LA PASSATELLA SANGIOVANNESE

Natale si avvicina e l’allegria aumenta. L’8 dicembre 1905 è già buio da un pezzo quando nella cantina di Biagio Pisani, a San Giovanni in Fiore, un gruppo di amici sta giocando alla passatella. Si stringono alleanze e gli ottavini si riempiono e si svuotano di continuo. Qualcuno beve di più, qualcuno di meno e qualcuno rimane, come si dice, all’urma, senza cioè bere nemmeno un goccio. Sfottò e risate si mischiano e la frustrazione di restare con la gola secca aumenta in chi è ancora all’urma.
– Ero uscito io padrone! Hai imbrogliato, questo tocco non vale, io non pago! – protesta Antonio Secreti.
Come? Tutti diciamo che il tocco è andato bene e tu solo vuoi dire il contrario? Ma statti zitto che hai torto! – gli rinfaccia Antonio Iaquinta, ventitreenne contadino attualmente in licenza dal servizio militare.
Pure tu parli, svergognato, puarcu fricatu! – controbatte Secreti.
La tensione sale e il cantiniere sa che in casi del genere la situazione può precipitare da un momento all’altro, così cerca di calmare gli animi cominciando a restituire ad ognuno dei giocatori il soldo che hanno già pagato, ma Secreti è già partito per la tangente: afferrato Iaquinta per le braccia incominciò a percuoterlo, stringendo i denti in modo aggressivo e minaccioso, ma Iaquinta risponde con un ceffone che fa piegare in due l’avversario. Il cantiniere, a questo punto, approfitta del momento di disorientamento per cacciare dal locale Antonio Iaquinta e tutto ritorna tranquillo. Dopo qualche minuto Iaquinta rientra, si siede a un tavolino con suo fratello Vincenzo, ‘u mulinaru, e con un certo Francesco Falbo e ordina un mezzo litro che i tre bevono insieme.
Secreti se ne va con un paio di amici e adesso il cantiniere può stare davvero tranquillo che per questa sera non ci saranno più questioni. Infatti dopo un quarto d’ora vanno via tutti e Pisani, appena passate le otto di sera, può chiudere e andarsene a casa.
Hai visto a Secreti come voleva sostenere cose non vere? – dice Antonio al fratello.
Secreti è nelle vicinanze e lo sente. Gli si avvicina minaccioso e di rimando gli fa:
Che cosa intendi significare?
Non mi dovevi tu dire quella parola
E da una parola all’altra finirono per minacciarsi scambievolmente. Ma gli amici di Secreti, faticando un bel po’, riescono a portarselo via mentre sbraita:
Questa sera, mannaja allu mulinaru della madonna, ti debbo fare il culo a un’altra parte!
– Andiamo che ti porto a casa – gli dice Giuseppe De Vuono.
No, per la madonna! Tu vattene pei cazzi tuoi perché stasera allu mulinaru ci debbo fare il culo tanto! – ma nessuno capisce perché ce l’abbia tanto con Vincenzo Iaquinta, visto che la lite l’ha avuta con il fratello Antonio. Li avrà confusi per l’effetto del vino, ma non sembra affatto ubriaco.
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– Sai che facciamo adesso? – dice Vincenzo Iaquinta agli altri della compagnia ormai rasserenata – Andiamo al putighinu di Loria e compriamo un bel pezzo di baccalà e ce lo mangiamo domani sera.
Ma Loria il baccalà lo ha finito e gli amici se ne vanno delusi imboccando la via Umberto I per tornare a casa. Arrivati vicino alla cantina di Giacomo Carravetta vedono, malamente illuminati dalla poca luce che filtra dal locale, tre uomini che sembrano discutere tra loro. Sono Secreti e gli altri due che stanno ancora cercando di trascinarlo via tenendolo per le braccia, ma Secreti si libera della stretta e torna indietro per riprendere la quistione con Iaquinta. Il Secreti, sempre più indignandosi, diceva parole di minaccia contro il Iaquinta il quale gliele rimbeccava. Gli altri si mettono di nuovo in mezzo per indurli a farla finita. Ma in questo mentre Iaquinta Antonio allungò una manata sulla testa del Secreti nella cui mano adesso luccica sinistramente la lama di un coltello e dopo aver fatto un passo indietro, gli s’avventò contro. Successe allora un parapiglia, si fecero ad un pallone (mucchio). Arrivò Bitonti Maria, la moglie del Iaquinta Vincenzo.
