LA VOGLIA DI MORIRE

Quando il quarantasettenne Giorgio Meringolo si alza dal letto la mattina del 29 aprile 1918, sua moglie Domenica si accorge subito che sta peggio del solito. Si, perché sono ormai sette mesi che l’uomo non esce di casa dal momento che non si sente bene, è debole, irascibile e sente sempre freddo, ma nessuno riesce a capire di cosa si tratti, se non azzardare che l’unica cosa che non va in Giorgio è la sua testa. Nevrastenia, dicono.
Giorgio, lo sguardo allucinato, comincia a pronunciare parole e frasi sconnesse, senza senso. Poi si avvicina al tavolino dove sono appoggiati alcuni attrezzi e mentre la moglie lo osserva preoccupata, afferra un coltello e comincia a tagliuzzarsi la pelle dell’addome urlando:
– Mi ammazzo! Voglio morire!
Domenica gli si lancia addosso per cercare di fermarlo, ma suo marito è troppo forte per lei, così comincia a gridare al soccorso con quanto fiato ha in gola. Maria Pignatelli, che abita nella casa attigua, sapendo delle condizioni di Giorgio, suo cognato, si precipita a vedere cosa sta accadendo e trova i due avvinghiati in una lotta disperata. Comincia a urlare anche lei e la sua voce distrae l’uomo dal suo proposito perché sembra calmarsi di botto. La guarda, lascia il coltello nelle mani della moglie, le sorride con una specie di ghigno da far gelare il sangue nelle vene e poi come un fulmine afferra la zappa appoggiata a un muro e la colpisce in testa col dorso dell’attrezzo. Per fortuna o per la prontezza di riflessi della donna e forse per la leggerezza del colpo, il risultato è solo un bozzo, doloroso, ma niente di più.
Poi, allarmata, arriva anche Nunziata Meringolo, la sorella di Giorgio, che viene accolta con parole irruenti e con dei colpi della medesima zappa, anche questi senza conseguenze gravi.
L’uomo ha la zappa ancora in mano, sbuffa come un toro e continua a pronunciare frasi senza senso; sua moglie scappa terrorizzata pensando che i prossimi colpi possano essere diretti a lei; le altre due donne, doloranti, riescono anche loro a tagliare la corda e Giorgio resta da solo in casa, ormai calmo e lontano dal suo proposito suicida. Anche la sua testa sembra essere tornata a posto e le parole che gli escono dalla bocca sono tornate ad essere sensate, così la moglie pensa di poterlo lasciare e andare a lavorare nell’orto.
Verso le 11,00 Giorgio decide di prendere, finalmente, una boccata d’aria ed esce sull’aia. Vede suo cognato, Gaetano Ferraro, che sta guardando qualcosa nel porcile e gli si avvicina tranquillamente con la zappa in mano.
– Dovresti mettere delle foglie nel porcile per coprire la merda… adesso comincia il caldo e in casa sale una puzza che non si può resistere – gli dice Gaetano Ferraro.
Giorgio nemmeno risponde. Quasi con indifferenza fa un mezzo giro su sé stesso e si trova faccia a faccia con suo cognato. All’improvviso afferra la zappa con tutte e due le mani, la alza sopra la testa e la abbatte col dorso sulla testa di Gaetano il quale, colpito all’occipite, fa pochi passi indietro e cade esanime dietro la casa sua e cioè un 10 metri dal luogo in cui fu colpito; ivi rimane agonizzante e verso le 15 spira.
I Carabinieri e il Pretore di Acri arrivano in contrada Guglielmo dopo un paio di ore e trovano il cadavere di Ferraro nel punto in cui cadde ferito. Giorgio Meringolo è poco distante ancora con la zappa in mano ma è calmo e si lascia disarmare e mettere i ferri senza opporre resistenza.
Menai col dorso della zappulla mia cognata e mia sorella perché costoro vennero a casa mia. Non devo essere padrone di stare solo? Non io andai da loro, ma esse vennero da me…
– Perché avete ucciso vostro cognato? – gli chiede il Pretore.
