È il quattro marzo 1865, Annibale Caruso soprannominato Cucinato, Francesco Leonetti e Vincenzo Cicirelli stanno lavorando alla fontana Canalicchio, quando li sorprende un temporale e si rifugiano nella vicina casa di Francesco Leonetti, posta al limitare dell’abitato di Montalto Uffugo e ne approfittano per fare una partita a carte e bere un bicchiere di vino. Ad un certo punto arriva anche Gaetano Scavello il quale, mentre beve del vino con gli amici, se ne sta dietro i vetri della finestra che guarda verso un sentiero di campagna, come se aspettasse di veder passare qualcuno. E, in effetti, qualcuno passa. Sono un ragazzino e una donna che si dirigono lungo la stradina verso una casa di campagna poco distante. Scavello riconosce tutti e due e ha come un moto di stizza del quale, tuttavia, nessuno dei presenti si accorge.
– Venite con me – dice agli amici – vi devo fare vedere una cosa – gli amici gli rispondono che non vogliono uscire ma Gaetano insiste e li convince a seguirlo. Vanno, seguendo la strada che il ragazzino e la donna hanno percorso, verso la casa colonica che sorge in contrada Fontana del Monaco e vedono i due entrare nella casa e restarci solo pochi minuti. Quando il ragazzino e la donna escono prendendo strade diverse, Scavello blocca il giovanetto agitando in mano una specie di frustino fatto con un virgulto di gelso:
– Che ci sei andato a fare in quella casa con la donna? – gli chiede con fare sprezzante.
– Niente… così… sono andato per raccogliere un poco di malva pel mio padrone… – gli risponde Pasquale Esposito.
– Cosa ci sei andato a fare? – insiste – hai portato qualche imbasciata per conto di qualcuno?
– Non sono fatti che ti riguardano.
– Lo vedremo se mi riguardano! Dì ai tuoi padroni che se io una volta sono stato causa di farli andare nella corte, ora li farò andare nella fossa! – sbotta Gaetano dando un paio di colpi col gelso sulla testa del ragazzino.
– Non ti preoccupare che per questo te la vedrai con i miei padroni, vigliacco e pagliaccio – gli promette il ragazzino dandosi alla fuga per evitare guai più seri.
Infatti, tornato a casa, il ragazzino racconta tutto ai suoi padroni, i fratelli Luigi e Giovanni D’Alessandro, i quali non perdono tempo e vanno a cercare Gaetano Scavello. Si sentono offesi e vogliono vendicarsi. Girano per le strade del paese finché non lo trovano e lo affrontano parandoglisi davanti:
– Com’è questa storia? Come ti sei permesso di battere il nostro servo? – gli fa Luigi brandendo uno staffile.
– Non gli avete insegnato come comportarsi – risponde Gaetano.
Giovanni si sente ancora più offeso dalla risposta e, senza dire una parola, molla due ceffoni all’avversario, mentre Luigi sta per colpirlo con lo staffile. Gaetano sa che sta per essere gonfiato di botte e indietreggia, raccoglie da terra un sasso e lo scaglia verso i fratelli D’Alessandro senza colpirli, poi scappa. Luigi e Giovanni tirano fuori dalle tasche uno stiletto e un trincetto da calzolaio e lo inseguono ma non riescono a raggiungerlo.
– Non importa, non ci sei incappato adesso c’incapperai certamente appresso, dimani, dopo dimani, quando potrà succedere… – promette Giovanni, poi i due tornano alle proprie attività: Luigi nella sua bottega di calzolaio, Giovanni nella sua caffetteria.
La sera del giorno dopo, domenica 5 marzo, nel teatro mobile sistemato nello spiazzo antistante San Domenico c’è una rappresentazione teatrale e molti del paese vanno a vederla. I fratelli D’Alessandro hanno saputo che ci andrà anche Gaetano Scavello e decidono che alla fine della rappresentazione, quando sarà buio pesto, metteranno in pratica il loro proposito di vendetta.
