IL FATTO NON SUSSISTE

La mattina di venerdì 13 aprile 1923, Fedele Chilelli, sessantanovenne contadino di Fiumefreddo Bruzio, sta zappando un pezzo di terra in contrada Tavolaro di Mendicino. Ci è tornato dopo un paio di giorni di assenza dovuta alla pioggia battente che gli ha consigliato di dedicarsi ad altre attività, ma quando, appena alzato, ha visto che la pioggia è cessata, ha deciso di andare a piantare delle cipolle.
Il torrente Reale, sulla cui sponda sinistra si trova la terra di Chilelli è gonfio e Fedele lega il suo asino per evitare che possa essere travolto dalle acque. Lavora di buona lena quando, verso le dieci, il latrare di alcuni cani randagi sull’altra sponda del torrente attira la sua attenzione. Il branco si sta accanendo su un cumulo di pietre tentando di spostarne qualcuna senza riuscirci e Fedele torna alla zappa, disinteressandosi dei cani. Ma non passa nemmeno un’ora e si accorge che l’asino ha rotto la corda con cui era legato, ha guadato il torrente e adesso sta brucando tranquillamente sull’altra sponda. Fedele bestemmia minacciando di bastonare l’asino se non torna immediatamente indietro, ma l’asino, ovviamente, se ne infischia e continua a mangiare. Si, deve proprio bagnarsi e attraversare il torrente prima che l’asino faccia danni ai terreni vicini, così passa dall’altra parte ma, prima che il suo bastone si abbatta sulla schiena dell’asino, la sua attenzione viene di nuovo richiamata dall’abbaiare dei cani. “Visto che ormai sono qui, fammi andare a vedere con cosa ce l’hanno…” pensa mentre brandisce il bastone e urla prist fò all’indirizzo degli animali per farli allontanare. Sono pochi metri. Ci sono, e lui lo sa bene, degli enormi massi che formano una specie di nicchia naturale: “ci sarà qualche bestia ferita lì dentro”,  pensa mentre si avvicina. Poi, con sorpresa, si accorge che la nicchia è stata chiusa con un cumulo di pietre e non si vede cosa c’è all’interno, così comincia a toglierne qualcuna e manda una bestemmia peggiore di tutte quelle che ha pronunciato in vita sua: lì dentro c’è un uomo morto!
In men che non si dica risale il corso del torrente fino alla sommità della collina dove c’è la casa colonica di Antonio Muoio e chiede aiuto. Le sue urla di richiamo e quelle di Muoio dopo la rivelazione attirano altri quattro o cinque contadini che lavorano nelle vicinanze e tutti vanno alla nicchia e, tra le pietre vedono il cadavere. Uno di questi, Fedele Vitelli, si incarica di andare dai carabinieri di Mendicino mentre gli altri cominciano a togliere i sassi per liberare il corpo.
Quando il Maresciallo Di Via arriva sul posto trova i contadini che discutono sulla identità del cadavere perché non riescono a vederne il viso, rovesciato sotto il corpo. Il Maresciallo osserva a sua volta e ha un conato di vomito: la testa è quasi completamente recisa. Fa allontanare tutti e ordina a un suo sottoposto di piantonare il cadavere, mentre lui torna in paese per telefonare ai suoi superiori e al Procuratore del re. Che nessuno tocchi niente fino all’arrivo degli specialisti dal capoluogo.
Il Commissario di P.S. Alfonso Vertuchi e il Carabiniere Specializzato Antonio Zinchieri verbalizzano subito che si tratta del cadavere di un giovane che vestiva pantaloni di fustagno, calzari da pastore (zampitti), con il busto ricoperto da una maglia di lana bianca senza giacca con sottostante camicia. Il cadavere situa quasi carponi con la faccia contro terra e piegata sotto il busto in modo da presentare soltanto le spalle e le natiche, giacché gli arti inferiori erano posti sotto una escavazione naturale di uno dei massi formanti la nicchia. Il cadavere era a capo scoperto e nelle vicinanze non si rinveniva il cappello. Abbiamo subito notato che lo sconosciuto presentava larghe ferite da taglio alla regione temporale occipitale sinistra ed alla nuca, quest’ultima quasi completamente recisa in tutta la sua lunghezza.
È pomeriggio inoltrato quando, finiti i primi rilievi, il cadavere viene trasportato nel cimitero di Mendicino per l’autopsia. Giunti davanti alla caserma, gli investigatori sono avvicinati da un anziano, Domenico Sansone, il quale, preoccupato, chiede loro di fornirgli una descrizione del cadavere perché teme possa trattarsi di uno dei suoi figli che manca da casa da alcuni giorni.
