LE TRE CROCI DI CIPOLLINA

 Ad una delle estremità dell’abitato di Cipollina è il luogo denominato Timpone o Calvario, formato da un rialzo di roccia e di terra, sulla parte più alta del quale sorgono tre croci. A lato delle croci la roccia è in parte tagliata a forma di sedile, che resta all’ombra di tre alti alberi. Più in giù del sedile, e propriamente 28 metri più in sotto, sono parecchie piante di fichi d’India, che in Cipollina chiamano “pracche”. Dal punto del sedile a quello ove sono i fichi d’India si va da una stradetta che si svolge in forma irregolare, in alcune parti è in forte pendio ed in altre la roccia forma una specie di scala. È proprio sul Calvario che verso le 19,30 del 27 maggio 1925 un gruppo di sei giovanotti sta discutendo di fatti privati. Tra loro c’è il diciannovenne Salvatore Adduci, un tipo poco raccomandabile, violento, attaccabrighe e temuto. Temuto soprattutto perché non fa mistero di appartenere alla malavita locale, la famigerata “famiglia Montalbano”.
L’attenzione di Adduci viene attratta dalla figura di un ragazzo che si avvicina al Calvario: è il suo coetaneo Giovanni Cirimele, il cui carattere ingenuo ed incapace di concepire il male è completamente all’opposto del suo. Giovanni si ferma a salutare mentre sta sopraggiungendo anche una ragazza, una bella ragazza, Filomena Mandato. Tutti la guardano ma nessuno fa apprezzamenti e lei passa oltre tranquillamente. Salvatore Adduci, dopo avere fatto qualche mossa da sbafante, prende per un braccio  Cirimele e gli fa
– Giovà, vieni con me
– Dove?
– Qui sotto che facciamo un atto grande… una bella cacata insomma! – specifica ridendo sguaiatamente
– Va bene…
I due ragazzi cominciano a scendere lungo la stradina che porta ai fichi d’India ma, fatti solo pochi passi, Giovanni si ferma e comincia a tornare indietro
Che ci vengo a fare io alle pracche… va tu solo a fare l’atto grande
Adduci lo raggiunge, lo strattona per farlo voltare verso di sé e quando lo ha quasi di fronte, fa un mezzo passo indietro, tira fuori dalla tasca una rivoltella, una Mauser nera, e spara un colpo a bruciapelo, tre o quattro centimetri dagli indumenti dell’infelice, poi rimette in tasca l’arma e, tra l’incredulità dei presenti, guarda con disprezzo Giovanni e dice
Sei morto… ti ni frichi… ti ni frichi… – poi se ne va come se niente fosse accaduto.
La pallottola ha centrato Giovanni al lato sinistro del petto e dopo avergli sfiorato il braccio sinistro, che è stato ustionato dalla vampata, gli ha attraversato il polmone sinistro, il cuore, e poi trapassato anche il polmone destro, fermandosi contro una costola. Giovanni barcolla e cade a terra boccheggiando in cerca di aria. Un rivolo di sangue gli scorre sotto la camicia color fantasia imbrattandola, un altro gli esce da un angolo della bocca
Mamma… brucio
Urlando e bestemmiando gli altri ragazzi cercano di soccorrerlo, poi uno va a chiamare il medico del paese, un altro corre all’ufficio postale dove c’è un telefono per avvisare i Carabinieri di Grisolia. Il dottor Vittorio Sollazzo arriva subito e capisce che non c’è niente da fare, nonostante il cuore continui a battere. Ma vuole tentare lo stesso l’impossibile e ordina che Giovanni sia portato di corsa a casa, dove gli pratica un’iniezione, proprio mentre il cuore di Giovanni cessa di battere.
Davanti casa la folla, stanca dei soprusi della famiglia Montalbano, chiede giustizia.
– Prendetelo! È andato verso Verbicaro! – urla la folla ai Carabinieri che si lanciano all’inseguimento
Mentre Salvatore Adduci sta vagando senza meta cercando una soluzione al suo colpo di testa, passa accanto alla stazione ferroviaria dove incontra un certo Francesco Belmonte, il quale sa già che il povero Giovanni Cirimele è morto, ma sa anche che Adduci è armato e quindi si guarda bene dal cercare di bloccarlo, però gli parla
– Lo sai che l’hai ammazzato?
Se è morto mi vado a presentare, io me la duvìa fare, ma si sapìa ca mi duviva succedere chistu, n’ammazzava atri due o tri chi mi eranu contrarii e chi m’avivanu minatu
Lo dice quasi come se niente fosse, senza una parola di pentimento e la sua preoccupazione sembra essere solo quella di non aver potuto o saputo rispettare fino in fondo una delle regole della famiglia: vendicarsi delle offese ricevute, vendicarsi di quelli chi m’avivanu minatu. O forse lo ha fatto per passare di grado nella famiglia e ciò poteva avvenire mediando un fatto di sangue commesso. È in questo momento che decide di andarsi a costituire nelle mani dei Carabinieri di Verbicaro, ma lo farà solo la mattina successiva
