– Devo andare al canale a lavare dei panni di mia suocera – dice la ventunenne Carmela Vittorino a sua madre. Sono le 9,00 del 21 dicembre 1922 e a Scalea splende il sole.
– Non puoi farne a meno? Oggi pomeriggio ti sposi e pensi a lavare i panni? Li laverò io domani! – obietta sua madre, Maria Giuseppa Rotondaro.
– Ma me lo ha chiesto insistentemente… mi pare brutto… e poi quanto ci metto a lavare questi quattro stracci nostri – risponde mettendo dei panni sporchi in una cesta – e i quattro suoi?
– E va bene, fai come vuoi. A proposito di matrimonio, il letto l’hanno fatto?
– Sto andando a vedere, vieni con me.
Le due donne escono dalla loro casa in Piazza De Palma e si arrampicano lungo i vicoli verso la parte alta del paese dove c’è la cameretta presa in fitto da Ernesto Lamboglia, il ventenne promesso sposo come abitazione per la nuova famigliola. Nella casetta trovano, intente a sistemare le ultime cose, la suocera Emilia Possidente e una parente di Carmela. Dopo avere verificato che tutto è quasi pronto per il matrimonio, Emilia Possidente chiede a Carmela di andare a comprare del pane e della pasta. Al suo ritorno, lei e la suocera vanno a prendere gli altri panni da lavare e poi Carmela e sua madre salutano e ridiscendono verso il centro del paese. Arrivate in Piazza Vecchia le due donne si dividono e Carmela si avvia da sola verso il Canale Marini, dove va di solito per lavare i panni. La madre, invece, torna indietro alla cameretta e si mette all’opera con le altre due donne. All’ora di pranzo Maria Giuseppa torna a casa e poi, verso le 14,00, risale lungo i vicoli, convinta che la figlia sia tornata dal canale e sia con le altre due donne a vestirsi per andare a sposarsi.
– Carmela?… È ritornata Carmela?… Ed Ernesto?… È venuto Ernesto? Devono andare a confessare… – Maria Giuseppa comincia ad essere in ansia perché si sta facendo tardi.
– Carmela non è ritornata… Ernesto è venuto sopra mezzogiorno. Dopo mezzogiorno è stato un poco e se ne è andato… – risponde Emilia.
– E dove è andato?
– Forse Ernesto è andato pure al canale o all’infascinata [L’infascinata era una siepe naturale al lato del Canale Marini, come risulta dagli atti processuali. Nda.] a trovare Meluzza…
Maria Giuseppa non si tranquillizza del tutto e resta lì ad aspettare la figlia. Dopo un po’ si affaccia sulla porta della cameretta un certo Ninetto Mancuso, siciliano di Bagheria e datore di lavoro di Ernesto alla centrale elettrica di Scalea gestita insieme ai suoi due fratelli, ma appena vede Maria Giuseppa accenna a tirarsi indietro.
– Come, ti vergogni di me! – lo prende in giro la donna – non vuoi entrare perché hai visto me?
– Che vai trovando? Che vuoi, Ninetto? – si intromette Emilia Possidente.
– Voglio ad Ernesto che dall’ora in cui è venuto dalla centrale non è venuto a mangiare.
Emilia lo invita ad entrare per vedere il letto degli sposi e con l’occasione gli fa accomodare la lampada elettrica. Poi i due escono davanti alla porta e si mettono a parlare fitto fitto sottovoce e quando si avvicina anche Maria Giuseppa smettono di colpo e rientrano in casa restandovi pochi minuti per poi uscire insieme. Maria Giuseppa li segue e li raggiunge nella vicina casa della Possidente dove trova anche Ernesto, il quale era molto sconvolto in faccia e rovistava nei cassetti di un comò.
– Ernesto… Meluzza non viene… Meluzza non è tornata dal canale?… Dovete andare a confessarvi… – gli dice preoccupata, cominciando ad avvertire un tremore per tutto il corpo, poi continua – Meluzza non viene e io vado al canale.
