INFERNO

È domenica, giorno di festa per i contadini perché solo di domenica si possono concedere qualche bicchiere di vino nelle cantine dei paesi in compagnia degli amici.
Antonio Iaquinta è un contadino di San Giovanni in Fiore e usa fare come tutti gli altri ma, non come tutti gli altri, ha il vizio di diventare violento quando alza un po’ il gomito. No, non è esatto perché quando alza un po’ il gomito diventa un po’ più violento del solito e questo suo lato del carattere – in paese si dice che sia un tratto comune di tutto il suo parentado – è messo in evidenza dal soprannome che gli hanno affibbiato: ‘Mpìernu, Inferno.
Antonio Iaquinta, classe 1883, è sposato ma ha lasciato la moglie per infedeltà e subito dopo, intorno al 1914, conosce una ragazza di 19 anni, Maria Martino, che si innamora pazzamente di lui e, sfidando le ire dei genitori che sono assolutamente contrari, se ne va da casa cominciando una relazione more uxorio con il suo bello, unione dalla quale nascono quattro bambini, uno dei quali muore dopo sole tre settimane di vita.
Una bella storia d’amore si potrebbe definire da questa scarna descrizione, ma le cose stanno diversamente perché il carattere violento di Antonio, ‘Mpìernu, ha il sopravvento e sono botte a ogni occasione. “Lascialo, gli stai dedicando la giovinezza e invece di farti felice, guarda come ti sta riducendo” è il consiglio che la madre dà a Maria ogni volta che la trova pesta. “No, non lo lascio, io lo amo e poi ci sono le bambine…”, è la risposta sempre uguale. E Maria, buona, onesta, sottomissiva, amorosa col concubino, per amore dei figli tutto sopportava con somma rassegnazione. Pensate che una volta, forse era l’autunno del 1920, mentre Maria e Antonio erano seduti davanti al fuoco mangiando un piatto di pomidoro fritti, lui le disse di dargli una fetta di pane e lei perse un po’ di tempo per posare il piatto, prendere il pane e cominciare a tagliarlo con un coltellaccio, una vopa; allora lui le strappò il coltello dalle mani e le vibrò due coltellate alla schiena sotto gli occhi di una vicina che era andata a farsi dare un bicchiere di latte. Poi, subito dopo, uscì da casa lasciandola sanguinante. “Gesummaria! Fammi vedere che ti ha fatto” le disse la vicina. “Niente… niente… vattene che se torna ti ammazza…”. “Mettiti a letto, sei ferita…”. “No, non è niente… non è niente… mi raccomando, non farne parola con nessuno… adesso vattene”.
E che dire di quando, nel 1919, morì il bambino? “Mia figlia mi confidò che il figliuolo era deceduto in seguito a soffocamento ad opera del padreanche questa volta avrei voluto denunziare il Iaquinta, ma le preghiere di mia figlia mi trattenneromia figlia è chiavata alla porta dell’inferno…”.
È domenica, domenica 20 febbraio 1921, e a San Giovanni in Fiore fa freddo mentre i contadini si godono il meritato riposo bevendo, chi più e chi meno, nelle cantine. Anche Antonio Iaquinta si gode il riposo con gli amici nella cantina di Gaetano Nicoletti. Tre quarti, forse un litro scarso. Quando esce dalla cantina, sono quasi le quattro del pomeriggio, incontra in Piazza Abate Gioacchino il funzionante Sindaco Antonio De Marco e gli si avvicina. È un po’ brillo ma ragiona benissimo:
Donn’Antò, salutiamo – esordisce – vi volevo parlare del fatto della quota di terra del barone Berlingieri… mi raccomando Donn’Antò che ci devo piantare le patate… e poi è vicino al paese… insomma mi affido a voi…
– Stai tranquillo, appena il fondo sarà quotizzato ti accontenterò…
– Grazie Donn’Antò, sempre servo vostro…
Antonio Iaquinta se ne torna a casa nel rione Coschino e, quando arriva, Maria lo vede dalla finestra della casa di una vicina dove è andata a fare quattro chiacchiere. In braccio ha la bambina più piccola.
– È arrivato Tonino, me ne vado che se no trova la porta chiusa e chi lo sente!
‘Mpìernu ha già salito i sette gradini in muratura che danno accesso alla casa quando Maria gli porge la chiave, poi entrano e si chiudono dentro.
