AFFILIATO ALLA MANO NERA

Houston Pa 13 ottobre 1913
Mia carissima madre Vi scrivo questa mia lettera colla quale con molto dispiacere vi vengo a dare una brutta notizia vi fo sapere che il mio fratello francesco e passato alaltra vita e lano amazato e la amazato il Giuseppe di Gazzara Verta il giorno 5 di questo mese e sucesso che la sparato a campato 3 giorni ed e morto giorno 7 e voi non potiti credere il grande dispiacere che sento al mio cuore pensando che non lo nemeno veduto che lui era distante da dove sono io e ame mi anno fatto il telegrammo dopo che lavevano seppelito e aquesto che la amazato ancora non lano preso il mio fratello e stato un mese acasa mia tutto il mese di settembre e lui era andato asi pigliare la cascia e altre cose per sine venire a casa mia e andato e non e tornato piu e io sono andata al posto dove che e successo il fatto e non o concluso nienti che lo trovato suppelito Non altro saluto atutti cara madre non vi credeti perche e successo che e stato 8 giorni primo anno avuto parole di niente e dopo 8 giorni la sparato a tradimento di una finestra basta non altro e saluto a tutti di famiglia vi salutano tutti la mia famiglia vi saluto io e mio sposo avoi e vi cerco A.S.B. e sono la vostra adorata figlia Antonietta Iaquinta
Adio pronta risposta
Il mio dirizo e questo
Houston Pa
Box 297
Man mano che la lettura va avanti, Anna Maria Iaquinta, la madre di Antonietta e Francesco, cambia colore diventando bianca come un lenzuolo. Le lacrime le rigano il volto mentre le mani ossute tormentano il fazzoletto che si passa sul viso per asciugarlo. Poi si abbandona alla disperazione dimenandosi, battendosi il viso e strappandosi i capelli. Suo figlio non tornerà più da quella terra lontana dove era andato a cercare la fortuna che non aveva trovato a San Giovanni in Fiore, come decine di paesani. È il 13 novembre 1913.
La notizia è di quelle che non possono passare sotto silenzio e la voce in paese si sparge in men che non si dica, arrivando anche alle orecchie attente del Delegato di P.S. Luigi Zangrilli e del Maresciallo dei Carabinieri Antonino Fava. I due, di concerto, si mettono a indagare e non ci mettono molto a scoprire che Giuseppe di Gazzara Verta, il tale indicato nella lettera come l’assassino di Francesco Iaquinta, altri non è che il trentaseienne Giuseppe Veltri, alias Gazzarra. Scoprono anche che Veltri è appena tornato dall’America e decidono di andare a prenderlo per sentire che cosa ha da dire in merito a un’accusa così precisa. L’uomo, però, prevedendo la mossa delle forze dell’ordine, il 15 novembre si presenta spontaneamente nella Caserma dei Carabinieri e racconta la sua versione dei fatti:
– Otto giorni prima che lo uccidessero, era una domenica verso mezzogiorno, ho avuto uno scambio di parole vivaci con Francesco Iaquinta, detto Paolo Pino, nella sua casa a Dola, una cittadina mineraria del West Virginia. Io abitavo lì vicino, a Rosebud e lavoravano in miniera come tanti altri compaesani, almeno una quarantina, che sono lì. Dicevo della lite… io, Antonio Mazza, Giovanni Maone e altri eravamo davanti casa, seduti a tavola che mangiavamo e bevevamo; sul tavolo c’era un caciocavallo. All’improvviso alle nostre spalle è arrivato Francesco Iaquinta che ha conficcato con violenza un coltello nel caciocavallo. Sorpresi dall’atto chiedemmo spiegazioni ed egli per giunta ci sfidò alla scherma siciliana. “Io sono di San Giovanni in Fiore!” gli ho risposto e poi ho aggiunto che avrebbe dovuto lasciarci in pace perché altri potevano ammazzarlo per noi. Iaquinta si arrabbiò e, tolto il coltello dal caciocavallo, ripeté la sfida. Gli altri amici si sono messi in mezzo e lo hanno allontanato. Iaquinta, però, appena ha raggiunto i binari della ferrovia accanto alla casa, ha cominciato a urlare: “Chi ha coraggio si faccia avanti!” ma gli amici gl’ingiunsero di andarsene, diversamente ritornando in quel luogo avrebbe avuto una mala creanza. A questo punto ha cominciato a chiamarci cornuti e poi si è allontanato, accompagnato dal Caporale della miniera