Così Maria Giuseppa si avvia verso il Canale Marini dove, a una quindicina di metri da una vecchia fornace di calce, trova per terra gli zoccoli della figlia, la cesta con i panni lavati e alcuni panni stesi al sole ad asciugare.
– Carmela! Carmela! – urla per richiamarne l’attenzione, senza però avere risposta. Lì vicino ci sono altre donne che stanno lavando e chiede a loro se hanno visto la figlia. Le donne rispondono qualcosa che non riesce a capire. Adesso è davvero preoccupata e nella sua mente si affacciano i presentimenti più funesti. Cerca di guardare all’interno della fornace pensando che Ernesto l’abbia potuta far andare lì dentro per aspettarlo e fare l’amore prima di sposarsi, ma all’interno sembra non esserci nessuno. Nota, però, delle pedate di scarpe senza chiodi e l’erba piegata dal canale fino alla porta della fornace. “Forse ci sono stati e se ne sono andati” pensa. Poi entra e guarda con maggiore attenzione: anche all’interno ci sono un sacco di impronte sul pavimento cosparso di calcinacci. “Sono stati qui”. Il suo pensiero è rafforzato dal fatto che sa perfettamente come Ernesto, quando Meluzza andava a lavare, col fischio l’andava a chiamare dalla parte del castello e dopo, forse o senza forse, egli scendeva alla fornace, essa vi saliva, e lì si congiungevano.
Maria Giuseppa ridiscende al canale, prende la cesta con i panni e gli zoccoli della figlia e va a casa di Stefania Oliva, sua cognata, per avvertirla della cosa.
– Di sicuro è successa una disgrazia – le dice con le lacrime agli occhi.
– Quante te ne metti in capo! – le risponde la cognata.
Poi tutte e due, accompagnate da Maria, l’altra sua figlia, tornano al canale ma non trovano nessuno. Rientrano in paese che è quasi buio e Maria Giuseppa, affranta, siede sul gradino della sua porta e comincia a piangere e disperarsi. Dopo poco arriva anche Emilia Possidente che le dice:
– Che è, Scieppa? Come è… Che fai?
– Che faccio? Piango figliama che non è tornata… iu signu a scontenta… qualche cosa le è successa…
– Scieppa… non è successo nulla… chi sa dove sarà andata… andiamo a vedere in casa di Luisa Manfredi … forse sarà a casa di Luisa – le dice con un’aria di assoluta tranquillità, al contrario di Maria Giuseppa che non nutre speranze e, infatti, Meluzza a casa della comare non c’è. Emilia comincia a insistere per tornare al canale e Maria Giuseppa si oppone perché ormai è notte e non si vede niente.
– Prendiamo delle lanterne – suggerisce Emilia. E così fanno. Ma anche questa volta le ricerche non danno alcun risultato e le donne tornano in paese. Maria Giuseppa è sempre più disperata e continua a piangere. Emilia, quasi allegra almeno in apparenza, le dice:
– Chi sa dove è andata… forse se ne è andata con con qualche altro… forse ha paura di coricarsi con Ernesto ed è scappata con qualche altro…
– Mia figlia ha conosciuto solo Ernesto e lo sai bene tu come lo sa bene tutta Scalea! La tua è una bestemmia!
– Non t’inquietare… io l’ho detto solo con te… – replica senza scomporsi e Maria Giuseppa preferisce non continuare più a polemizzare sulla cosa, concentrata sulla sorte di sua figlia.
Arrivate in paese, è chiaro che la decisione più saggia da prendere è quella di avvisare della scomparsa i Carabinieri e l’Appuntato Umberto Zecca organizza subito due squadre dotate di lanterne per cercare la ragazza. Una squadra setaccia le rive del fiume, l’altra sale su per la collina soprastante. Sono ormai le 21,00 quando l’urlo di uno dei soccorritori avvisa gli altri che ha trovato la ragazza. Morta.
