I VENDITORI DI BACCALÀ

La sera del 16 dicembre 1927 piove e fa freddo a San Fili. Sono le 18,00 quando nella cantina di Rosa Leone in via XX Settembre entrano infreddoliti due avventori, Liberato Pacifico, 31 anni da Resina in provincia di Napoli, e il suo compaesano Giovanni De Crescenzo, che di anni ne ha 24. Sono venditori ambulanti di baccalà e si sente dall’odore che emanano. Pacifico prende una sedia e si accomoda davanti al caminetto, poi si toglie le scarpe e cerca di riscaldare i piedi allungando le gambe verso il fuoco che scoppietta allegramente. De Crescenzo invece ordina un bicchiere di vino e comincia a sorseggiarlo proprio quando si sente in lontananza il fischio del treno proveniente da Cosenza che si sta fermando nella stazione del paese.
– Tra poco arrivano gli altri e si mangia! – dice Pacifico all’amico, poi si rivolge alla proprietaria – Donna Rosa, cominciate a portare qualcosa!
Come previsto, nel giro di pochi minuti arrivano gli altri e, messisi a tavola, cominciano a mangiare. Gli altri, tutti di Resina e tutti venditori ambulanti, sono Domenico Pacifico, ventinovenne fratello di Liberato, Vincenzo Romano di 51 anni e Domenico Bisaccia di 24 anni. Scherzano tra loro bevendo e mangiando, raccontandosi come hanno passato gli ultimi giorni in giro per i paesi della zona intorno a Cosenza, di come convenga, secondo Romano, abbinare la vendita di baccalà al formaggio pecorino come ha fatto lui questa volta. Passa un’ora buona e la porta della cantina si apre facendo entrare uno spiffero gelido insieme ad altri due avventori che salutano – dal loro accento si capisce benissimo che sono anch’essi della provincia di Napoli – e si vanno a sedere davanti al caminetto in attesa di ordinare. Poi uno dei due nuovi avventori alza il suo bicchiere di vino verso Liberato Pacifico e dice sorridendo:
A mezzogiorno ti sei mangiato il gallo e a me non ne hai conservato
Tu non c’eri, altrimenti ne avresti mangiato pure.
– Vi conoscete? – chiedono gli amici a Liberato.
– Si, è Michele Galluccio di Aversa… il suo amico però non lo conosco…
– Luigi Tagliaferri, pure di Aversa – si presenta l’altro alzando il bicchiere.
– E che vendete?
– Vendiamo scarpe.
Mentre si procede alle presentazioni la porta si apre di nuovo e questa volta ad entrare è una donna, Francesca Calvano, la banditrice del paese, che deve riscuotere da Liberato Pacifico il compenso per il bando buttato in paese quella mattina. Francesca, conosciuta come una mezza scema, accetta il bicchiere che le viene offerto, ma comincia a fare delle moine senza decidersi a bere quel bicchiere di vino che aveva in mano e tutti ridono.
Michele Galluccio è infastidito da questa scenetta e sbotta:
Stai facendo tante mosse, anche a costo di buttarlo a terra
E quando lo avrà buttato ne comprerai tu un litro? – gli risponde altrettanto seccato Domenico Bisaccia. La scintilla è scoccata.
Esci fuori e ti faccio vedere se sono buono a comprarne anche due litri! – risponde a sua volta Galluccio alzandosi in piedi minacciosamente.
Nella mia cantina non devono succedere queste scene! Per favore andatevene – urla Rosa ai due di Aversa, temendo che possa accadere qualcosa di brutto. Galluccio e Tagliaferri si guardano, salutano e se ne vanno lasciando gli altri cinque che inveiscono contro di loro. Poi Rosa invita anche gli altri a pagare e andarsene. Mestamente, ad uno ad uno, i cinque tornano al freddo della strada e Rosa spranga la porta della cantina.
Galluccio e Tagliaferri sono nel largo vicino alla cantina, chiamato Piazza Pescheria, quando escono gli altri cinque che li vedono e iniziano a urlare contro i due.