Non l’ho ucciso io a Gaetano Ferraro. Lui molestava il mio cignaru [maiale NdA] ed il cignaru colla zappa lo ha ammazzato!
– Ma che state dicendo? Ma quale maiale d’Egitto! Parlate e dite la verità!
– Non l’ho detto che non sono stato io ad uccidere Gaetano Ferraro? È stato il cignaru che, molestato, è uscito dalla zimba [porcile NdA] e lo ha percosso colla zappa.
– È vero che tre anni fa siete stato condannato in seguito a una querela per ingiurie fattavi proprio dal Ferraro? È vero che avevate un forte rancore nei suoi confronti?
Io non ricordo nulla
– Ma che avete picchiato con la zappa vostra sorella e vostra cognata lo ricordate?
– Si.
– Perché lo avete fatto? – gli chiede di nuovo il Pretore per cercare di capire se Giorgio Meringolo è davvero come mostra di essere o sta fingendo.
Ho picchiato mia sorella Nunziata e mia cognata Maria perché erano venute a casa mia. Oh! Che io non sono padrone di stare libero nella mia casa e di non essere molestato da chicchessia?
– Balle! Voi avete picchiato vostra sorella perché suo figlio due mesi fa vi aveva ucciso una gallina!
Non ricordo nulla
 – E avete picchiato vostra cognata perché suo marito, cioè vostro fratello, vi aveva convinto a dargli un pezzetto di terra che avete ereditato da vostra madre e pensavate che vi avesse fregato.
La terra se la pigli colui al quale toccherà. Non so niente, io
– Portatelo via – ordina il Pretore guardando sconsolato il Maresciallo. Poi, rimasti soli, continua – credo che non ci siano dubbi… è davvero pazzo. Scriverò al Giudice Istruttore per chiedere che sia ricoverato in manicomio per fargli la perizia – il Maresciallo annuisce e in men che non si dica il fascicolo arriva sul tavolo dei giudici del Tribunale di Cosenza, dal quale parte subito la richiesta di ricovero e perizia psichiatrica. Nell’attesa delle necessarie autorizzazioni, l’assassino viene trasferito nel carcere del capoluogo, ma durante il tragitto viene colpito da attacchi di nevrastenia e non fu possibile tradurlo che a cavallo perché non poteva reggersi in piedi, scrivono i Carabinieri nel loro rapporto.
L’11 luglio successivo Giorgio Meringolo entra nel manicomio giudiziario di Aversa dove i dottori Filippo Saporito ed Emanuele Mirabella lo sottopongono a perizia psichiatrica.
Annotano i periti: Il Meringolo, durante l’osservazione, è stato sempre ricoverato alla Infermeria dell’Istituto perché presentava un deperimento organico molto appariscente; il suo peso, che all’atto del ricovero nel manicomio era di Kg 52, in questi ultimi tempi è disceso a Kg. 44. I toni cardiaci sono molto deboli ed il secondo tono della mitrale e dell’aorta prettamente metallici. Il polso è piccolo, rado e talune volte presenta qualche intermittenza. Diverse volte il Meringolo ha presentato ostinata sitofobia, tanto che è stato necessario ricorrere all’alimentazione forzata. Il senso muscolare deve considerarsi anormale.