Alla fine del secondo atto i fratelli D’Alessandro entrano nel teatro percorrendo una specie di corridoio ricavato tra i pannelli che chiudono il teatro e due lati del chiostro di San Domenico, danno una sbirciata dentro, si accertano della presenza di Gaetano Scavello e vanno via.
– Luigi… Luigi… – lo chiama sottovoce Gaetano Sansosti quando gli passa accanto. Luigi D’Alessandro si china e avvicina l’orecchio alla bocca dell’amico – ma è vero che hai avuto questioni con Gaetano Scavello? – con un cenno del capo risponde di si e l’amico continua – lascia perdere queste gelosie donnesche soprattutto perché si tratta di una donna che non merita riguardo – Luigi sorride, gli da una pacca sulla spalla e se ne va col fratello.
I due fratelli sanno dove appostarsi per sorprendere l’avversario e si mettono in attesa nel buio.
Davanti all’ingresso del teatro arriva anche il servetto dei D’Alessandro e si mette nervosamente a camminare avanti e indietro in attesa che la gente esca.
– Che ci fai tu qui? – gli chiede Pietro Merenna.
– Son rimasto qui fuori per aiutare i miei padroni, i quali dopo che sarà compiuta l’opera, debbono rissarsi con Gaetano Scavello a cui dovranno vibrare de’ colpi ed io accorrerò per impedire la rissa.
Pietro Merenna, che sa della questione, non si preoccupa più di tanto: sono fatti loro e se la devono sbrigare tra di loro.
Dopo un po’ la rappresentazione finisce e la gente comincia a uscire per tornare a casa. Anche Gaetano Scavello esce e scambia qualche parola con il suo amico Pietro Ammirata, quando emette dei gemiti di dolore. Non ha avuto nemmeno il tempo di capire cosa stia accadendo, che due lame affilatissime, luccicando per un istante nel buio, gli si sono conficcate nelle carni, ferendolo al braccio sinistro e all’addome.
Gaetano cade a terra e finalmente il grido di dolore, finora impedito dalla fulmineità dell’attacco, gli esce dalla gola:
– Ah! Mi hanno ammazzato!
Accorrono in tanti, compreso il servetto dei D’Alessandro, che non ha fatto in tempo a intervenire, e lo trovano accasciato a terra sopra una macchia di sangue che si allarga ogni secondo di più. Urlano tutti. Tutti sanno chi è stato e guardano intorno per capire dove siano Luigi e Giovanni. Poi qualcuno vede due sagome allontanarsi di corsa e comincia a gridare:
– Arrestate, arrestate questo che fugge perché ha ammazzato un individuo!
Giovanni è lento ad allontanarsi e viene bloccato proprio mentre arriva la pattuglia di Carabinieri in servizio di perlustrazione, Luigi invece riesce a scappare. Viene visto poco dopo da due uomini che stanno tornando a casa e fa perdere le proprie tracce. Il ferito viene portato a casa in gravi condizioni e i Carabinieri provano a fargli dire il nome o i nomi di chi lo ha colpito. Con un filo di voce, Gaetano fa i nomi dei fratelli D’Alessandro.
Giovanni viene portato in caserma e interrogato:
– Perché voi e vostro fratello avete ferito lo Scavello? – gli chiede il Giudice Mandamentale, Vincenzo Leoncavallo.
– Signore, io non ho ferito alcuno.
– Dov’è vostro fratello?
– Signore, sono io responsabile del male che ha fatto mio fratello?
– Ma voi siete stato visto fuggire insieme a vostro fratello.
– È vero, perché io non sapeva che mai fosse accaduto a mio fratello.
– Ma voi uscivate insieme dal teatro, insieme vi siete accostato allo Scavello ed insieme siete fuggiti.
– È vero, ma io son fuggito perché ho visto fuggire mio fratello.
Vincenzo Leoncavallo capisce che è inutile insistere per ottenere una confessione da Giovanni D’Alessandro e lo fa rinchiudere in una cella del carcere mandamentale.