Ve ne andate, vigliacchi? – qualcuno raccatta dei sassi per terra e li lancia contro gli aversani, mentre Vincenzo Romano e Domenico Bisaccia tirano fuori dei grossi coltelli.
Tagliaferri urla di dolore quando un sasso lo colpisce proprio sul naso e capita l’antifona scappa, mentre Galluccio si mette di fronte agli avversari e tira fuori un coltello a sua volta. È una lotta impari, i cinque gli sono addosso e menano botte da orbi; cade a terra; un calcio in bocca gli spacca il labbro superiore e tre denti volano via, però lui si difende come può tirando coltellate a destra e a manca. Ferisce a un braccio Romano, ma poi si becca una coltellata sotto l’ascella sinistra che gli recide l’arteria ascellare e, stordito, resta a terra con il sangue che zampilla via insieme alla sua vita.
I cinque scappano chi di qua, chi di là nel buio della notte. Ora tutto è calmo. Tagliaferri, che si era nascosto nelle vicinanze, si avvicina all’amico premendosi un fazzoletto sul naso. Capisce che l’amico sta morendo e chiama disperatamente aiuto. Accorre gente e accorrono anche i Carabinieri che nel frattempo sono stati avvisati. Anche se non si riesce a trovare subito un medico, è evidente che per Galluccio, se resta a San Fili, non ci sarà niente da fare e quindi bisogna trovare in fretta un’automobile per portarlo in ospedale. Il mezzo arriva e parte a tutta velocità verso la città, ma in ospedale Galluccio ci arriverà cadavere.
Sotto il corpo di Galluccio i Carabinieri trovano un coltello, evidentemente il suo, e poco distante ne trovano un altro, così il Maresciallo Gaetano Lo Priore dichiara in arresto Tagliaferri e lo porta in caserma. Non crede del tutto al suo racconto ma è chiaro che ci sono cinque persone coinvolte nella tragica rissa che stanno scappando e bisogna far presto, altrimenti chi li prende più?
Sono le 20,30 quando l’Appuntato fuori servizio Giuseppe Picciotti incontra alla stazione di San Fili la Guardia daziaria Giuseppe Ricciardelli e il cantoniere Pietro Intrieri che gli raccontano brevemente l’accaduto. Salgono sul treno in partenza per Paola e Picciotti vede un uomo sofferente che si tiene un braccio. Sanguina. Capisce subito che si tratta di uno dei cinque e, con l’aiuto degli altri due che sono con lui, lo trae in arresto. È Vincenzo Romano.
– Io non c’entro niente… cercavo di mettere pace e nella confusione sono rimasto ferito – mente.
– Lo sappiamo che tu c’entri, abbiamo i testimoni – mente il Brigadiere. Romano è confuso, stordito e abbocca:
– Si, è vero… lo abbiamo colpito io e Bisaccia che eravamo armati di coltello… il mio era quello che usavo per tagliare il formaggio da vendere… ma data la confusione che facevamo nel momento della rissa, non posso affermare chi dei due è stato il primo a ferirlo, come pure non sono in grado di poter dire in quale parte del corpo l’abbia colpito
– Chi ti ha colpito?
– L’altro, è stato lui…
Lo Priore pensa di aver fatto bene a non credere alla versione di Tagliaferri ed è sempre più convinto del suo coinvolgimento. Romano fa i nomi degli altri quattro e il Brigadiere manda telegrammi in tutte le stazioni vicine e in quelle dei paesi dove ci sono stazioni ferroviarie. Poco dopo il Capostazione di San Fili si presenta in caserma con un telegramma proveniente da Paola: Bagagliaio odierno 2722 rinvenuto coltello avvolto fazzoletto entrambi imbrattati sangue che supponesi riferirsi omicidio avvenuto costà.
– Hai lasciato il coltello sul treno?
– Si, avvolto in un fazzoletto…
Degli altri quattro nessuna notizia. Poi il 18 dicembre arriva un telegramma da Spezzano Albanese Scalo. È a firma di Pasquale Timpone, comandante della milizia fascista del posto, il quale avvisa che i delinquenti sono stati arrestati e tradotti nel carcere di Spezzano Albanese.
Le cose cominciano a prendere la loro forma e i cinque aggressori vengono trasferiti nel carcere del capoluogo.
