LA MORTE DI CARNEVALE

La sera del 25 febbraio 1868 nelle strade e nelle piazze di Altomonte impazza il carnevale. L’ultimo giorno di carnevale. Schiere di giovani del basso popolo si era dato in preda ai divertimenti baccanali vestendosi in maschera e, al suono dei più svariati strumenti musicali, cantano e ballano suscitando l’ilarità generale.
C’è un gruppo di cinque giovani senza maschera, capeggiati dal diciannovenne Michele Ferraro, che al suono di una zampogna vaga per il paese ballando all’impazzata.
– Mi raccomando, dobbiamo stare tutti uniti e assisterci scambievolmente – ordina Michele agli altri quattro mentre entrano nel Piano di San Domenico, dove eseguono una partita di ballo.
Qualcuno nota che Giovanni Ferraro chiama in disparte Michele, il fratello. I due si guardano intorno con circospezione mentre Giovanni sfila da sotto gli abiti qualcosa e porge l’oggetto al fratello, che lo nasconde sotto la giacca. Poi i giovanotti si allontanano e vanno nel Largo Campolongo dove ricominciano le danze, mentre sopraggiunge un altro gruppo di ragazzi tutti mascherati, che avanzano ballando al ritmo di un tamburino, diretti da Giuseppe Stabilito il quale, fatto innanzi a coloro che ballavano, con modi garbati domandò il permesso di poter ballare anch’egli colla sua compagnia, ottenendo tuttavia un netto rifiuto e allora ordina ai suoi amici di mettersi in disparte e ballare per proprio conto, ma nota che Giovanni Ferraro gli gira intorno con aria minacciosa e allora prende un’altra decisione:
Andiamo altrove poiché qui non stiamo bene.
A queste parole Raffaele Greco, detto Mannino, della compagnia dei Ferraro, si sfila di bocca la zampogna ed esclama:
Vatti a far fottere tu e mammata!
Tu, mammata e tutti gli antenati tuoi! – replica, irritato, Giuseppe Stabilito, che si para davanti allo zampognaro.
I miei sono morti… – gli risponde Mannino assestandogli un pugno all’occhio sinistro. Stabilito risponde con un calcio e i due si lanciano l’uno contro l’altro per azzuffarsi, ma interviene un amico di Stabilito che cerca di trattenerlo. Michele Ferraro, approfittando di questo momento di indecisione degli avversari, tira fuori un coltellaccio e ferisce contemporaneamente sia Stabilito che l’altro ed entrambi si allontanano sanguinanti.
Forse avvertito da qualcuno, arriva sul posto il Sergente della Guardia Nazionale Domenico De Pascale che trova Michele Ferraro col coltello in mano e lo dichiara in arresto afferrandogli il braccio armato, ma Giovanni Ferraro è più lesto e riesce a liberare suo fratello spingendolo da un lato. Michele Ferraro è ormai partito di testa, non ne vuole sapere di scappare e continua a brandire il coltello contro il Sergente.
Lì vicino c’è un uomo vestito da donna con una maschera sul viso, si chiama Vincenzo Levari, che si mette in mezzo cercando di far ragionare Michele il quale, per tutta risposta, gli vibra una violentissima coltellata in mezzo al petto.
Levari barcolla all’indietro, sgrana gli occhi guardando il fiotto di sangue che zampilla dal suo petto e cade a terra pesantemente. Intorno a lui per qualche secondo si fa il silenzio più assoluto, poi i suoi amici si precipitano a soccorrerlo e cercano di farlo rialzare ma non c’è niente da fare, è morto stecchito!
– Ti dichiaro in arresto! – urla il Sergente afferrando Michele Ferraro, ma anche questa volta interviene il fratello Giovanni.
Lascialo che ti vuole offendere! – urla al Sergente dandogli una poderosa spinta che lo manda gambe all’aria, poi prende per un braccio il fratello, che ancora sbuffa guardando il morto, e lo trascina via, scomparendo nel buio della notte e così la giornata del carnevale fu chiusa con la tragedia.
Gli uomini della Guardia Nazionale si mettono immediatamente alla ricerca dei fuggitivi e riescono quasi subito ad acciuffare Giovanni e lo portano in catene nel carcere del posto. Di Michele invece si perdono le tracce.
