguito ai ripetuti colpi infertile sull’addome e che colpirono lo stomaco, l’intestino tenue, l’utero gravido e il colon discendente.
2) I mezzi adoperati potettero, in verità, essere diversi, ma tutti corpi contundenti che, data la mobilità delle pareti addominali, non lasciarono, o lasciarono assai scarsamente, le loro impronte esternamente. Verosimilmente sull’addome potette esercitarsi l’azione delle ginocchia umane, data l’estensione delle ecchimosi intraddominali; mentre a produrre le contusioni esterne poté servire un bastone o, addirittura, i piedi, non acuminati e tagliati a ghembo, di uno scannetto.
Si può escludere in maniera assoluta il concorso alla morte di cause preesistenti o sopravvenute.
Maria è stata assassinata con un metodo tale da lasciare poche tracce, ma un metodo così atroce da portarla alla morte in un tempo abbastanza lungo, facendola soffrire in modo orribile.
La Procura del re non crede all’innocenza di Giuseppe Chiodo e ne chiede il rinvio a giudizio insieme a Salvatore per avere, in correità fra di loro, inferto, a fine di uccidere, varie contusioni sulle pareti addominali ed altre parti del corpo di Maria Chiellino, ragion per cui la Chiellino ebbe a morire nella stessa notte. È il 20 dicembre 1920.
La Sezione d’Accusa accoglie la richiesta e il 17 gennaio 1921 i due vengono rinviati a giudizio.
Non appena viene fissato il dibattimento per il 21 dicembre 1921, l’avvocato Tommaso Corigliano torna alla carica per far sottoporre Salvatore a perizia psichiatrica, confortato da una relazione del medico del carcere di Cosenza che segnala la pericolosità del detenuto per sé e per gli altri in quanto è spesso preso da convulsioni istero-epilettiche e ne consiglia il ricovero in un manicomio giudiziario.
Il 3 settembre 1922 Salvatore Chiodo varca il cancello del manicomio giudiziario di Aversa per essere sottoposto alle cure del professor Filippo Saporito e il dibattimento viene rinviato a nuovo ruolo. Ma c’è un inghippo. Nessuno si preoccupa di spedire copia degli atti processuali ad Aversa e Saporito, dopo avere atteso invano per mesi, il 19 gennaio 1923 dimette Salvatore facendo presente al Presidente della Corte d’Assise di Cosenza, che nulla si è potuto rilevare in ordine allo stato di mente nell’atto del commesso reato, perché nulla si conosce del reato stesso. Obiettivamente si è riscontrato un difetto mnemonico ed una versione alquanto strana del delitto la quale, per la medesima ragione addotta, non ha potuto essere controllata. In ogni caso, anche se il paziente ha presentati attacchi epilettici con relativa sanità mentale nei periodi intervallati tra le crisi della nevrosi, fu ritenuto in grado di assistere al processo.
Bene, il 6 marzo 1923 si può ricominciare. Si può ricominciare? Nemmeno per sogno. Il primo marzo l’avvocato Corigliano presenta una nuova istanza di perizia psichiatrica e il Presidente della Corte l’accoglie e rinvia nuovamente il dibattimento, questa volta al 21 gennaio 1924.
Il 29 aprile Salvatore entra di nuovo ad Aversa, dove resterà 6 mesi, durante i quali il Professor Saporito lo rivolta come un calzino e conclude smontando anche tutte le strategie difensive dell’avvocato Corigliano:
Senza dubbio siamo innanzi ad un epilettico, convulsionario, ma un epilettico il quale, durante un doppio periodo di osservazioni cliniche, nel manicomio non ha mai presentato disturbi psichici, sostanziali, propri di una frenosi epilettica. Noi abbiamo conosciuta nell’osservato una personalità logica, cosciente, ordinata nelle idee come negli atti, non abbiamo mai, assolutamente mai, costatato errori sensoriali, illusionali, od allucinatorii, né abbiamo potuto mai rilevare deviazioni ideative, manifestazioni deliranti che avessero potuto attestarci nell’imputato una condizione patologica d’infermità di mente.
Devesi da tutto ciò, necessariamente, ritenere che Chiodo Salvatore sia un infermo di nevrosi e non di psicosi epilettica. In armonia coi risultati dell’osservazione psichiatrica sono di dati del processo: nel delitto manca ogni sostrato allucinatorio o delirante, manca ogni impulso illogico od immotivato; vi è, pel contrario, una fredda maturazione ed un’attuazione perfettamente in rapporto di coerenza ad un programma criminoso. L’accusato, di fatti, prepara, pensa, medita, in correità con lo zio Giuseppe il piano criminoso; ne prevede gli effetti, compra della camomilla per giustificare il soccorso allorquando dovrà dire dei dolori addominali della povera vittima; si circonda di ogni premura e di ogni cautela allo scopo difensivo; parla solo quando prove terribili, irrefutabili lo raggiungono; parla dapprima con reticenza, poscia, quando si vede perduto, confessa; tutto ciò non è dell’epilettico, tanto meno di quelle costituzioni deboli psichiche, facili alla suggestione, così come l’abilità difensiva vorrebbe insinuare. L’accusato Chiodo Salvatore, soggetto con integrità piena delle sue facoltà psichiche, malgrado la nevrosi epilettica, è un responsabile dei suoi atti e deve rispondere del delitto compiuto con tutta coscienza e nella piena consapevolezza.
Verrebbe da dire che resta solo da quantificare la pena per Salvatore perché la diagnosi di Saporito suona come la motivazione di una condanna.
Il dibattimento slitta ancora di qualche mese per un vizio procedurale e, finalmente, il 20 giugno 1924, esattamente 4 anni dopo il brutale assassinio, si può iniziare.
5 udienze. Il 26 giugno 1924 Salvatore Chiodo viene condannato, riconoscendogli il beneficio di una diminuita facoltà mentale, a 15 anni di reclusione per l’omicidio premeditato di sua moglie Maria.
Giuseppe Chiodo, giudicato colpevole di aver volontariamente e con premeditazione concorso a commettere il fatto con l’eccitare o rafforzare nell’esecuzione del fatto la risoluzione a commetterlo, prende 10 anni di reclusione.
Il 10 dicembre 1924, la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso di Salvatore Chiodo. Per quanto riguarda suo zio Giuseppe, il ricorso è stato dichiarato inammissibile per non aver presentato i motivi del ricorso entro i termini di legge.[1]
È bene ricordare che insieme a Maria è morta anche la sua bambina, schiacciata nel ventre materno dalle ginocchia di suo padre.
[1] ASCS, Processi Penali.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.