Davanti al Giudice Istruttore, però, la musica cambia. Romano ritratta nonostante il suo interrogatorio nella caserma dei Carabinieri sia stato controfirmato da tre testimoni:
Galluccio e Tagliaferri, appena ci videro, estrassero ciascuno un coltello e si avventarono contro di noi ed io rimasi ferito al gomito sinistro ad opera del Tagliaferri. Noi, per difenderci, afferrammo delle pietre lanciandole contro i due e ne avvenne un parapiglia. Io mi allontanai verso la ferrovia e non so dire cosa sia poscia avvenuto.
– E di che tipo sarebbero stati questi coltelli?
Siccome erano circa le 19,30 e c’era buio, io non distinsi che specie di coltello avessero in mano.
– Il tuo coltello invece com’era?
Io non avevo affatto coltello
– Ai Carabinieri hai detto il contrario… anzi hai addirittura riconosciuto come tuo il coltello ritrovato sotto il sedile del treno dove eri seduto.
Il Maresciallo mi ha percosso con un calcio e mi ha fatto dire quello che voleva lui… scrisse lui il verbale e me lo lesse davanti ai testimoni ma io non ebbi il coraggio di smentire quello che aveva scritto perché avevo paura che anche davanti a quelle persone mi percuotesse…
– Ma uno dei tuoi amici il coltello lo aveva… lo hai detto tu…
Nell’oscurità non distinsi se qualcuno dei miei compagni avesse coltelli in mano, ma è certo che qualcuno di loro doveva essere armato di coltello se il Galluccio venne colpito ed è morto.
 Domenico Bisaccia invece ammette di aver tirato delle coltellate, ma per legittima difesa:
Il primo di noi ad uscire dall’osteria fu Vincenzo Romano che, appena fuori, gridò: “Madonna! Madonna!”. Io, pensando che i due sconosciuti l’avevano specialmente contro di me, cercai di armarmi ed afferrai un coltello da cucina che trovai sul tavolo. Uscito dall’osteria trovai i due sconosciuti armati di coltello che si avventarono, come mi scorsero, contro di me. Cercai di difendermi ed avendo perduto l’equilibrio, mentre stavo per cadere per terra, colpii col coltello non so se uno o due dei miei avversari. Rimessomi subito in equilibrio buttai il coltello e mi allontanai di corsa.
Liberato Pacifico si protesta innocente:
Il primo ad uscire fu Romano – assicura – e mentre io calzavo le scarpe udii gridare in mezzo la strada “Madonna! Madonna!” riconoscendo in una di quelle voci mio fratello. Vidi allora che nessuno era più rimasto nell’osteria ed avendo pregata l’ostessa affinché aprisse la porta che credo sia stata rinchiusa dall’ostessa stessa alle grida udite, mi feci all’uscio e vidi i due sconosciuti, il Romano e il Bisaccia che si rincorrevano. Scorsi i due sconosciuti ed il Bisaccia armati di coltello e per la paura mi diedi alla fuga allontanandomi verso Rende. Dopo poco mi raggiunsero mio fratello  Domenico, De Crescenzo e Bisaccia
A un certo punto intesi uno che gridava “Aiuto! Apri la porta!” ma non so chi fosse – precisa l’ostessa, chiamata di nuovo a deporre.
– Qualcuno ha preso uno dei vostri coltelli?
Io non avevo coltelli nella mia cantina e solo tenevo nella cucina una mannaia che ancora c’è.
Appena fuori vidi i due sconosciuti armati di coltelli inveire contro il Bisaccia ed allora per la paura, gridando “Gente accorrete!”, buttai per terra il cappotto e la fascia di collo e fuggii dietro di mio fratello e seguito dal De Crescenzo – giura Domenico Pacifico.
Il primo ad uscire fu il Romano e mentre io bevevo un po’ di vino rimasto nella bottiglia, nell’udire gridare “Madonna! Madonna!”, mi feci all’uscio con la bottiglia che tenevo ancora fra le mani. Appena sull’uscio vidi i due sconosciuti armati di coltello inveire contro il Bisaccia e poiché gridavo, uno dei due sconosciuti si diresse verso di me. Allora lanciai contro di lui la bottiglia che avevo in mano e, senza accorgermi se lo avessi colpito, mi allontanai di corsa – dice Giovanni De Crescenzo.