che lo avvertì di non più farsi vedere. Invece è tornato giorno 5 ottobre. Ma quando gli hanno sparato, era già sera, io ero a casa mia che è vicina al luogo dell’omicidio, in compagnia della mia padrona di casa Chiara Angotti Fragale, di suo marito e di suo cognato. Ricordo, in proposito, che quando abbiamo sentito lo sparo la signora ha detto: “Hanno sparato, chi sa cosa può essere“. E il marito ha risposto: “Non c’è da allarmarsi, ne sparano tante fucilate…” subito dopo abbiamo sentito alcune donne che gridavano, siamo andati a vedere e abbiamo trovato Iaquinta ferito in casa, insieme ai padroni. Dicevano che gli avevano sparato da fuori, attraverso la finestra mentre era girato di spalle. Gli ho chiesto se sapesse chi gli aveva sparato e lui mi ha risposto: “Che! Cosa ne so io?” E poi basta. C’era un sacco di gente in quella casa e i Caporali della miniera ci hanno consigliato di portarlo all’ospedale St. Mary di Clarksburg, così io, Salvatore Ficatiellu Schipani e Antonio Mazza  lo abbiamo messo in una coperta e ci siamo avviati all’ospedale. Mentre eravamo alla stazione ad aspettare il treno per l’ospedale, Iaquinta non fece alcun nome nemmeno ai poliziotti che erano lì e che per questo lo hanno chiamato cazzone. Quei poliziotti lo conoscevano come un brutto soggetto perché faceva continuamente questioni nei saloons e nelle botteghe del posto. Dopo averlo lasciato all’ospedale ci siamo allontanati per ritornare dopo un paio di ore e Iaquinta ha chiesto a Mazza di scrivere al fratello Saverio per avvisarlo di quello che era successo e Mazza lo ha accontentato. C’erano un sacco di paesani, ma nessuno ha fatto il mio nome come sospetto. Non lo hanno fatto nemmeno il fratello e la sorella che ho trovato e salutato al funerale e non capisco proprio come si faccia a sostenere che sia io l’assassino. Io non sono scappato, dopo il fatto ho lavorato per altre due settimane nella miniera e dopo sono partito per l’Italia. Comunque Iaquinta aveva un sacco di nemici perché era nella Mano Nera, perché proprio io?
Il Delegato e il Maresciallo, sospettando del contegno tenuto da Veltri durante l’interrogatorio, definito cinico e noncurante, e dei precedenti penali dell’uomo che è ritenuto un pregiudicato pericoloso cui furono addebitati altri due omicidi in persona di compaesani in America, decidono di arrestarlo in attesa dell’imminente arrivo di altri sangiovannesi emigrati nello stesso luogo dove è avvenuto l’omicidio. Ma se Veltri è un pericoloso pregiudicato, Iaquinta non scherzava nemmeno perché era un prepotente ed era affiliato alla famigerata setta della Mano Nera. Questo ai due investigatori lo confidano in molti, ma nessuno lo mette nero su bianco, c’è paura che qualcun altro dei paesani emigrati non gradisca che si parli di questo argomento.
Nel giro di qualche giorno vengono convocati Giuseppe Madia, Giuseppe Mancina e Luigi Caputo.
– Trattandosi di un mio connazionale e paesano non mancai di chiedere chi fosse stato ad uccidere il Iaquinta Francesco ma nessuno mi ha saputo dire niente. Sono anche andato a trovarlo in ospedale ma l’ho trovato già morto – dice Madia.
– Saputo il fatto mi recai all’ospedale per vederlo, giacché il medesimo era mio amico, ma sfortunatamente lo trovai morto. Non mi venne la curiosità di sapere chi fosse l’autore dell’omicidio perché quel giorno stesso disposi per la partenza per l’Italia – dice Mancina.
– L’ho saputo dodici giorni dopo e ho chiesto in giro se si sapesse qualcosa sull’autore dell’omicidio e la gente cui mi rivolsi indicò tale Gazzarra Verta che ove mi fosse presentato lo riconoscerei benissimo – esordisce Caputo. Il Delegato e il Maresciallo lo fanno accompagnare al carcere per fargli vedere Veltri e al ritorno continua – L’individuo che LL.SS. dicono chiamarsi Veltri Giuseppe è precisamente quello che io in America ho conosciuto coll’agnomo di Gazzarra Verta. Aggiungo che il moribondo, interrogato dalla polizia, ha dichiarato che il possibile autore del colpo d’arma da fuoco a lui diretto doveva essere il Veltri suddetto.