Il cadavere è collocato in un fosso semi coperto di spine, disteso alla supina. L’Appuntato Zecca, osservando bene il cadavere col chiarore delle lanterne si accorge che trattavasi assolutamente di delitto, infatti i segni della pressione esercitata sul collo con le mani sono inequivocabili: è stata strangolata.
Maria Giuseppa adesso ha tutto chiaro e racconta subito a Zecca i suoi sospetti:
– Ernesto cominciò a bazzicare casa mia tre anni fa con intenzione che sembrava sincera di sposare Carmela e dopo qualche tempo riuscì a disonorarla. Quando me la chiese in sposa, gli feci presente che l’avrei dotata solo di corredo personale, ossia i panni e i materiali occorrenti per la nuova casa e gli dissi mille volte che in danaro non avrei potuto sborsare un centesimo ed egli rispose che voleva a Meluzza assolutamente e che l’avrebbe sposata senza niente. Dopo averla sedotta però cominciò a trattarla con superbia, dimostrò che volentieri avrebbe non mantenuta la parola, che avrebbe volentieri non riparato il fatto. Ma la Carmela, poveretta, per necessità gli stette attorno, io e i miei parenti facemmo premure a lui e alla madre per la sollecita celebrazione del matrimonio. Vi fu anche qualche minaccia e madre e figlio assumettero impegno di far celebrare al più presto il matrimonio ma in seguito, ora con un pretesto, ora con un altro, mandarono la cosa per le lunghe. Lui se ne andò a Cosenza e tornò nel mese di settembre scorso senza trattare più Carmela e si seppe che avrebbe dovuto farsi zito con una figlia di Pietro Argirò. Meluzza rimase trafitta, ne parlò a me e io e i miei parenti un giorno tentammo di acciuffarlo e di paliarlo. Facemmo di nuovo pressioni per il matrimonio e i due birbanti, nella speranza che io non potessi cacciare denaro, in modo chiaro mi dissero che se non avessi sborsato £ 1200, il matrimonio non si sarebbe fatto. Capii che non vi era tempo da perdere, riunii come meglio potetti il denaro, cioè mi feci prestare dal mio padrone Aiello £ 1500 e un mese dietro versai loro £ 1200, mentre 300 le trattenni per la vesta della sposa. Sborsato il denaro, i due non fecero nulla per la sollecita celebrazione del matrimonio, anzi trattarono Carmela e me con superbia e indifferenza, però io mi attivai in mille modi. Approntai le carte, feci tutte le spese occorrenti al matrimonio, fornii di mobili la cameretta destinata agli sposi e riuscii a far celebrare le pubblicazioni di matrimonio, tanto che finalmente la celebrazione è stata fissata per oggi. Mia figlia indubiamente è stata uccisa da Ernesto con il concorso di altre persone! Carmela, dal canale andò nella fornace e nessuno, tranne Ernesto, avrebbe potuto attirarla lì dentro. Doveva essere suo marito e invece è stato il suo assassino! Aggiungo anche che negli ultimi giorni Ernesto cercava di fare all’amore colla figlia di Salvatore Forastieri, del quale egli e il suo indivisibile Mancuso bazzicavano la casa con la scusa della luce elettrica.
– Mancuso chi? – le chiede Zecca.
– Mancuso Ninetto, è elettricista come Ernesto.
– Ah! Ninetto Mancuso, il fratello di Giuseppe e di Giacomo, il proprietario della ditta elettrica…
– Proprio lui!