La ferita all’addome si rivela fatale a Gaetano che muore nella sera del 6 marzo. Adesso l’accusa per i fratelli D’Alessandro è di omicidio, ma Luigi è ancora latitante.
Si costituisce nelle mani del Delegato di P.S. di Cosenza venerdì 17 marzo e si dichiara subito innocente:
– Nella sera del di 5 di questo mese, io usciva dal Teatro quando innanzi S. Domenico intesi un chiasso e capî che volevano arrestare mio fratello Giovanni, io ciò sentendo sono tornato indietro per tema che non si fosse voluto arrestare anche me – dichiara.
– Se eravate innocente era inutile allontanarvi, perché certo non si arrestano gl’innocenti – gli replica il Delegato.
– Pure io sospettai in contrario perché intesi nominare anche me dai carabinieri e non è vero che sia fuggito con mio fratello…io non aveva nessuna inimicizia con Gaetano Scavello.
Ma le prove testimoniali sono tutte contro di loro e i fratelli D’Alessandro vengono rinviati a giudizio per il reato di ferite con arma insidiosa accompagnata da premeditazione ed agguato, l’una delle quali portò la morte dell’offeso.
L’otto luglio 1865 la Corte d’Assise di Cosenza ritiene che sia stato Giovanni D’Alessandro a vibrare la coltellata mortale a Gaetano Scavello e lo condanna ai lavori forzati a vita. Luigi, il fratello, che ha vibrato la coltellata al braccio, viene condannato a venti anni di lavori forzati.
Ma l’avvocato Mariano Campagna, difensore dei fratelli D’Alessandro, ritiene che ci siano state delle violazioni di legge nel processo e ricorre alla Corte di Cassazione di Napoli la quale, accogliendo parzialmente il ricorso, annulla la sentenza e rinvia gli atti alla Corte di Assise di Catanzaro per la celebrazione di un nuovo processo.
Questa volta la giuria ritiene che Luigi e Giovanni D’Alessandro non hanno volontariamente ferito Gaetano Scavello, causandone la morte. La giuria ritiene invece che i fratelli siano complici l’uno dell’altro senza essere in grado di specificare chi abbia colpito la vittima, ma che la cooperazione dei due nel ferire Scavello non è stata decisiva a determinarne la morte, anche se il colpo all’addome, recidendo l’arteria ipogastrica, era di per sé mortale. Chi ci capisce è bravo.
In conseguenza di questa interpretazione Luigi viene condannato a sette anni di reclusione e Giovanni a dieci anni di lavori forzati.
Il nuovo ricorso alla Corte di Cassazione di Napoli viene rigettato il 26 novembre 1869.[1]
PAGLIACCI – trama
La piccola compagnia teatrale itinerante composta dal capocomico Canio, dalla moglie Nedda e dai due commedianti Tonio e Beppe giunge in un paesino del sud Italia per inscenare una commedia. Canio non sospetta che la moglie, molto più giovane, lo tradisca con Silvio, un contadino del luogo, ma Tonio, fisicamente deforme, che ama Nedda e ne è respinto, lo avvisa del tradimento. Canio scopre i due amanti che si promettono amore, ma Silvio fugge senza essere visto in volto. L’uomo vorrebbe scagliarsi contro la moglie, ma arriva Beppe a sollecitare l’inizio della commedia perché il pubblico aspetta. Canio non può fare altro, nonostante il turbamento, che truccarsi e prepararsi per lo spettacolo.
Dopo un intermezzo sinfonico molto intenso, Canio/Pagliaccio impersona appunto un marito tradito. La realtà e la finzione finiscono col confondersi ed egli riprende il discorso interrotto poco prima, rinfacciando a Nedda/Colombina la sua ingratitudine e dicendole che il suo amore è ormai mutato in odio per la gelosia. La donna, intimorita, cerca prima di mantenere un tono da commedia, ma poi, minacciata, reagisce con asprezza. Beppe vorrebbe intervenire, ma Tonio, eccitato dalla situazione, di cui è responsabile con la sua delazione, glielo impedisce. Di fronte al rifiuto di Nedda di dire il nome del suo amante, Canio accoltella a morte lei e poi Silvio, presente tra il pubblico e accorso sul palco per soccorrerla.