– Ieri sera sono venuto a diverbio con Giovanni Cirimele il quale, con modi risoluti e minacciosi m’invitò a seguirlo e io a tale invito, siccome avevo bevuto più del solito, lo seguii. Ma dopo pochi passi il Cirimele estrasse dalla tasca un coltello con punta e mi si scagliò contro per colpirmi al torace, ma fortunatamente, sebbene brillo, mi sono schermito, così mi perforò soltanto la manica sinistra della giacca. Il Cirimele, non contento di ciò, continuò a minacciarmi di morte, per tanto fui costretto a difendermi adoperando la rivoltella a cinque colpi che tenevo per caso in tasca, esplodendone un colpo contro il mio aggressore. Ciò lo feci per incutergli timore e non mai per colpirlo. Sfortunatamente il proiettile lo colpì mortalmente. Dopo di ciò buttai via la rivoltella e mi sono allontanato
Una bella faccia di bronzo! La situazione completamente rivoltata. Sicuramente si è consultato con qualcuno e lo stanno a dimostrare i tentativi di passare per ubriaco e l’insistenza con la quale dichiara di non aver sparato per colpire. Poi il Maresciallo gli chiede
– I motivi del diverbio?
Verso la sera del 27 volgente, ossia quando ancora si vedeva non poco, io, Marino Beniamino e Ciriaco Biagio stavamo seduti sopra di tre pietre che sono nella località denominata Timpone o Calvario, quando sopraggiunsero Cirimele Giovanni e i fratelli Adduci Alessandro ed Angelo che si fermarono in piedi vicino le pietre. Subito dopo passò, a lato del Calvario, la sorella di mio cognato Mandato Filomena e Cirimele e Adduci Alessandro, come la videro, dissero: “Oh! Chista sarìa bona pe mia!”. Io osservai: “E su sapissa ‘u frate…”. Cirimele e Adduci Alessandro risposero: “’U frate unn’è buonu”. I due, non ancora contenti, cominciarono a burlarmi. Io replicai: “Ma se il fratello non è buono, sono buono io”. Adduci Alessandro non mi burlò più, Cirimele invece mi fece delle scorregge, al che io aggiunsi: “Statti citu cu sta vucca brutta”. Cirimele continuò a fare scorregge e riprese a dire: “Andiamo ca sutta!. Ed io: “Andiamo”. Ci incamminammo insieme e camminammo per sette od otto metri andando in giù e dopo il Cirimele si fermò
– E gli altri, dopo che hai sparato, che hanno fatto?
Mi minarono pietre, io ebbi paura e scappai…
Bisogna ammettere che pur dichiarandosi ubriaco, Salvatore Adduci ha una memoria di ferro, visto che ricorda tutto per filo e per segno, anche ciò che non è mai accaduto! Ma certamente conta sul fatto che fino ad ora nessuno ha mai osato testimoniare contro la malavita in occasione dei numerosi reati di cui si è macchiata e figurarsi adesso che uno di loro ha usato la rivoltella, come se la faranno addosso tutti quanti!
Ma Salvatore (e forse anche chi lo ha consigliato) ha fatto male i suoi calcoli perché tutti i presenti lo smentiscono e continuano a smentirlo anche quando se lo trovano davanti nei confronti a cui vengono sottoposti.
Quello che hai detto è un ammasso di bugie – attacca Beniamino Marino – perché hai ammazzato Cirimele che non aveva fatto una mossa, che non aveva armi e gli sparasti a bruciapelo
Tu puoi dire questo ed altro, tu sei parente a Cirimele e perciò mi vai contro – si difende Adduci
Io ti vado contro per quello che hai fatto, per quel disgraziato che tu, assassino, hai sacrificato e che tutta Cipollina piange
Matteo Imballone rincara la dose
Cirimele non disse una parola contro di te e tu gli sparasti come se fosse stato un cane. Cirimele e Alessandro Adduci non offesero in alcun modo mandato Filomena e quanto tu hai dichiarato è falso!
Tu invitasti Cirimele a seguirti nelle pracche e quando durante il cammino si fermò per dirti che non aveva che fare alle pracche estraesti da una delle tasche dei calzoni l’arma e gli sparasti a bruciapelo – dice Biagio Ciriaco
 – Non è vero, tu mentisci!
Io non ho nessuna ragione di mentire, anzi dovrei aiutarti perché sono tuo lontano parente, ma gli assassini non si possono aiutare!
Ma non ero ubriaco quella sera?
Tu eri serissimo, ragionavi come gli altri e uccidesti Cirimele senza nessuna causale, anche la più lontana