Rosa Curia ha settant’anni. La sua casa è sottostante a quella di Antonio e Maria e verso le 16,30 di domenica 20 febbraio 1921 sta cercando di ravvivare il po’ di brace rimasta nel caminetto.
Anche Luigi Iaquinta e sua moglie Caterina, i genitori di Antonio, hanno la casa adiacente a quella del figlio e alle 16,30 di quella domenica stanno sonnecchiando davanti al fuoco.
La detonazione e il grido di dolore proveniente dalla casa di Antonio e Maria fanno sobbalzare tutto il vicinato: Caterina, nonostante i suoi sessant’anni, si precipita in un secondo in casa del figlio; Rosa, che non ha ancora avuto il tempo di decidere se andare a vedere cosa diavolo può essere successo o farsi i fatti suoi per timore di Antonio, sente un altro urlo, anzi una frase di lamento urlata ripetutamente, “’A casa mia… ‘a casa mia è ruvinata!”. Poi sente una serie di voci concitate per strada e allora capisce che non c’è niente da temere ed esce, sale i sette gradini che la separano dai vicini, mentre Antonio li sta scendendo.
Caterina è seduta su una seggiola, in braccio ha la nipotina più piccola che piange disperatamente, mentre Maria sembra essere accovacciata per terra con la testa sul grembo della suocera.
– È morta…
– Morta? – fa, incredula, Rosa.
– Si, morta… ‘a casa mia‘a casa mia è ruvinata… – continua a ripetere mentre accarezza la testa di Maria.
– Dammi la bambina che la caccio da qui… la mamma… il sangue… o gesummaria chi ruvina!
– La vestiamo? – chiede una donna.
– No… deve venire la legge… andate a chiamare il Maresciallo – farfuglia Caterina.
Il Maresciallo Donato Perrini e i suoi uomini non ci mettono molto ad arrivare al Coschino e, nonostante la presenza di molte persone nella stanza dove è avvenuto quello che sembra essere un omicidio senza apparente motivo, nota subito che gli abiti di Maria non presentavano segni di violenza e gli arredi nell’interno della casa erano nel massimo ordine. Strano. Ma quando osserva da vicino il corpo di Maria le cose sembrano non apparirgli più tanto strane: sul corpo si notavano, alle spalle, due ferite prodotte da colpo di rivoltella, quella di sinistra quale entrata della pallottola e quella di destra quale uscita della pallottola stessa. Sulla giacca di lana marrò si notava il foro d’entrata della pallottola, circondato da bruciacchiature, ciò che denota che il colpo fu esploso a bruciapelo. Deve essere stata una cosa improvvisa, d’impeto. O forse no, forse può essere stato un delitto premeditato e tutte e due le ipotesi potrebbero spiegare il fatto che non ci siano segni di colluttazione. Poi, girando per la stanza in cerca di altri indizi, Perrini nota per terra qualcosa che luccica alla luce fioca della lampada: una piccola pallottola di ottone, adatta a rivoltelle del sistema “Browning”. E in un baule un’altra scoperta: una piccola fundina di cuoio, proprio per contenere rivoltelle del sistema anzi accennato, più un caricatore contenente cartucce, le cui pallottole sono identiche a quella rinvenuta per terra. La rivoltella non c’è, se l’è portata dietro Antonio, che viene subito ricercato ma di lui si sono già perse le tracce.
Le indagini si presentano difficili per il Maresciallo Perrini per il fatto che il rione Coschino è tutto abitato dai parenti dell’omicida e qualche persona estranea si è mantenuta nella reticenza, sia per omertà e più ancora per paura data la fama di violenti che gode il parentato Iaquinta. Da ciò anche il fatto che non si è potuto assodare la circostanza che ha dato luogo a sì grave misfatto. Un bel grattacapo.
L’unica certezza, per Perrini, è che la scena fu rapida e tanta conseguenza si deve unicamente al carattere violento del Iaquinta che ha ucciso per impulso di brutale malvagità poiché motivi non ne aveva per commettere tanto delitto.