Un grido strozzato. Antonio Iaquinta barcolla e poi stramazza al suolo senza più lamentarsi.
– Perché lo hai fatto? – Urla Vincenzo Iaquinta afferrando Secreti per le braccia in modo da non fargli più usare il coltello – Perché? Perché?
Sua moglie è terrorizzata, teme che Vincenzo scoppi a piangere da un momento all’altro mollando la presa e rischiando di farsi accoltellare da Secreti, così si lancia in suo soccorso afferrando il marito per la giacca al fine di trascinarselo via, ma ha sbagliato i conti perché è proprio il suo intervento che consente a Secreti di liberarsi e di tirare una coltellata in faccia a Vincenzo Iaquinta, tagliandogli il labbro inferiore in due; non solo: con lo stesso colpo buca da parte a parte la mano di Maria Bitonti. Poi scappa nel buio della notte.
Vincenzo sente scorrere il suo sangue ma non ci bada. Corre dal fratello a terra, già soccorso dalla gente che è sopraggiunta.
Alzati che sei ubbriaco… – gli dice sollevandolo, ma Antonio non risponde.
Vincenzo solleva lo sguardo cercando il conforto di qualcuno che gli dica che Antonio è vivo, ma non lo trova. Vede l’amico che era con lui e il fratello, Francesco Falbo, e si accorge che si tiene una mano stretta sul collo dal quale cola un filo di sangue.
– Pure a te?
– Non è niente…
I presenti sollevano il corpo ormai senza vita di Antonio Iaquinta e lo portano in una casa vicina dove arrivano anche due medici, che possono solo constatarne la morte dovuta alla recisione della tiroide e dell’arteria tiroidea che ha causato un’importante emorragia la quale, col getto brusco e violento del sangue nel laringe per mezzo dell’apertura della cartilagine tiroidea, introducendosi nei bronchi ha impedito al polmone lo scambio dell’aria e perciò l’avvelenamento dell’organismo.
Gli altri tre feriti se la caveranno in pochi giorni, ma nessuno sa ancora come, quando e da chi sia stato ferito Falbo, perché nessuno se ne è accorto.
Vidi che Secreti brandiva un coltello e lo afferrai pel lembo della giacca, ma in quel mentre, non so da chi ma ritengo certo dal Secreti medesimo, mi venne vibrato un colpo di coltello al collo, poi vidi che esso Secreti ferì anche al collo il Iaquinta Antonio, il quale poco dopo stramazzò per terra. Col Secreti erano altri due individui, cioè il figlio del Massaro ed un altro che non conobbi, i quali pure inveirono contro di me e dei Iaquinta a pugni e calci, ma non distinsi se fossero pure armati di coltello. Io rimasi accanto al Iaquinta caduto per terra e non distinsi altro – racconta Falbo e così si comincia a fare un po’ di chiarezza.
Gli uomini del Maresciallo Giovanni Posteris trovano accanto al luogo dove era caduto Iaquinta un coltello non insidioso e nelle immediate vicinanze un altro coltello, questo ancora sporco di sangue. Poi si mettono subito sulle tracce di Secreti e del figlio del massaro, identificato per il trentaquattrenne Giuseppe Iaquinta.