– È lui, ne sono sicuro. Non porta mai la giacca e quando si è allontanato da casa aveva una maglia di lana chiara e la camicia sotto… – afferma prendendosi il viso tra le mani. Il Maresciallo lo accompagna al cimitero e Sansone riconosce nel cadavere il proprio figlio venticinquenne Vincenzo – mio figlio era un semi-idiota ed era solito allontanarsi da casa per vagare nelle campagne ma dopo due o tre giorni tornava e poi spariva di nuovo. Era anche incapace di lavorare perché all’improvviso lasciava tutto come si trovava e se ne andava. In casa non ha mai dato fastidio e nemmeno quando si allontanava perché non abbiamo mai ricevuto lamentele dai vicini. Certo è che se aveva fame e trovava una casa incustodita magari qualcosa da mangiare se la prendeva, ma, ripeto, non abbiamo mai ricevuto lamentele.
– Si, non abbiamo mai sentito niente contro mio fratello – aggiunge Raffaele Sansone – ma una volta, per cercare di mettergli paura, gli ho detto: Non ti muovere di casa che qualche giorno ti ammazzano.
L’affermazione di Raffaele convince gli investigatori che qualcuno, sorpreso Vincenzo a rubare e non sapendo delle sue limitate capacità mentali ma scambiandolo per un delinquente qualsiasi, gliel’abbia fatta pagare. Ccominciano subito a indagare in questa direzione ma non riescono a trovare niente. Poi, passato qualche giorno, il fratello del morto si presenta dal Maresciallo Di Via con delle notizie sconcertanti. È il 20 aprile.
– Stamattina si è presentato a casa mia un certo Giuseppe De Santo di Fiumefreddo ma che abita a Cerisano il quale, dopo avermi chiesto se c’erano novità sulle indagini, mi ha detto di avere saputo da suo figlio Antonio, che a sua volta lo aveva saputo da un certo Gabriele Bruno, come mio fratello fosse stato ucciso dal bovaro Antonio Caputo di Mendicino, che abita in contrada Caselli.
Di Via è perplesso, troppi de relato.
La mattina dopo, mentre il Maresciallo sta dando disposizioni per rintracciare le persone indicata da Raffaele Sansone, gli viene annunciata la visita di un giovanetto, Francesco Mazza, che avrebbe delle cose da dire sull’omicidio
– Il 9 aprile ero nella contrada Larello di Mendicino per far pascolare le mie pecore quando, verso le undici, guardando verso la località Caselli vidi Antonio Caputo poco distante dalla sua casa che, con una scure in mano, inseguiva uno sconosciuto con indosso una camicia bianca e dei pantaloni scuri. Tutti e due correvano verso il torrente Mercadante che è poco distante ma non so cosa è accaduto dopo perché dalla mia posizione non potevo vedere in quanto la visuale verso quel punto era ostacolata da un gruppo di alberi. Posso solo dirvi che fino a quando non sono andato via con le pecore, Caputo non è tornato a casa. Qualche giorno dopo, mentre ero in contrada Sperone, sono stato avvicinato da certi Giuseppe Sansone e Pietro Buffone i quali mi dissero che Antonio Caputo aveva ucciso Vincenzo nel fiume Mercadante. Mi dissero anche che erano a conoscenza di questo fatto anche i figli di Stefano Vommaro che abitano nella contrada Crivaro di Fiumefreddo
– Insomma, sembra che qui tutti sanno chi è stato tranne noi! – osserva, poi continua – Sei sicuro di quello che hai visto? A che distanza eri?
– Sicurissimo! Ero a circa trecento metri ma Caputo lo conosco e posso dire con certezza che era proprio lui a inseguire lo sconosciuto.
Di Via a questo punto decide di intervenire immediatamente e manda due sottoposti a prelevare Antonio Caputo per portarlo in caserma e gli sequestrano una scure e un coltello a scatto.
I primi di maggio il Maresciallo trova un altro testimone, il pastore Andrea Sansone, il quale gli fornisce particolari inediti
– Il 9 aprile sono partito da casa con il gregge verso la contrada Speroni dove, verso le dieci e mezza ho lasciato i miei figli e il giovanetto Francesco Mazza a piantare cipolle e io ho portato il gregge in contrada Caselli. Dopo un po’ ho sentito delle grida provenienti dal posto che chiamiamo Erbe Bianche, a circa duecento metri da dove ero io. Impressionato, guardai in quella direzione e vidi Antonio Caputo, alias Gazzera, che con una scure in mano inseguiva Vincenzo Sansone verso il Mercadante, poi sono scomparsi dalla mia vista. – e fin qui niente di nuovo – Devo dire che in quei giorni a casa di Caputo c’erano due suoi cognati, Francesco e Antonio dei quali non conosco i cognomi ma so che sono figli adottivi di Giovanbattista Carbone. Verso le quattro del pomeriggio ero vicino alla casa di Caputo con le pecore quando mi ha avvicintato suo cognato Francesco, invitandomi a seguirlo in casa per ripararmi dalla pioggia battente e riscaldarmi un po’. Quell’invito era insolito e mi ha insospettito, ricordando l’inseguimento e le urla del mattino e con la scusa che ormai era ora di tornare a casa, ho rifiutato l’invito e me ne sono andato. Però, prima di congedarmi, gli ho chiesto come mai suo cognato Antonio la mattina inseguiva con la scure in mano Vincenzo Sansone e lui, con fare distratto, mi rispose che suo cognato stava andando a riprendere una vacca che era scappata. Marescià, statemi a sentire, sono sicuro che i cognati hanno aiutato Caputo a nascondere il corpo del povero Vincenzo. Antonio Caputo è un bruto che era solito bastonare la buonanima del padre, le sorelle e la moglie.