– Vi sbagliate, io non ho partecipato alla rissa, piuttosto ho cercato di calmare gli animi. Quando stavamo ballando davanti alla casa del signor Campolongo comparve una comitiva di persone mascherate che con impeto ci allontanarono dal ballo. Mio fratello Michele si rintese, avvenne una zuffa alla quale non presi altra parte che quella di mediatore per calmare le persone sdegnate, ma non essendovi riuscito intesi il ferimento ed indi la morte del compaesano Vincenzo Levari, ma io non mi avvidi da quale mano fu colpito, sebbene si è voluto asserire che l’uccisore sia stato il cennato mio fratello Michele.
– Ma se avete davvero fatto da mediatore, possibile che non vi siate accorto che anche Giuseppe Stabilito e Luigi Scaramuzzo erano stati feriti?
Non mi avvidi delle ferite che ora si dice che furono riportate da Peppino Stabilito e Luigi Scaramuzzo, i quali erano tra le persone mascherate.
– Ci sono dei testimoni che giurano di avervi visto dare un coltello a vostro fratello prima che iniziasse la rissa – gli contesta il Pretore, riferendosi al passaggio di mano del misterioso oggetto prima della rissa.
– Non è vero! e non so se egli ne apportava, ma certo si è che io non ne teneva.
– Perché siete scappato?
Io non mi diedi alla fuga poiché nulla aveva commesso di sinistro; e quando stava per rientrare in mia casa fui aggredito da taluni militi della Guardia Nazionale che mi tradussero negli arresti, mi diligenziarono e non mi trovarono addosso nessun’arma, bensì un piccolo istrumento a guisa di scalpello concavo per uso dei pastori e altri utensili di mandria che mi era restato in sacca senza farne uso
La mattina dopo Michele Ferraro si costituisce in carcere e racconta la sua versione dei fatti:
Io son venuto a presentarmi volontariamente alla Giustizia ed a restituirmi in carcere perché questa mattina i miei parenti mi hanno fatto conoscere una briga succeduta ieri nella mascherata del Carnevale nella quale io ero vicino non vestito da maschera; ma se volete conoscere il fatto come avvenne io non saprei indicarvelo perché ero talmente acceso di vino che nulla rammento. Mi sono ritrovato in questa notte scorsa in campagna ove mi ero addormentato e, digerito il vino e svegliatomi, fui ricercato da’ miei parenti i quali mi hanno narrato la morte avvenuta di un compaesano, del quale non so il nome; e perché mi asserivano che s’imputava a me un tale omicidio, perciò vi ripeto, son venuto a costituirmi in carcere per far risultare la mia innocenza. – insomma pare che Michele non ricordi ciò che è avvenuto la sera prima, però ricorda perfettamente ciò che, secondo la sua versione, accadde pochi momenti prima del tragico fatto – Arrivate le maschere con impeto ed irruenza ci volevano togliere dal ballo e poiché ancora non era finito, pregai quelli di attendere e permetterci un altro momento onde finire il nostro ballo. Ma costoro, anche ubriachi, fugarono a noi altri con minacce di percuotere ed io per evitare quella briga mi diedi alla fuga e non ricordo altro. Non avevo armi e nessuno me ne ha date, non ricordo altro.
Viene arrestato anche Mannino per il pugno dato a Giuseppe Stabilito:
Io suonavo la zampogna alla quale ballavano altri miei compaesani ed arrivata la compagnia mascherata, si presenta Peppino Stabilito chiedendo il permesso di potere ballare colla sua compagnia. Gli fu risposto di no da coloro che ballavano ed io, suonando, anche diedi il segnale di no con la mia testa. Lo Stabilito si allontanò e, senza avvedermi chi fosse stato, una mano venne a strapparmi la zampogna. Ritornò verso me Stabilito e bestemmiando l’anima di mio padre e di mia madre mi tirò un calcio ed io contro di lui replicai con un pugno sul volto. Presi una pietra ma non potei lanciarla perché ne fui impedito. Avvenne un tumulto ed uno scompiglio tra le due brigate e come in un gruppo in colluttazione, mi scomparve d’innanzi lo Stabilito e tra il chiasso delle voci non intesi altro che “è morto… è morto…”. Sono stato provocato ed in conseguenza non sono responsabile verso la giustizia di nessun fatto offensivo contro alcuno.
I fratelli Ferraro sono quindi smentiti anche da un loro amico: non è affatto vero che la compagnia mascherata si presentò con arroganza e con minacce, ma chiedendo il permesso di poter ballare e le cose per loro cominciano ad andare di male in peggio.