Secreti viene rintracciato la mattina successiva, nascosto sotto un letto della casa di un suo cugino. E chi è questo suo cugino? È il padre di Giuseppe Iaquinta. Secreti viene arrestato e si difende:
Io non ricordo del fatto del quale mi domandate – attacca –. Ero un poco ubbriaco perché nella bottega di Pisani avevo bevuto circa un litro di vino. Solo mi pare di ricordare che nella bottega ebbi che dire con individui, che non conosco in alcun modo, a proposito di un giuoco al tocco che stavamo facendo. Dopo circa un quarto d’ora, uscito dalla bettola del Pisani, incontrai un certo Antonio alias “Sticco” e assieme con costui andammo per la via dietro la chiesa, uscimmo in piazza ed arrivati avanti il botteghino di Loria gli dissi di andare a chiamare nella bettola del Pisani un certo Massaro per poi andare via insieme, mentre io nel frattempo entravo nel botteghino per comprare il sigaro – pare che la memoria gli stia tornando –. Ne uscii col sigaro acceso e quando a pochi passi di distanza, presso la bottega di Carravetta, vidi colà fermati quegli stessi individui coi quali avevo avuto che dire. Costoro mi si sono avvicinati e uno di essi prima mi tirò due pugni al petto. Io gli dissi di star quieto colle mani, ma allora gli altri, dei quali non ricordo il numero ma mi pare che fossero tre o quattro in tutto, mi si avventarono e mi tempestarono di pugni. Io per le percosse ricevute caddi a terra e niente altro più ricordo
– Non fare il furbo, parla che è meglio – lo avvisa il Maresciallo.
Ripeto che nulla ricordo oltre quanto dianzi ho riferito
– Sono tuoi questi coltelli? – gli chiede il Maresciallo mostrandogli le armi sequestrate.
Né l’uno né l’altro di tali coltelli riconosco per mio.
– Ma ieri sera il coltello in tasca lo avevi?
Non mi ricordoio non sono solito portare addosso coltello di qualsiasi specie
Sarà difficile ottenere una confessione piena. Intanto arriva una soffiata che indica nel diciannovenne contadino Francesco Barberio lo sconosciuto che era in compagnia di Secreti e Giuseppe Iaquinta. Adesso anche lui è ricercato e la loro latitanza dura ancora poche ore, poi vengono arrestati.
Giuseppe Iaquinta racconta la sua versione dei fatti
Trascinai il Secreti fino all’ufficio postale ove egli si liberò da me e ritornò verso la cantina di Pisani. Io non lo seguii ma invece mi recai dalla mia fidanzata la quale abita nel Vallone e che è prossima a diventare mia moglie. In casa di costei mi trattenni fin verso la mezzanotte. Quando tornai a casa seppi che Secreti aveva ucciso Antonio Iaquinta. Mi dissero ancora che il Secreti, dopo il fatto, era penetrato nella nostra casa aprendone la porta che era chiusa col saliscendi… poi la mattina lo hanno arrestato…
– Siete cugini…
Io non sono parente del Secreti, sono però suo vicino di casa e perciò suo amico!
Adesso tocca a Francesco Barberio difendersi.
– Quando uscii dalla cantina di Pisani vidi che Secreti si paroliava con Antonio Iaquinta. Vicino a loro c’era parecchia gente e c’era anche Antonio Girimonte, Sticco. Secreti e Iaquinta si afferrarono avanti la bottega di Carravetta. Io mi nascosi dietro lo spigolo del muro e siccome ho gli occhi ammalati non vidi altro
Vengono sentiti molti testimoni e nessuno dice di aver visto Giuseppe Iaquinta e Francesco Barberio colpire con calci e pugni gli avversari, né di avere visto nelle loro mani armi di sorta. Ma c’è un coltello – non insidioso, mezzo arrugginito e che non presenta macchie di sangue – in più. Di chi è? Per il Pubblico Ministero poco importa, non è stato usato e non lo nomina nemmeno nella sua richiesta di rinvio a giudizio per Antonio Secreti e di proscioglimento per gli altri due, nei confronti dei quali non ci sono indizi sufficienti.
Il 16 giugno 1906 la Sezione d’Accusa accoglie le richieste del Pubblico Ministero rinviando a giudizio Antonio Secreti con l’accusa di omicidio volontario e lesioni personali e prosciogliendo gli altri due imputati.
Il dibattimento è fissato per il 17 dicembre 1906 e da tutte le testimonianze risulta che quella sera Secreti non era affatto ubriaco e le cose per lui sembrano mettersi male. La prospettiva di passare un lungo periodo in qualche colonia penale sperduta aumenta quando il Pubblico Ministero fa la richiesta di 20 anni di reclusione, più pene accessorie.
La giuria invece gli dà una mano riconoscendogli l’attenuante della provocazione grave e lo condanna a 13 anni, 5 mesi e 20 giorni.
Il 28 febbraio 1907 la Suprema Corte di Cassazione dichiarerà inammissibile il suo ricorso.[1]

 

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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