Il Giudice Istruttore potrebbe anche credere alle loro dichiarazioni concordanti, ma c’è il macigno della ritrattazione di Romano a farlo dubitare fortemente. Ritrattazione avvenuta dopo che i cinque sono stati riuniti e trasferiti tutti insieme a Cosenza. E poi, perché adesso tutti scagionano Romano e addossano la responsabilità solo su Bisaccia? Sull’altro piatto della bilancia c’è però la ferita riportata da Romano e il morto non può assumersene la responsabilità. Che sia stato davvero Tagliaferri a ferirlo?
I dubbi vengono chiariti quando si presenta la quarantottenne contadina Filomena Girardi che giura di aver visto tutto perché lei era sul posto al momento del delitto:
Verso le ore 19,30, mentre camminavo per la via Venti Settembre, vidi uscire dalla cantina di Leone Rosa due individui che cominciarono a camminare tranquillamente. Subito dopo vidi uscire da quella cantina altri cinque individui e la cantiniera e il marito di lei chiusero la porta. Appena i cinque uscirono fuori, rivolti agli altri due gridarono: “ve ne andate, vigliacchi?” e subito dopo li aggredirono, alcuni lanciando sassi ed altri armati di grossi coltelli. Uno dei due aggrediti scappò subito ed io mi accorsi che fu ferito da un sasso perché lo intesi gridare. I cinque si diedero addosso all’altro, il quale cercava alla meglio di difendersi come se avesse in mano un coltello, che io però non distinsi. Certo è che due avevano i coltelli e tutti e cinque si accanivano contro quel povero uomo.
– Siete in grado di dire quale dei due armati di coltello colpì l’uomo?
– No.
– Se vi facessi vedere i cinque sapreste riconoscerli?
– Uno dei due che avevano i coltelli lo riconoscerei sicuramente.
E infatti riconosce Vincenzo Romano.
Tutto chiarito. Luigi Tagliaferri viene rilasciato in libertà provvisoria su disposizione del Giudice Istruttore e parte col primo treno utile per tornarsene a casa.
La Sezione d’Accusa rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza Domenico Bisaccia con l’accusa di omicidio volontario e gli altri quattro con l’accusa di correità in tale omicidio. Inoltre tutti e cinque sono rinviati a giudizio per le lesioni causate a Luigi Tagliaferri e, sorpresa, quest’ultimo viene rinviato a giudizio a piede libero per le lesioni riportate da Vincenzo Romano.
È il 5 giugno 1928 e ci vorranno altri due anni per arrivare alla sentenza di primo grado: Domenico Bisaccia viene condannato a 8 anni e 4 mesi di reclusione; Vincenzo Romano a 3 anni e 4 mesi; Domenico Pacifico, suo fratello Liberato e Giovanni De Crescenzo prendono 1 anno e 8 mesi ciascuno perché godono dell’amnistia del 1° gennaio 1929 per il reato di partecipazione in rissa. Tutti e cinque sono condannati alle pene accessorie e al risarcimento dei danni.
Luigi Tagliaferri viene assolto.
Ma non è ancora finita. I difensori di Bisaccia e Romano presentano ricorso per Cassazione elencando lunghe serie di violazioni di legge che sarebbero state commesse dalla Corte d’Assise.
La Suprema Corte di Cassazione, il 6 febbraio 1931, annulla con rinvio la sentenza di primo grado nella parte con la quale condanna i ricorrenti in solido al risarcimento del danno verso la parte civile. Ordina il rinvio dei due ricorrenti al giudizio della Corte d’Appello di Catanzaro in sede civile perché provveda in ordine al risarcimento del danno. Per tutto il resto Rigetta il ricorso proposto da Bisaccia Domenico ed ogni altro motivo di ricorso proposto da Romano Vincenzo.[1]

 

 

[1] ASCS, Processi Penali.

Lascia il primo commento

Lascia un commento