Il Meringolo, dal viso pallido, emaciato, dai capelli incolti al pari della barba, dall’aria stordita e trasognata, non risponde o risponde a stento alle più semplici domande che gli si rivolgono. Costante è stata in lui l’espressione dolorosa, non interrotta mai da un lampo di conforto e di tregua, bensì aggravata spesso da crisi di pianto e di rabbia, in corrispondenza delle quali il suo sguardo diventa bieco, corruga la fronte con contrazioni spasmodiche di tutti i muscoli del volto. Quando gli stimoli esterni od interni, produttori di tali crisi, sono di maggiore intensità, allora il corteo dei fenomeni diventa ancora più imponente: egli si scompone di più nel colorito del volto, nella mimica, negli atteggiamenti, nella ritmia del polso, la favella si fa balbuziente, le mani si raffreddano dando sudori profusi. Nell’opporre la più ostinata resistenza all’alimentazione artificiale, il Meringolo si chiude in un ostinato silenzio ed alle esortazioni che gli si rivolgono, con gli occhi stravolti ed iniettati di sangue, comincia a mugolare fra i denti: “Scannatemi, piuttosto scannatemi” o trincia con le mani segni di benedizione per l’aria per significare con ciò la sua intenzione di voler morire. Ogni qualvolta si è costretti alimentarlo è necessario anche infrenargli le mani per alquanto tempo giacché con esse tenta di provocarsi il vomito per rimettere quegli alimenti che gli sono stati forzatamente introdotti nello stomaco. Tali crisi di sitofobia, che hanno avuta una durata variabile da pochi giorni ad una settimana, insorte all’improvviso senza alcuna causa apparente, allo stesso modo si sono dileguate ed il soggetto ha ricominciato ad alimentarsi spontaneamente e con piacere. Ciò non ostante, l’idea di voler morire è immanente nella patologia del nostro soggetto ed è, può dirsi, la molla regolatrice di tutta la sua vita manicomiale, il che ha richiesto per lui una speciale, assidua ed intensa vigilanza. Sia che accarezzi la sua consueta smania di voler morire, sia che ceda al dolore per le sue sofferenze fisiche, sia che ricordi i figli, contrae i lineamenti, impallidisce ancora più dell’ordinario, irrigidisce tutta la persona, lo sguardo, contrariamente al solito, diventa scintillante e balbetta frasi incoerenti oppure ammutolisce del tutto guardando ad un punto fisso come se vedesse qualcosa. Talune volte, poi, ha delle vere crisi di terrore per le quali scoppia in pianto e fa segno come se qualcuno lo perseguiti e voglia fargli del male.
Un’altra nota importantissima appare ed è quella della inconsapevolezza di quanto egli commise. Pur essendogli stato contestato dalla Giustizia e da noi quanto egli commise, non si mostra affatto convinto di aver ferito la moglie, la sorella, la cognata e di aver ucciso il cognato Ferraro. Qualsiasi contestazione tendente a dimostrare l’assurdità delle sue affermazioni [Non sono stato io ad ucciderlo ma fu lui che andò a molestare ‘u cignaru miu e questo, con la zappulla, lo ammazzò NdA] è pel Meringolo priva di qualsiasi efficacia. Irremovibile nelle proprie convinzioni, con una testardaggine pari alla sua ignoranza, non cede nemmeno all’evidenza dei fatti od alla forza dei più stringenti argomenti, dimostrando con ciò la sua incapacità ad apprezzare convenientemente gli uni o ad essere suscettibile di modificazioni o di correttivi da parte degli altri; e per poco che si tenti di forzare la mano e cercare d’imporgli in un modo qualunque la verità dei fatti, si rischia di provocare una delle sue solite crisi d’iracondia, il che consiglia di smettere al più presto il tentativo.
Da quello che abbiamo esposto, il sostrato fondamentale del nostro soggetto deve ritenersi quello di un deficiente, sia per difetto di educazione e di cultura intellettuale, sia per difetto psichico originario. Questa personalità abituale del soggetto stesso, frequentemente e specie negli ultimi tempi, scompare, o meglio si eclissa sotto l’influsso di una nuova attività. Ed appunto è questa nuova personalità che a noi interessa perché si integra nelle crisi di cui sopra abbiamo parlato.
Secondo il nostro giudizio su queste crisi ci è poco da discutere perché dalle considerazioni obiettive e dalla osservazione clinica scaturisce che esse sono di natura epilettica. È da tutti risaputo ed è scientificamente provato che non occorre la classica convulsione motoria per ammettere il mal caduco, giacché questa può essere sostituita da fatti d’indole sensitiva, sensoriale motrice e psichica assai cospicui e di massimo interesse medico-legale. Riunendo tutto quanto ci è noto sulle manifestazioni morbose del nostro soggetto, questi fatti ci appaiono tutti come tante facce dello stesso prisma, rappresentato dall’epilessia.