Zecca, arrestati Ernesto e sua madre, batte anche la pista che porta a Ninetto Mancuso e scopre che Ernesto ha con i tre fratelli Mancuso relazioni di amicizia intima e perché il Lamboglia conviveva quasi con la famiglia del Mancuso che con i di lui fratelli gestisce l’officina per l’energia elettrica in questo comune, dove il Lamboglia era da più tempo impiegato. Per questo Zecca si convince pienamente che il delitto fosse stato suggerito e portato a termine con l’aiuto dei fratelli Mancuso i quali, ceduta l’officina a Spezzano Tommasina, maritata Del Giudice, contavano di far ritorno definitivamente a Bagheria nella fine del mese corrente. Sottopone la questione al Pretore di Scalea, incaricato delle indagini, e ne ottiene l’arresto per concorso in omicidio. La conferma che ha visto giusto crede di averla quando i suoi colleghi di Bagheria gli mandano una relazione sui tre fratelli:
Durante il tempo che risiedettero in Bagheria, mentre per il Giuseppe e l’Antonino nulla risulta, per il Giacomo invece è opinione di molti che egli fosse affiliato alla maffia locale ed era considerato come cattivo soggetto, capace a commettere qualsiasi delitto. Di tutto ciò però nulla risulta inscritto nei registri delle persone pregiudicate e sospette poiché, data l’omertà locale, la polizia non fu mai a conoscenza della condotta equivoca del Giacomo. La persona a cui lo scrivente ha domandato le notizie sopra riportate ha assicurato che il Giacomo Mancuso è capacissimo di commettere reati come a quello che gli si attribuisce.
– Io e mia madre siamo innocenti e non sappiamo chi e in che modo ha ucciso Carmela – esordisce Ernesto quando lo interroga il Pretore Alfonso Giannuzzi – ieri l’altro verso l’imbrunire, essendo io elettricista alla ditta Greco e Mancuso, andai all’officina centrale di produzione della luce sita a circa tre chilometri da questo abitato, ove rimasi sino quasi a mezzogiorno di ieri. Mentre andavo alla centrale incontrai Carmela che veniva dalla campagna e poiché camminavamo in senso opposto ci salutammo, le dissi che andavo alla centrale e ciascuno camminò per la sua strada. Quando ieri sono tornato ho mangiato con Greco a casa sua e ci sono rimasto fino quasi alle 14,00. Poi sono andato in giro per riscuotere il prezzo della luce. Dopo le 15,00 mi ha raggiunto Ninetto Mancuso e insieme abbiamo continuato a riscuotere le bollette. Quando abbiamo finito il lavoro ce ne siamo andati a casa sua a divertirci a vedere dei romanzi e delle cartoline illustrate. Poi venne la madre di Carmela a dirmi che appena la mia fidanzata tornava dal canale dovevamo andare in chiesa a confessarci prima del matrimonio. Verso l’imbrunire, visto che Carmela non veniva, dissi che sarei andato da solo in chiesa per fare la confessione. Frattanto in paese si cominciò a parlare che Carmela non era ritornata, che Carmela era scomparsa e i suoi parenti l’avevano cercata inutilmente…
– Pare che non avessi così tanta voglia di sposarti con Carmela…
– Affermo che era mia intenzione di sposare Carmela, tanto che da parte di tutte e due le famiglie avevamo approntato ogni cosa… Signor Giudice, sono innocente!
Anche Emilia Possidente, così come i tre fratelli Mancuso, respinge le accuse:
– Ho sempre voluto bene alla ragazza… ho sempre spinto Ernesto al matrimonio… si, ci fu qualche dissidio per la dote ma fu subito appianato perché Maria Giuseppa promise lire milleduecento, che sborsò un mese dietro…
Il 23 dicembre, dopo che il medico legale conferma che Meluzza è stata assassinata, sembra esserci la svolta attesa dagli inquirenti: Ernesto chiede di poter parlare col Pretore per fare delle dichiarazioni:
– Capisco ormai che sono perduto, capisco che la giustizia è convinta della mia responsabilità, capisco che dovrò piangere il peccato di Carmela e voglio dire la verità, voglio confessare il delitto. Fui io ad uccidere Meluzza, fui io a chiamarla nella carcara, fui io ad affogarla e dopo morta andai a deporla sotto un roveto addossato ad una roccia. Io non avrei nemmeno avuto il coraggio di pensare a toglierle la vita se altri, a poco a poco, con un lavorio continuo durato tre mesi non mi avesse fatto sorgere il pensiero del delitto, non mi avesse di continuo promesso aiuto, non avesse ogni giorno attaccato l’onore di Meluzza. Ritornato definitivamente da Cosenza a Scalea, avevo intenzione di sposare Meluzza se i miei padroni non avessero sin dal primo momento iniziato la calunniosa opera di suggestionarmi, di rendermi schiavo della loro volontà. Mi dicevano che non avrei dovuto sposare Meluzza, che se io avessi sposato Meluzza sarei stato chiamato cornuto dal primo giorno, che ne aveva fatte tante con questo e con quello, che se l’avessi sposata mi avrebbero licenziato e che se non l’avessi sposata mi avrebbero sempre tenuto alle loro dipendenze, mi avrebbero aiutato in tutti i modi, che mi avrebbero condotto con loro in Sicilia, ove essi sono considerati come Re. Una sera che lavoravo alla centrale con Giuseppe, il più accanito dei tre contro Meluzza, ad un certo punto cominciò un ragionamento che per la mia mente aveva il significato di ammazzarla, cacciarsela davanti. “Per la Madonna… se fossi io…” così terminò e da quella notte io divenni un altro. Non volevo più vedere Carmela, non andavo più in casa sua e se la vedevo la trattavo con superbia e all’avvicinarsi del giorno delle nozze vedevo la mia e la sua rovina, pensavo che l’avrei uccisa. La mattina del fatto, Giuseppe mi disse: “Ernesto, vedi quello che devi fare, ormai non ci è più tempo da perdere, fa quello che devi fare e poi te ne andrai in Bagheria con un biglietto di presentazione a mio zio, biglietto che ti scriverà Giacomino. Stanotte verrò io stesso ad accompagnarti alla stazione, a Bagheria zio ti darà tutto quello che vorrai e Lunedì o Martedì verremo noi perché siamo in procinto di fare cessione della nostra quota alla signora Tommasina Spezzano”. Tornai dalla Centrale e andai alla cameretta dove mia madre mi disse che Carmela era andata al canale a lavare. Dal Castello scesi al canale ov’ella aveva già insaponato i panni e mi stetti qualche minuto a discorrere con lei ma arrivarono delle persone e andai a nascondermi nella vicina carcara e lei rimase a lavare. Io ero ancora nascosto quando venne la mia sorellina Evelina che chiese a Meluzza le chiavi di un baule e subito andò via. Dopo un po’ Carmela mi chiamò per andare via e io risposi: Vieni qua. Forse pensava che volessi possederla e a piedi scalzi mi raggiunse nella carcara. Le chiesi se fosse vero che aveva avuto relazioni con altri uomini e lei mi disse che non era vero, che aveva conosciuto soltanto me, ma io che avevo il demonio addosso soggiunsi che non l’avrei sposata, ella disse che avrei dovuto sposarla. “Se tu te ne vai senza sposarmi ti farò sparare da mio zio Carmelo” e io, senza sapere più quel che facessi, l’afferrai, le misi una mano al volto, la buttai a terra, mi ci misi sopra, la strinsi forte alla gola e la tenni in quel modo per parecchio tempo. Ci fu da parte sua un inutile tentativo di lotta e quando mi accorsi che era spirata la presi mettendole un braccio sotto le spalle e l’altro sotto le coscie e l’andai a depositare sotto al roveto. Quando arrivai in paese incontrai Ninetto Mancuso ma non gli dissi niente.