Nel frattempo l’autopsia accerta che Maria è morta per la grave emorragia interna provocata dal proiettile calibro 7 sparato a bruciapelo, che dopo avere attraversato da parte a parte il polmone sinistro, leso l’aorta toracica, attraversato la colonna vertebrale con lesione del midollo spinale, ha continuato perforando il polmone destro e fuoriuscendo dal lato destro del torace. I periti, studiando attentamente la traiettoria del colpo, riescono anche a stabilire che nel momento in cui fu colpita, Maria dovea trovarsi seduta, leggermente incurvata e piegata sul fianco destro e che l’uccisore, in rapporto alla vittima, dovea trovarsi all’impiedi e di fianco. Una vera e propria esecuzione a sangue freddo. Ma scoprono anche delle ferite lacero contuse su entrambe le gambe, coperte da croste, da giudicarsi sicuramente dovute a calci. La prova delle violenze quasi quotidiane.
Antonio Iaquinta si costituisce a Cosenza il 25 febbraio e nomina subito come difensore l’avvocato Pietro Mancini. Interrogato dal Giudice Istruttore si difende:
Non ho alcuna responsabilità nel doloroso avvenimento che ebbe come epilogo la Morte di Maria Martino con la quale io convivevo more uxorio da circa sette anni, procreando anche due bambini che ho legalmente riconosciuti. In sostanza io tenevo la Martino come una moglie e come tale la rispettavo, anche perché madre dei miei figli. Mattina di domenica 20, essendo giorno di riposo, ho avuto occasione di fare il giro di alcune bettole. Così sono stato in quella di Costanza Bitonti, levatrice, dove con alcuni amici ho bevuto una certa quantità di anice. Nel pomeriggio sono andato a finire nella bettola di Nicoletti Gaetano dove avrò bevuto un paio di litri di vino, quanto cioè era sufficiente per ubbriacarmi completamente. Indi mi sono ritirato a casa col proposito di uscire di nuovo per recarmi in un mio fondicciuolo in contrada Difese allo scopo di identificare alcuni ignoti che mi avevano danneggiato certi “chiantaturi”. All’uopo pensai di armarmi di una rivoltella che tenevo in casa, ciò che non avrei certamente fatto se non fossi stato preso a vino. La Martino voleva impedirmi di uscire facendomi rilevare ch’era già tardi e che avrei potuto correre il rischio di essere arrestato dai carabinieri se mi avessero trovato con la rivoltella addosso. Ma io, ubbriaco com’ero, non tenni in alcun conto le giuste osservazioni della mia donna, la quale facendo seguire il fatto alle parole, cercava di tirarmi a viva forza l’arma dalle mani. riuscite vane le sue insistenze, ad un certo momento esclamò: “Và dove vuoi, giacché tieni la testa dura!” ed in così dire, mi diede uno spintone. Fu proprio in questo momento che partì dalla rivoltella ch’io tenevo sempre in mano, un colpo. Non so proprio quale sia stata la regione colpita perché all’atto dello spintone, essendomi io piegato su me stesso, e stando anzi per traballare, non ho visto, nel movimento del braccio, quale direzione abbia avuto il colpo. Solo posso dire che la donna, appena mi spinse, fece per voltarsi. Partito il colpo, io domandai subito alla Martino: “Ti ha chiavato il colpo?”. Ella rispose: “Si, mi ha chiavato”.  Essendo aperta la porta di casa, alla detonazione accorse una quantità di gente. E qualcuno mi disse: “Tu qui stai?” invitandomi a scappare ed io, in verità, non me lo feci ripetere due volte perché non mi davo conto, per l’ubbriachezza, di quello che mi accadeva intorno
– Avevate dei dissapori con la Martino?
Nessun dissapore è mai esistito tra me e la mia donna, che io ho sempre circondato di cure e rispetto.
– Nelle carte che sono arrivate da San Giovanni, invece, ci sono molte testimonianze che parlano di maltrattamenti continui e di violenza grave… per esempio vostra suocera e più di un testimone parlano addirittura di coltellate…
Tutto questo è falso di sana pianta! La madre della Martino, al contrario della figlia tanto buona, è una donna infernale tanto vero che riuscì a mangiarsi gran parte di mille lire che io avevo regalato alla mia amante.
– Si dice anche che avete soffocato un vostro bambino…
È una malvagità di chi mi accusa! Ho allevato tre femmine avute dall’unione con la Martino ed andavo ad affogare proprio il maschio per il quale avrei dato me stesso?