Giunti per forza di cose a questa diagnosi clinica, per completare il nostro compito non ci resta che porci un solo quesito: Quale posto occupano i reati commessi dal Meringolo il mattino del 29 Aprile 1918 in mezzo a tanti fattori costitutivi della sua personalità? Sono essi atti della medesima natura epilettica o prescindono dalla grande nevrosi, come qualsiasi fenomeno di criminalità?
Se fosse lecito giudicare dei complessi fenomeni della psiche tenendo conto soltanto della loro apparente semplicità, l’origine dei delitti del Meringolo parrebbe riposta in incidenti che si direbbero quasi futili. Non possiamo, invero, ammettere come cause determinanti l’improvviso e cieco scoppio di violento furore le antiche, sopite, futilissime ragioni di risentimento che il Meringolo poteva avere contro i propri congiunti e che solo la diligente istruttoria del processo ha potuto far ritornare a galla.
Ora è da considerare che anche i fenomeni criminali ubbidiscono a determinate leggi; una certa logica regola anche i delinquenti comuni nel determinismo delle loro azioni antisociali, per cui il trovare cause così trascurabili produttive di effetti così disastrosi non ammette che due spiegazioni: il soggetto doveva essere un tipo efferatamente sanguinario, oppure nella determinazione volitiva ha dovuto interporsi un elemento nuovo, di natura evidentemente morbosa. Di queste due ipotesi la prima resta scartata da tutti i precedenti del soggetto e dai risultati delle nostre dirette osservazioni, onde non resta che la seconda, e l’elemento morboso perturbatore della volontà è facile riconoscerlo nella costituzione epilettica già assodata nel Meringolo che, come se nulla avesse mai commesso, se ne rimase fino al giorno appresso indifferente ed impassibile finché non venne arrestato dai Carabinieri. Un contegno simile è l’espressione più eloquente dell’incoscienza che, a sua volta, è una delle caratteristiche delle azioni epilettiche.
Il comportamento del Meringolo in quel giorno fatale altro non rappresenta che la riproduzione fedele del meccanismo di azione delle esplosioni psico-epilettiche.
I delitti del nostro soggetto si devono, pertanto, considerare come l’espressione di quegli atti riflessi che si sottraggono al dominio delle alte funzioni psichiche e non rappresentano altro che le conseguenze fatali e necessarie di dinamismi psichici per i quali, dato uno stimolo ne consegue di necessità una reazione proporzionata alla irritabilità ed alla tensione dell’organo recettore dello stimolo stesso e non alle qualità intrinseche di questo.
Siffatto meccanismo d’azione, prettamente morboso, è ovvio si sottragga del tutto alle alte funzioni psichiche della volontà e della condotta.
1°) Meringolo Giorgio da tempo anteriore ai delitti è affetto da epilessia con accessi psichici.
2°) Nel commettere i delitti pei quali trovasi imputato era in preda ad una crisi del suo male, per cui trovavasi in tale stato d’infermità di mente da escludere completamente la coscienza e la libertà delle sue azioni.
3°) La libertà del Meringolo deve considerarsi pericolosa per lui stesso e per gli altri.
È il 30 gennaio 1919 e la sorte dell’imputato è segnata: dovrà passare il resto dei suoi giorni all’interno di un manicomio giudiziario.
Ma i dottori Saporito e Mirabella non hanno nemmeno il tempo di far battere a macchina le 35 pagine di cui si compone la loro perizia, che il 31 gennaio alle ore 23,00 Giorgio Meringolo viene  colpito da una nuova, violenta crisi epilettica e, fisicamente prostrato dal reiterato rifiuto del cibo, muore.[1]
Ha ottenuto quello che sperava per sé: liberarsi dal mostro che lo torturava.

 

 

[1] ASCS, Processi Penali.

Lascia il primo commento

Lascia un commento