I giudici vogliono anche cercare di capire se l’oggetto a guisa di scalpello trovato addosso a Giovanni Ferraro possa essere stato usato per uccidere Levari e ordinano una perizia incaricandone l’armiere Francesco Mele di Altomonte, che attesta:
– Il ferro che mi avete esibito è un istrumento detto “gaglio” a guisa di un cilindro ed affilato da una parte, destinato a concavare legname ai pastori per uso di mandria e specialmente per fare le così dette “cucchiaje”. È della lunghezza di centimetri 11, la di cui asta acuminata si avrebbe dovuto infilzare ad un manico di legno, che non vi esiste. Però detta asta acuminata e senza il manico, come si trova, potrebbe anche adibirsi ad uso di offendere altrui, potendo benissimo cagionare ferita.
Potrebbe, ma la ferita riportata dal povero Levari e quelle riportate da Stabilito e Scaramuzzo sono state prodotte, come attestano i medici incaricati delle perizie, da un’arma da punta e taglio diritta e non di sola punta e questa è la conferma definitiva alle parole dei numerosi testimoni che parlano espressamente di pugnale o di coltello, così come tutti giurano che la compagnia di Stabilito in nessun modo provocò quella dei fratelli Ferraro e che fu Mannino che cominciò ad inveire a male parole contro la compagnia avversaria. Tutti sono anche concordi nell’affermare che Giovanni Ferraro si adoperò per due volte a liberare Michele dalle mani del Sergente.
Ma oltre a un solo testimone che riferisce di aver notato Giovanni Ferraro nell’atto di passare al fratello quello che gli sembrò un coltello, contro Giovanni non ci sono prove della sua complicità nell’omicidio, eccettuati i due tentativi di sottrarre Michele all’arresto e la sua posizione si alleggerisce notevolmente.
Non serve altro al Procuratore del re di Castrovillari per redigere la requisitoria contro i tre imputati:
Considerando che nella rubrica prosessuale il Giovanni Ferraro, fratello del Michele, è addebitato di complicità nell’omicidio, ma se si voglia esaminare questa imputazione in riguardo al sussidio direttamente prestato nella esecuzione del reato, il processo non offre punto i corrispondenti criteri. L’intervento del Giovanni Ferraro si circoscrive negli sforzi di esso consumati per allontanare il Domenico De Pascale che voleva impadronirsi del Michele Ferraro. Riuscì infatti il Giovanni in questo intento e forse fu con ciò causa indiretta che al Michele restasse libera la mano omicida per la quale fu sagrificato l’infelice Vincenzo Levari. Tuttavia non è stabilito che tutto questo avvenisse con dato, con deliberato proponimento da parte del Giovanni ed in conseguenza di un previo concerto, provato il quale, cesserebbe ogni ragione di dubitare. Anzi si tratta di una briga improvvisa ed impreveduta, ma altresì risultano circostanze di fatto volte a far credere che il Giovanni Ferraro sia intervenuto contro il De Pascale non già per uno scopo doloso ma piuttosto perché reputava con ciò di rimuovere il pericolo di sinistri maggiori ben prevedibili. Quindi, secondo la Procura, Giovanni non è responsabile di alcun reato e viene chiesto per lui il non luogo a procedere.
Al contrario, a carico di Michele Ferraro viene chiesto e ottenuto il rinvio a giudizio per omicidio volontario, ferite volontarie e porto d’arma insidiosa e a carico di Raffalele Greco alias Mannino per percossa volontaria, ma questo è un reato minore e sarà giudicato a parte.
Il 14 dicembre 1868, la Corte di Assise di Cosenza emette la sentenza contro Michele Ferraro: colpevole di tutti i reati a lui ascritti. La pena inflitta è abbastanza  seria: 14 anni di lavori forzati e il pagamento delle spese di giudizio a pro dell’Erario dello Stato.
Ma sembra che la Giustizia si dimentichi di Mannino e gli anni passano senza che il processo a suo carico sia celebrato, finché il 17 luglio 1871 la Corte d’Assise di Cosenza dichiara di non farsi luogo a procedere contro il suddetto Raffele Greco per prescrizione dell’azione penale.[1]

Tutti i diritti riservati. ©Francesco Caravetta

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[1] ASCS, Processi Penali.

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