Che strani effetti provoca il vino, verrebbe da dire. Pur essendo completamente ubriaco, Antonio ricostruisce tutta la scena del crimine fin nei minimi particolari, però scappa perché a causa dell’ubriachezza non si rende conto di ciò che avviene intorno a lui. E, guarda caso, ricorda anche di avere bevuto esattamente la quantità di vino necessaria per potere dichiarare di essere ubriaco fradicio. Sorprendente! Ovviamente sarebbe inutile chiedergli come mai prese la rivoltella per andare a identificare gli ignoti lasciando a casa la fondina, perché se uno è ubriaco fa cose senza logica. O no?
Purtroppo per Antonio quasi tutti i testimoni lo smentiscono su ogni fronte: Costanza Bitonti giura che nella sua bettola Antonio non c’è stato quella domenica mattina; il Sindaco facente funzioni giura che non era ubriaco quando ha parlato con lui pochi minuti prima dell’omicidio; tutti i suoi compagni di cantina – tranne tre a cui è sembrato ubriaco – dicono che è impossibile che abbia bevuto due litri di vino e che non era ubriaco; le botte sono confermate da tutti, parentado compreso.
Come si mette adesso? Si mette che il 18 luglio 1921 la Sezione d’Accusa lo rinvia a giudizio per omicidio volontario, escludendo l’aggravante della brutale malvagità.
L’11 gennaio 1922 si apre il dibattimento davanti la Corte d’Assise di Cosenza ma si presentano solo due dei quattordici testimoni citati, a causa di una copiosa nevicata che ha colpito la Sila fino in città. Anche la parte civile comunica di essere rimasta bloccata dalla neve e a questo punto il Presidente, con l’opposizione dell’avvocato Pietro Mancini, al quale nel frattempo si è aggiunto anche l’avvocato Fausto Gullo, decide di rinviare la causa al 23 marzo successivo, ma ci vorrà il 22 aprile per poter veramente cominciare e il 24 aprile per avere la sentenza di condanna per omicidio volontario, ma con la concessione dell’attenuante del vizio parziale di mente dovuto all’ubriachezza volontaria e le attenuanti generiche, per cui la pena prevista di 18 anni di reclusione viene prima dimezzata per il vizio parziale di mente, scendendo a 9 anni di reclusione, e poi diminuita ancora di un sesto per le attenuanti generiche, rimanendo in definitiva fissata ad anni 7 e mesi 6, più pene accessorie.
Pietro Mancini, rilevate alcune gravissime violazioni di legge che causerebbero la nullità del dibattimento, fa ricorso per Cassazione e il ricorso viene accolto il 17 luglio 1922 con questa motivazione: dal verbale di dibattimento emerge che la difesa, in seguito all’omissione di un giurato di consegnare al Cancelliere la scheda relativa alla questione delle circostanze attenuanti, richiese che venisse rifatta la votazione o che la causa fosse rinviata a nuovo ruolo. Il Presidente (Luigi Console. Nda) invece ha fatto ritirare la scheda ponendola fra le altre che non erano ancora scrutinate e non fece ragione alle richieste della difesa. Allora i difensori abbandonarono l’aula ed il Presidente fece lo scrutinio delle schede fuori della loro presenza. il verdetto naturalmente fu firmato alla sola presenza del P.M. e dei giurati; e riaperta la sala al pubblico, non essendosi presentati i difensori, se ne cercò uno d’ufficio, ma non essendo stato possibile trovarlo, si proseguì nel dibattimento fino alla pronuncia della sentenza senza che l’imputato fosse assistito da difensore. La nullità è evidente. I difensori che si sono allontanati dall’udienza abbandonando il loro ufficio saranno contabili delle pene stabilite dall’art. 79 c.p.p.; ma il Presidente in nessun caso poteva procedere nel dibattimento senza la presenza di un difensore d’ufficio. La violazione dell’art. 73 in relazione al 136 c.p.p. è palese e l’accoglimento di tale motivo dispensa dall’esaminare gli altri. La sentenza viene quindi annullata e la Corte dispone che gli atti siano inviati alla Corte d’Assise di Catanzaro per un nuovo giudizio.
Il 10 dicembre 1923 la Corte derubrica ancora il capo d’accusa in omicidio per imprudenza e negligenza e pur ritenendo Antonio Iaquinta responsabile del reato, lo assolve perché estinta l’azione penale per l’amnistia del 22 dicembre 1922 (emanata due mesi dopo la marcia su Roma) e ordina la restituzione a Iaquinta degli oggetti sequestrati.[1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

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