È qualcosa ma se non basta per trattenerlo non è nemmeno troppo poco per rilasciarlo, così viene messa in moto la macchina delle rogatorie internazionali e nell’attesa di nuove prove, il Giudice Istruttore concede una proroga di 90 giorni alle indagini e Veltri rimane in carcere.
Nel frattempo gli investigatori accertano che Madia ha mentito: non è vero che nessuno gli disse il nome dell’assassino perché venti giorni fa trovandosi al servizio di Lopez Eugenio di Tommaso, possidente di qui, raccontò il fatto relativo all’omicidio in persona di Iaquinta Francesco fu Tommaso, aggiungendo che a commetterlo, così come si vociferava, era stato appunto Gazzarra Verta, cioè il Veltri. Tale circostanza è di importanza eccezionale perché messa in essere in tempo non sospetto, in tempo cioè in cui il Madia non pensava nemmeno lontanamente di doverla rassegnare al magistrato. Ormai è certo che la strada per assicurare alla giustizia l’assassino di Francesco Iaquinta è quella buona.
Veltri, intanto, per dimostrare che la sua partenza dall’America non è stata una fuga, fa esibire al Giudice la lettera che spedì l’otto settembre 1913 nella quale anticipava il suo imminente ritorno a casa:
Rosebud il 8/9/1913
Cara Sposa
Ho ricevuto la tua gradita lettera sento che godeti ottima salute come pure vine daro la mia continuazione Dunque cara sposa dal mio zio vi fati dare lire cento e vi comprati uno poco di grano e quatro o cinque tomola di patate e viarraccommando di tenere amente quanto abiati avuto da lmio zio Giovanni e Angioluzo, quindi io non apena ricevo questa lettera mimetterò in viaggio io non mi sono messo in viaggio ora per lomotivo di questa poco dimoneta che non ericevuta mentre io lio sperita giorno quatro e luglio Non altro mi riesta saluto mia commari e figliano saluto i nostri tutti echi domanda di me a Voi vi saluto e mi dico tuo affettuoso Giuseppe Veltri
Atendo risposta
Allegato alla lettera c’è anche il biglietto per lo zio:
Caro zio
Passati lire cento amia sposa Non altro vi saluto unito tua famiglia e mi dico tuo nipote Giuseppe Veltri
Passano tre mesi senza che dagli Stati Uniti arrivino documenti; Ernesto Fagiani e Pietro Mancini, difensori di Veltri, spingono per l’immediata scarcerazione e anche il Giudice Istruttore si lagna di questa situazione perché sa di non poter più trattenerlo in carcere e così chiede una proroga di altri sei mesi, che viene accordata. Ma trascorre inutilmente anche questa proroga e il 25 dicembre 1914 il Giudice Istruttore ordina la scarcerazione dell’imputato, ma ne dispone il divieto di dimora a San Giovanni in Fiore, insieme a tutta un’altra serie di obblighi e divieti. Veltri si trasferisce nel vicino paese di Cerenzia e aspetta le carte americane.
Dall’America, invece delle carte, arriva Salvatore Schipani che viene subito interrogato e rivela particolari interessanti:
– Io e Veltri eravamo vicini di casa e dopo il fatto non l’ho visto né in paese, né alla miniera dove lavoravamo insieme. Però nemmeno la Polizia è venuta a informarsi sui fatti, forse perché, come sanno tutti in America, quando si vuole la Polizia bisogna pagarla
I Carabinieri rintracciano anche una donna, Costanza Bitonti, che ha fatto il viaggio in carrozza da Crotone a San Giovanni con Giuseppe Veltri quando questi è tornato in paese e qui le cose si fanno interessanti:
Il giorno 11 mattina stavo per pigliare la diligenza a Cotrone onde mi trasferissi in S. Giovanni in Fiore, essendo stata in Catanzaro per parecchi giorni ed ignara di quel che si diceva in paese, quando incontrai il compaesano Giuseppe Veltri di Saverio che, reduce dall’America, andava a pigliare posto nella stessa corriera postale. Conoscendolo, dopo i complimenti d’uso, con certa premura mi domandò quel che si dicesse in paese. Io, credendo che la di lui preoccupazione fosse lo stato della moglie, lo assicurai della salute e della condotta di questa. Non ostante, parve insoddisfatto. In diligenza ridomandai lo scopo del di lui ritorno così all’improvviso ed egli rispose: “L’America è ora guastata, la gente si ammazza e se hai parola con uno subito si fa sospetto e possibilmente dopo certo tempo son capaci di dire che l’hai ammazzato”. Arrivati a Cerenzia, dopo aver salutato il commendatore Domenico Lopez, Veltri scese dalla carrozza dicendo che doveva informarsi bene prima di tornare in paese perché si diceva che era stato lui ad ammazzare Iaquinta. Sia prima che dopo l’abboccamento col Lopez mi sembrò timidoso (preoccupato).