Bella storia, verosimile ma non provabile. I fratelli Mancuso per ora restano in carcere, ma oltre alle affermazioni di Ernesto non si può trovare niente che provi il loro coinvolgimento nel delitto. Così il reo confesso decide di calcare la mano sui fratelli Mancuso e chiede di fare altre dichiarazioni:
– La sera prima del fatto, Giacomo Mancuso mi disse: “Ma insomma sei tu capace di farlo?” io risposi di no e lui continuò: “Allora lo farà mio fratello Giuseppe”. Poi cambiammo argomento. La mattina del fatto Giuseppe venne a chiamarmi alla centrale e mi disse di tornare in paese perché Giacomo doveva parlarmi. Davanti alla caserma delle Guardie di Finanza incontrai Giacomo che mi fece aspettare in una stalla l’arrivo di Giuseppe dalla centrale e di Ninetto, poi quando eravamo tutti insieme mi chiese di nuovo se fossi stato capace di ammazzare Carmela perché quello era il momento giusto per farlo, dato che Meluzza era andata al canale a lavare. Io risposi che da solo non sarei stato capace e Giacomo confermò che lo avrebbe fatto Giuseppe. Decisi ormai di compiere il delitto, io, Giuseppe e Ninetto prendemmo la via del passaggio a livello e ci recammo insieme al castello. Qui ci dividemmo dandoci appuntamento vicino alla fornace. Quando io giunsi sul posto i due fratelli stavano già appiattati nelle vicinanze della fornace. Giuseppe mi consigliò di avvicinarmi alla Carmela. Io mi avvicinai e le domandai se aveva finito di lavare. Avendo avuto risposta negativa dissi alla Carmela che, non appena finito, avrebbe dovuto raggiungermi alla fornace. Trovò me solo giacchè i miei correi stavano nascosti nelle vicinanze. Essi, come videro venire la donna, le tennero subito dietro e Giuseppe, che per primo entrò nella fornace, disse alla Carmela: “Tu devi lasciare Ernesto, dovendo egli venire con noi”. Prima ancora che la Carmela potesse convenientemente rispondere, Ninetto le diede uno spintone ed anche Giuseppe le fu addosso, talchè la disgraziata cadde per terra. fu allora che Giuseppe le si mise di sopra e le strinse forte la gola, ordinando al fratello di tenerle le gambe ed a me di tenere le braccia. Quando già la disgraziata aveva stralunato gli occhi, per essere più sicuri dell’avvenuta soffocazione, Giuseppe prese il fazzoletto che la vittima portava in testa , raccogliendolo da terra, lo legò alla gola di lei e tirò per un capo, facendo per l’altro tirare il fratello. Compiuta la strage, Giuseppe mi disse di andarmi a collocare in un certo punto, vicino al canale, donde era possibile vedere se alcuno venisse, dovendo egli col fratello Antonio portare il cadavere dove poi è stato trovato.
Anche questo racconto è verosimile, ma il problema è sempre lo stesso: Ernesto non può fornire riscontri alle sue affermazioni.
Passa qualche mese ed Ernesto cambia ancora versione sulle dinamiche del delitto, restando fermo sulle responsabilità dei fratelli Mancuso, che da parte loro continuano a dichiararsi innocenti, portando anche dei riscontri documentali alle proprie affermazioni. Poi il 16 marzo 1923 Ernesto, nell’ennesimo interrogatorio, fornisce un particolare inedito:
– Verso la sera del giorno precedente al delitto, mentre ero in Piazza De Palma mi incontrai con Sciammarella Giuseppe che, avvicinandosi, mi disse: “Son passato fischiando dinanzi la casa di Meluzza ed ora più lei che sua madre me ne stanno dicendo a me sul fatto di tutti i colori, ripetendo che non ho visto il giorno che tu non ti pigliavi Carmela”. Quindi aggiunse: “Ernesto tu poiché Meluzza ne ha fatte tante non solo con altri ma anche con me, giurami sull’onore di tua sorella che non la sposerai”. Poiché non sapevo cosa rispondere, egli continuò dicendo: “Tu ora devi andare alla centrale. Vattene, domani però fatti vedere al ritorno e non mancare, io sarò da Cesare o a casa di Giordanelli Generoso”. In tale intesa ci lasciammo. Al ritorno dalla centrale la mattina del fatto, incontrai Giacomo Mancuso, e già vi ho riferito le sue parole, e poi lo Sciammarella il quale, chiamandomi in disparte, mi disse che era venuta l’occasione propizia per sopprimere Carmela, avendola vista che andava al canale per lavare e aggiunse: “Vieni alla fornace di Caselli ove verrò anche io”. Vidi Carmela e le dissi che l’attendevo nella fornace dove trovai lo Sciammarella col quale restai in attesa per un po’ di tempo. Quando Meluzza arrivò le si fece incontro Sciammarella e lei gli chiese per quale ragione si trovasse lì, al che lui l’affrontò dicendole: “Mi devi ripetere qui le parole che dicevi ieri sera. Io più volte ho promesso di farti ricordare il mio nome” e così dicendo l’afferrò spingendola. Carmela cercò di respingerlo ed emise qualche grido ma, aiutato da me, lo Sciammarella la buttò a terra tenendole la gola, mentre io la tenevo ferma per le braccia. Meluzza si dibattette per parecchio tempo sotto la stretta, ma poi non diede più segni di vita. Lo Sciammarella allora la lasciò e raccolse da terra il fazzoletto della vittima e tre forcinelle di osso, li conservò in una tasca dicendo che l’avrebbe nascosto sotto l’arena della spiaggia vicino le barche. Poi, arrivati in paese ci siamo divisi e non l’ho più visto per il resto della giornata. Quando io fui fermato dai Carabinieri nella caserma, egli venne come fascista per aiutare nelle ricerche. Anche egli mi vide facendomi anzi segno con un occhio di stare tranquillo e di non confessare.
Che fare? Quale sarà la versione che più si avvicina alla verità? C’entrano davvero qualcosa Giacomo Mancuso, il maffioso, e i suoi fratelli? C’entra qualcosa Emilia Possidente, sua madre? C’entra qualcosa il fascista Giuseppe Sciammarella, che si scopre essere cugino carnale di Meluzza? Un fatto solo è certo: in tutte le ricostruzioni fatte da Ernesto, solo lui è sempre presente sulla scena del delitto. Per essere tranquilli, gli inquirenti arrestano anche Sciammarella, che si dichiara innocente e ammette di essere in pessimi, litigiosissimi, rapporti con la famiglia della povera Meluzza. Pessimi rapporti che conferma anche Maria Giuseppa, la quale precisa:
– Sia io che la Carmela si può dire che odiavamo lo Sciammarella, ritenendolo sempre causa del mancato matrimonio e litigavamo ogni volta che passava davanti casa nostra con la sua aria strafottente.
Questa potrebbe essere la pista buona e gli inquirenti si buttano a capofitto nelle indagini. Ma Ernesto ritratta tutto e accusa di nuovo i fratelli Mancuso, spiegando di averli scagionati dopo che questi gli avevano fatto avere nel carcere di Cosenza un biglietto con promesse di assistenza se avesse ritrattato, cosa che in effetti fa. Ma i voltafaccia di Ernesto non sono finiti. Cambia ancora versione e dichiara di avere agito da solo addossandosi tutte le responsabilità, salvo poi ritrattare ancora una volta affermando di essere stato istigato dai Mancuso e di essere stato aiutato a compiere l’omicidio da Giuseppe Sciammarella e Ninetto Mancuso. Ma ormai Ernesto è preso nel vortice della menzogna e cambia, per la nona volta, di nuovo versione: a uccidere sono stati lui e Sciammarella, istigati dai Mancuso. Ci siamo? Ancora no. Nel decimo interrogatorio, quello finalmente decisivo, conferma che a uccidere sono stati lui e Sciammarella e che i Mancuso non c’entrano niente.