I cognati di Caputo vengono rintracciati e interrogati ma non emerge nulla di nuovo se non che il giorno dell’omicidio i due chiamarono più volte il cognato per il pranzo senza ottenere risposta e che quando rientrò era tutto bagnato e senza scarpe.
Sia chiaro, i sospetti su Antonio Caputo sono gravi ma non c’è uno straccio di prova a suo carico e lo ammette il Maresciallo Di Via nel rapporto che il 15 maggio invia ai suoi superiori.
Poi Francesco ci ripensa e il 24 maggio racconta ai Carabinieri che in effetti ha visto il cognato inseguire Vincenzo Sansone con la scure in mano. Arrivato vicino a dove Pietro Buffone era con le sue pecore, disse a quest’ultimo: Fermalo! Fermalo! Buffone lo fermò e insieme a Caputo lo trascinarono nel Mercadante. Dopo quasi un’ora, i due tornarono indietro, gli si avvicinarono e gli intimarono di scendere con loro al fiume  ma, al suo rifiuto, Caputo lo prese per un braccio e gli disse: Vieni con noi altrimenti ti faremo quello che facemmo a lui. Costretto a seguire i due, quando giunsero al fiume Francesco vide il cadavere di Vincenzo orrendamente mutilato a colpi di scure e vide suo cognato Antonio Caputo mentre slegava i lacci che tenevano legate le suole messe a mò di scarpe dai piedi della vittima per legargli le gambe e trasportarlo più comodamente. Buffone e Caputo presero il cadavere, uno dalle spalle e l’altro dai piedi e si avviarono costringendolo a seguirli e a dargli il cambio di tanto in tanto. C’era nebbia fitta e nessuno di quelli che di solito lavorano nei paraggi poteva vederli. Poi Caputo si accorse che i suoi buoi stavano per entrare in un terreno seminato e gli ordinò di andarli a togliere da lì mentre lui e Buffone proseguirono il cammino.
Arrestato, Buffone nega recisamente ogni addebito e insinua che Francesco abbia detto quelle cose per vendicarsi di una sua testimonianza contraria fatta in una causa precedente.
Ma quella di Francesco è l’unica testimonianza, finora, a carico di Pietro Buffone il quale cita alcuni testimoni che tra le 11,00 e le 14,00 – periodo nel quale è certo che fu commesso l’omicidio – lo videro intento a zappare nel suo fondo, ma, sorprendentemente, tutti lo smentiscono.
La Procura, nonostante sia costretta ad ammettere che non è in grado di stabilire il movente dell’omicidio, ipotizza che Vincenzo Sansone, povero deficiente, essendo solito allontanarsi da casa e vagare per i campi, spinto dalla fame rubava le colazioni lasciate incustodite dai contadini e dai pastori. Antonio Caputo, più volte vittima di questi furtarelli, fu sentito da alcune persone lamentarsene e minacciare di tagliare la testa al ladro se lo avesse colto in flagrante. E ne era ben capace perché è un individuo estremamente corrivo alle violenze che non aveva risparmiato nemmeno verso i suoi genitori. Nel giorno del delitto, dal punto in cui lavorava egli dovette vedere il Sansone avvicinarsi alla sua casetta in atteggiamento sospetto, non dubitando che il ladro fosse proprio lui, gli corse addosso con la scure brandita per mettere in atto il suo proposito delittuoso. Fatalità volle che durante la fuga trovasse sui suoi passi il Buffone, il quale vittima anche lui delle sue manie, lo trattenesse per incitamento del Caputo e coadiuvò costui nello sfogo violento della sua ira brutale e feroce.
Per Antonio Caputo e Pietro Buffone viene chiesto il rinvio a giudizio con l’accusa di omicidio volontario. La Sezione d’Accusa accoglie parzialmente la richiesta della Procura e rinvia Antonio Caputo al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza ma dispone il non luogo a procedere nei confronti di Pietro Buffone ritenendo tardiva e non completamente disinteressata l’accusa mossagli da Francesco e, in ogni caso, non c’è nei suoi confronti una qualunque causale che lo avesse potuto indurre a prendere parte al delitto commesso dal Caputo.