LE INCONGRUENZE
Se nell’omicidio che abbiamo appena letto non si trova alcun triangolo amoroso, nessuna moglie fedifraga (addirittura l’identità della donna che viene descritta negli atti resta sconosciuta anche ai giudici) e, soprattutto, nessun pagliaccio assassino, tutti questi elementi si trovano, al contrario, con in più l’artificio del “teatro nel teatro” e la trovata del pubblico che, credendo a una finzione scenica, sommerge di applausi la realistica interpretazione dell’attrice, nella piece Femme de Tabarin del francese Catulle Mendès il quale denuncia Leoncavallo per plagio.
Molti studiosi e tra questi Carlo Nesi [L’origine del melodramma “Pagliacci”, Genova 1959] e Marco Ravasini [Pagliacci: bugie di comodo, eclettismo di sostanza, in: http://www.sistemamusica.it/2001/maggio/27.htm] sono concordi nell’affermare che Leoncavallo aveva assistito con certezza alla rappresentazione del dramma di Mendès quando si trovava a Parigi per lavoro, e l’utilizzò come base del suo progetto verista.
Tuttavia, il nostro musicista riesce a uscire indenne dal processo e nelle sue memorie scrive: Quello che v’ha di più curioso, come seppi di poi è che il protagonista della mia opera è tuttora vivente e che, uscito di prigione si trova ora al servizio del barone Sprovieri in Calabria, e che egli sarebbe disposto a venire quale testimonio in mio favore, se il processo fosse continuato. E io rimpiango un poco che questo non sia avvenuto, solo perché noi avremmo assistito ad una scena interessantissima, quando avrebbe deposto il povero D’Alessandro (è questo il nome vero del mio “Canio”) raccontandoci il suo furore geloso e le sue angosce[2].
Leoncavallo dimentica ancora una volta qualcosa: ad aggredire il povero Gaetano Scavello furono due D’Alessandro e non uno…
In un’intervista pubblicata nel 1930 su una rivista americana, Leoncavallo collocherebbe il delitto non al 5 marzo ma nel giorno di ferragosto del 1865. Si tratta palesemente di un falso poiché il musicista non avrebbe mai potuto rilasciare quella intervista, essendo morto a Montecatini ben 11 anni prima (9 agosto 1919).
In ultimo, secondo la tradizione, Gaetano Scavello era il domestico della famiglia del giudice Vincenzo Leoncavallo, padre di Ruggero il quale, all’epoca dei fatti, aveva appena otto anni, essendo nato a Napoli il 23 aprile 1857. Molti anni più tardi, nella sua autobiografia rimasta incompleta e affidata ad un dattiloscritto oggi conservato nel Fondo Leoncavallo della Biblioteca Cantonale di Locarno, in Svizzera, Ruggero scrive: Ripensai alla tragedia che aveva solcato di sangue i ricordi della mia infanzia lontana e al povero servitore assassinato sotto i miei occhi e in nemmeno venti giorni di lavoro febbrile avevo buttato giù il libretto dei ‘Pagliacci’.
Ma dagli atti del processo ai fratelli D’Alessandro queste circostanze non emergono: nessuno dei testimoni dice che Scavello è il domestico dei Leoncavallo e nessuno colloca sulla scena del crimine il piccolo Ruggero. È tuttavia possibile che si volle tutelare Ruggero, figlio del giudice incaricato delle indagini insieme al supplente Marigliano, dal dovere testimoniare in proposito.
I CAMINANTI-Quando gli zingari rubavano galline
[1] ASCS, Processi Penali.
[2] Il brano è riportato nel libretto illustrato di Cavalleria Rusticana. NdA.
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