Prove decisive non se ne riescono a trovare; qualche testimone conferma gli alibi dei coimputati e qualcun altro li smentisce. Un vero ginepraio da cui non si riesce ad uscire. Gli inquirenti riescono però, partendo dalle personalità di Ernesto e di sua madre, ad attribuire ad ognuno degli indagati le proprie responsabilità. Ernesto viene definito come un giovane debole e senza iniziativa, e della madre, forte, energica e malvagia. È lei che dipinge male al figlio la Vittorino, è lei che sparla, è lei che sapendo la povertà della madre della Vittorino chiede le 1300 lire sperando che, non potendo versarle, il matrimonio debba andare a monte, è lei che prepara il luogo del delitto. Agli inquirenti appare chiaro l’interesse a stornare l’attenzione della giustizia sulla madre e sulle persone di sua famiglia, infatti dice sempre: “liberate mia madre ch’è innocente e vi dirò la verità”, e per spiegare chi lo à istigato mette innanzi i Mancuso e poi lo Sciammarella unicamente per coprire la responsabilità della madre. La chiamata di correo pertanto sia contro i Mancuso che contro Sciammarella non può avere gran valore perché mancano i due requisiti più essenziali e più necessarii, cioè la univocità e verisimiglianza della versione e la causale che possa avvincere i correi al delitto. Or come si fa a prestar fede a questo Lamboglia che in dieci interrogatori dà dieci versioni l’una diversa dall’altra e l’una che contrasta con l’altra anche sotto l’aspetto della verisimiglianza? Perché i Mancuso debbono sbarazzarsi di Carmela Vittorino? E perché debbono favorire nientemeno col più orribile dei delitti il Lamboglia per sbarazzarsi della fidanzata che vuole essere sposata per forza? Perché uccidere quando i Mancuso, che passano per prepotenti, potevano lo stesso ottenere ciò che eventualmente volevano? Avevano interesse a condurlo seco in Sicilia? Quali qualità aveva il Lamboglia al punto da non potere essi Mancuso abbandonare Scalea senza di lui? Ma se pure ciò fosse stato, non potevano condurlo anche ammogliato? E che dire poi della correità Sciammarella che viene al 6° interrogatorio ed in seguito ammessa e smentita con la solita volubilità e facilità come se non si trattasse della libertà di un uomo? Anche per questa responsabilità pertanto deve dirsi che la chiamata di correo manca di univocità di contesto e di causale proporzionata. Tra Sciammarella e Lamboglia non vi era tanta intima amicizia al punto che dovesse compromettersi per lui, giacchè non bisogna, in questo delitto, dimenticare che chi aveva interesse per non sposare era solo ed esclusivamente Lamboglia. È vero che da solo il Lamboglia non poteva commettere il delitto, ma questa non è ragione per venire alle conseguenze che i complici siano gli attuali arrestati. Questo delitto, come si è dimostrato, fu ordito e preparato da Emilia Possidente e i correi bisognava trovarli nella sua famiglia, gli unici cui componenti avevano interesse alla soppressione della Carmelina Vittorino.
Con queste motivazioni la Procura Generale del re di Catanzaro chiede alla Sezione d’Accusa che siano rinviati a giudizio per omicidio premeditato in correità fra loro, Ernesto Lamboglia e sua madre Emilia Possidente, mentre per tutti gli altri imputati viene chiesto il proscioglimento per insufficienza di prove.
Ma la Sezione d’Accusa valuta diversamente la posizione di Giuseppe Sciammarella sostenendo: In quanto poi alla di costui partecipazione energica e preponderante nella esecuzione del delitto, vi ha la rivelazione esauriente fatta dal coimputato Lamboglia con dettagli precisi, attendibili, irrefutabili che non patirono alcuna smentita seria e concreta. Siffatta chiamata di correo non può essere vulnerata dalla circostanza delle molteplici tergiversazioni cui il Lamboglia ebbe ad abbandonarsi nei suoi varii interrogatorii e ne smontano pezzo per pezzo anche l’alibi che tardivamente ha cercato di costruirsi.
A rispondere dell’omicidio premeditato di Carmela Vittorino saranno Ernesto Lamboglia, sua madre Emilia Possidente e Giuseppe Sciammarella.
Secondo la giuria della Corte d’Assise di Cosenza, l’unico colpevole è Ernesto Lamboglia che però ha ucciso senza premeditazione e, concesse le attenuanti generiche, viene condannato a 14 anni e 7 mesi di reclusione. Emilia Possidente e Giuseppe Sciammarella vengono assolti per non aver commesso il fatto. È il 7 luglio 1924.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.