8 dicembre 1924. Questa è la data fissata per l’inizio del dibattimento. Due giorni prima, viene consegnato al Presidente della Corte un esposto firmato da quattro detenuti che condividono la cella con Antonio Caputo, i quali si dicono certi della sua innocenza perché A noi, che pur siamo adusi a conoscer tanto e gli uomini e la vita, nulla è sfuggito della sua anima, la quale si presenta così com’è, assolutamente inadatta alle tortuose scaltrezze, ai coperti infingimenti, alle insidiose sottigliezze, a tutto il ricco armamentario insomma cui ricorrono spesso gli imputati per salvarsi dai rigori della Legge: è un uomo semplice, incolto, schietto, incapace di mentire e di inventare. Altrove bisogna cercare l’assassino! Sulle aspre balze dell’appennino, fra le contrade del Rizzuto – Mendicino – e il territorio di Fiumefreddo Bruzio, vivono famiglie sperdute di pastori, cui non perviene l’eco della vita civile: fiorisce il più selvaggio imperio, che poco si discosta dalla vita delle bestie ch’essi conducono al magro pascolo quotidiano.
Quattro famiglie di pastori son quelle che noi esponiamo al criterio illuminato di V.S.
La famiglia di Andrea Sansone, la famiglia di Giovanbattista Carbone, la famiglia di Pietro Buffone (misteriosamente scomparso dopo la scarcerazione) e, in ultimo, la famiglia stessa del morto la quale ha avuto il torto di avere offeso tutte e tre le altre famiglie.
Quale famiglia si è vendicata contro questa quarta che ha offeso gravemente queste altre tre?
Con queste premesse si apre il dibattimento, durante il quale molti testimoni esprimono dei seri dubbi circa le facoltà mentali di Antonio Mazza, visto che i genitori, una sorella e un cugino sono malati di mente e così si decide di sottoporlo a perizia nel manicomio di Barcellona Pozzo di Gotto.
Dopo 30 mesi di internamento gli specialisti stabiliscono che Antonio Caputo è sano di mente e al momento dei fatti era pienamente cosciente delle proprie azioni:
Quando si pensi che considerazioni d’indole morale avrebbero dovuto distoglierlo da quel mostruoso delitto, dal modo di averlo consumato e dal modo come nascondere il cadavere, si può valutare come l’elemento di controllo e di contrasto all’impulso sia stato vivo ed attivo al suo spirito, consentendogli il libero esercizio della sua volontà e dando perciò al suo atto i requisiti sufficienti dell’imputabilità.
Vi è nel modo di difendersi del Caputo tutta la consapevolezza del suo fatto; egli si è irrigidito e mantiene coerentemente la sua posizione di innocente, adagiandosi sul piano che il padre della vittima lo crede innocente, che gli dimostra affetto (dice lui) e su un alibi che la giustizia sventò con le stesse prove testimoniali da lui invocate.
Libertà e coscienza non mancarono al Caputo nell’atto di delinquere, egli ubbidì ad un fato inerente alla sua costituzione le cui radici si protendono ai suoi genitori, alla sua famiglia, egli è un degenere, il suo atto poté superare l’intenzione ma non perde però gli altri caratteri di un atto libero e cosciente e fu l’atto più naturale e logico dal punto di vista della psicologia del suo autore.
Sembrerebbe, a questo punto, che le porte del carcere debbano chiudersi alle spalle dell’imputato per un bel po’ di anni ma il sei marzo 1926, ormai tre anni dopo l’omicidio, la Corte, al primo quesito posto dal Presidente
Sussiste il fatto che il 9 aprile 1923 in contrada Tavolaro, agro di Mendicino, Sansone Vincenzo ricevette tre colpi di scure, dei quali due alla regione parieto-temporale sinistra ed una al collo, ledendo il tavolato osseo, il cervello e le vertebre cervicali, quali lesioni furono causa unica ed ed esclusiva della di lui morte?
La risposta è presa a maggioranza ed è: NO.
Cioè l’omicidio di Vincenzo Sansone non è mai stato commesso. Gli altri quesiti sulla colpevolezza o meno di Antonio Caputo sono perfettamente inutili, IL FATTO NON SUSSISTE.[1]
Abbiamo scherzato. Vincenzo Sansone non è mai stato aggredito, la sua testa non è mai stata quasi recisa dal collo e il suo corpo non è mai stato ritrovato nascosto sotto un cumulo di pietre.
O forse no. Se nessuno lo ha colpito, Vincenzo ha fatto tutto da solo: si è quasi decapitato a colpi di ascia e poi si è coperto di pietre.
Si, deve essere andata proprio così, in fondo Vincenzo era semi idiota e da persone come lui ci si può aspettare di tutto…

 

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