Anche Lopez ha qualcosa da dire in merito:
– Quando ci siamo incontrati alla fermata del postale a Cerenzia gli ho subito riferito le voci che correvano a San Giovanni e lui, che mi sembrava tranquillo, mi rispose: “E se avevo commesso il delitto me ne venivo in Italia? Con 300 pezze che avevo, avrei fatto fare la causa colà dove la giustizia con denari ti libera subito!” e allora io gli consigliai, sentendosi innocente, di tornare a San Giovanni e presentarsi alle Autorità, potendo la sua assenza legittimare dei sospetti.
La rogatoria arriva il 19 febbraio 1915 e le sorprese non mancano. Giuseppe Veltri viene smentito da tutti i testimoni che lo accusano chiaramente di essere l’autore dell’omicidio di Francesco Iaquinta, ma ciò che subito balza agli occhi degli inquirenti è il clima di paura in cui vive la comunità italiana, e in maggior grado quella sangiovannese, nella contea di Harrison, West Virginia. Paura dettata dalla possibile vendetta di Giuseppe Veltri, tant’è che la gente si decide a parlare quando sa che non può tornare in America perché è carcerato in Italia. Che sia stato anche lui della Mano Nera?
Dalle testimonianze emerge anche un’altra verità intorno alla lite che precedette l’omicidio: quella stessa sera Veltri attese Iaquinta e gli sparò due colpi di rivoltella senza colpirlo. Inoltre non è vero che Veltri tornò al lavoro perché dalla sera dell’omicidio nessuno lo vide più a Dola, così giura Giovanni Lopez, confermando la dichiarazione di Schipani.
Pasquale Angotti invece dice di essere andato a Dola per indagare sull’autore dell’omicidio ma tutti quelli con cui parlò esitavano a rispondere perché avevano paura dell’imputato Veltri. Quando ci tornò tre mesi dopo i fatti, ottenne invece quello che cercava: Veltri minacciò di morte l’avversario nella lite. Inoltre, la donna nella cui casa fu colpito Iaquinta giura che poco prima dello sparo uscì di casa per prendere un po’ di acqua e che incontrò per strada Veltri, alterato, che le chiese se in casa ci fosse stato qualcuno. La donna, che sapeva della lite precedente e aveva paura che potesse accadere qualcosa, gli rispose che non aveva nessuno in casa; quindi alla fontana incontrò la padrona di casa di Veltri che le disse di tenere le persiane delle finestre chiuse perché poteva succedere qualcosa di brutto.
Francesco Laura, alias Trenta Barrini, dice che la sera dell’omicidio stava aspettando il treno alla stazione di Clarksburg quando arrivarono il ferito e i suoi accompagnatori. Iaquinta gli chiese di andare ad avvisare la Polizia, cosa che non fece perché tornò alla sua bottega e che qui lo raggiunse Veltri, il quale gli chiese insistentemente se fosse andato ad avvisare la polizia. Di più, qualche giorno dopo Veltri gli chiese se pensasse che a sparare a Iaquinta fosse stato lui.
Può bastare per chiudere l’istruttoria.
Il 17 aprile 1916 la Sezione d’Accusa rinvia a giudizio Giuseppe Veltri per omicidio premeditato e ci vorrà quasi un altro anno prima di arrivare a sentenza. Il 2 febbraio 1917 la Corte d’Assise di Cosenza lo ritiene colpevole del reato e lo condanna a cinque anni, sei mesi e venti giorni di reclusione.
Il ricorso per Cassazione verrà rigettato il 12 aprile successivo e a Giuseppe Veltri restano ancora da scontare due anni e una ventina di giorni.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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