Addirittura lo smentisce anche Filomena Mandato, la sorella di suo cognato.
Adduci Alessandro e quell’infelice di Giovanni Cirimele, che era la perla di Cipollina, al Calvario non mi dissero niente, non profferirono una parola al mio indirizzo e tu potevi fare a meno di nominarmi. Eppoi, se pure mi avessero voluto dire una parola, anche di offesa, tu che ci entravi? Se fossi stata offesa me la sarei vista io. Tu hai ammazzato e te la vedi tu con la giustizia, ma a me non mi dovevi nominare. Quello che hai detto è tutto falso!
Io ti ringrazio! – risponde Salvatore in tono di minaccia
Io ho dovuto dire la verità
Non resta che stabilire se e quanto vino bevve il giorno dell’omicidio. Salvatore sostiene di avere bevuto un bel po’ di vino in casa di Antonio Vitale, il quale viene messo a confronto con l’imputato
Io la sera dell’omicidio ero ubbriaco – attacca Salvatore – perché avevo bevuto in campagna insieme agli altri operai ed a casa tua da solo
Tu eri serio, vigliacco che sei, tu uccidesti un giovanotto che non usciva mai di casa, un ragazzo che viene pianto pure dalla terra di Cipollina, ed ora pretendi di ingannare la giustizia con la scusa dell’ubbriachezza! In casa mia non ci fosti affatto, bugiardo e vile che in campagna dalle 9 del mattino alle 4 pomeridiane bevesti complessivamente ed in più volte due bicchieri e mezzo o tre bicchieri e mezzo di vino che non ti resero nemmeno brillo. I bicchieri erano della capacità di 8 a litro ed eri pertanto serio, serissimo, dieci volte serio come tutti gli altri!
Tutti adesso mi volete male, non uno ha detto la verità! Bevvi da cinque a sei bicchieri di vino in campagna ed in casa
Niente affatto, menzognero che sei!
Il terreno comincia a mancare sotto i piedi del picciotto e forse a Cipollina la musica nei confronti della malavita locale, comandata da tale Giuseppe Donati detto ‘U Spiranzatu, sta cambiando, ma l’avvocato Pietro Mancini, che rappresenta la parte civile, non è convinto di ciò e il 16 giugno 1925 scrive al Procuratore del re di Cosenza temendo le mistificazioni di mala-vita che in quella contrada dolorosamente fiorisce ai danni della vita sociale, ed è sicuro che certi delitti come quello del povero giovinetto Cirimele sono gli effetti di questo attossicamento morale che la mala pianta colà crea impunemente.
I timori dell’avvocato Mancini sono fugati dal Pubblico Ministero che, pur tacendo l’appartenenza di Salvatore Adduci alla malavita, nella relazione al Procuratore Generale del re scrive tra le altre cose: Le case circostanti inorridirono del terribile misfatto. Invece l’Adduci, la cui umanità era degradata al disotto della più bassa bestialità, ebbe per la vittima uno sguardo feroce, pronunziò al suo indirizzo parole volgari e si allontanò.
Il fascicolo arriva sulla scrivania del  Procuratore Generale con la pesantissima accusa di omicidio aggravato per avere, al fine di uccidere e per solo impulso di brutale malvagità, cagionato la morte di Cirimele Giovanni con un colpo di pistola sparato a bruciapelo. Ma il magistrato non è d’accordo con questa impostazione e chiede il rinvio a Giudizio di Adduci per la meno grave imputazione di omicidio volontario. La sezione d’Accusa, a sua volta, modifica ancora il capo d’imputazione e lo riporta a quello originale di omicidio aggravato. È il 27 ottobre 1925.
Il 12 luglio 1926 la Giuria della Corte d’Assise di Cosenza si dimostra clemente con l’imputato, negando l’aggravante dell’impulso di brutale malvagità e condannandolo per omicidio volontario, concesse le attenuanti di legge, a 13 anni, 4 mesi e 10 giorni di reclusione. Ma il Pubblico Ministero Giovanni Tocci rileva un vizio nel calcolo della pena (che sarebbe dovuta essere di 13 anni, 10 mesi e 20 giorni) e propone ricorso per Cassazione. Anche l’avvocato Stanislao Amato, difensore di Adduci propone ricorso lamentando il mancato accoglimento della richiesta di sottoporre l’imputato a perizia psichiatrica con conseguente pregiudizio dell’esito del verdetto.
Il 19 novembre 1926, la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso di Adduci e accoglie quello del Pubblico
Ministero. Il sanguinario dovrà restare ospite delle patrie galere sei mesi e mezzo in più.[1]
La mala pianta si può estirpare.

 


 

[1] ASCS, Processi Penali.

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