È uso a Dipignano che nel cambiare colonìa, il nuovo colono prenda in consegna gli animali del nuovo fondo il 29 giugno, per trasferirsi definitivamente il 2 settembre successivo.
Così Santo Miceli, attenendosi scrupolosamente alla consuetudine, il 29 giugno 1924 prende in consegna gli animali dei signori Serra, custoditi nel fondo Gicanta. Al contrario, Raffaele Orlando, colono uscente di quel fondo, prende in consegna gli animali custoditi nel fondo Ciciarusso, di proprietà della famiglia Capocasale.
Santo Miceli, avendo in colonìa anche un altro terreno, manda il figlio tredicenne Antonio a custodire gli animali nel nuovo fondo. Sempre seguendo la consuetudine, il ragazzo prende alloggio nella casa colonica dove abita ancora la famiglia di Raffaele Orlando, mentre quest’ultimo si trasferisce a sua volta nel fondo Ciciarusso.
Antonio si trova così a convivere con la moglie del vecchio colono, la cinquantasettenne Vincenza Mandarino, e la loro figlia, la diciassettenne Antonietta.
Il ragazzo ha notoriamente la lingua lunga, parlando e sparlando di questo e di quello, tanto da tirarsi dietro parecchie minacce di bastonatura da parte dei paesani e quando si accorge che la notte, mentre credono che lui stia dormendo, le due donne ricevono in casa il sessantenne Gennaro Greco, cerca di approfittare della situazione:
– Antoniè, vedi che me ne sono accorto…
– Accorto di cosa? – gli risponde la ragazza sgranando gli occhi.
– Lo sai… lo sai… io dormo con un occhio solo, ricordatelo…
– Non capisco dove vuoi arrivare.
– Voglio arrivare che la devi dare pure a me!
– Tu sei pazzo! Chissà che ti sogni la notte e poi vieni a rompere i coglioni a me.
– Sì sì… io sogno… te l’ho detto, o me la dai o ti sputtano in pubblico – la minaccia.
– Vedi se devi andare a pascere le pecore, stronzo! Ancora ti puzza la bocca di latte e già vuoi fare il grande, stai attento a quello che ti esce da quella fogna ché se no ti faccio rompere il culo.
Antonio sembra calmarsi e la cosa sembra finire lì. Poi un pomeriggio torna in paese e con la sua solita strafottenza prende in giro tutti. In particolare si accanisce contro Caterina Miceli, contro le due figlie di Giuseppe Presta e contro Francesco Greco, chiamandolo pisciasotto e mezzo uomo, sapendo perfettamente della sua condizione di ermafrodito. Antonio non si preoccupa affatto delle minacciose promesse di bastonate e coltellate e va per la sua strada ridendo e scherzando. Quella notte va a dormire a casa con i genitori e la mattina dopo torna in campagna per accudire gli animali.
Durante l’assenza del ragazzo, Antonietta racconta alla madre e a Gennaro ciò che Antonio le ha detto:
– Si merita una lezione – osserva la madre.
– Una bella lezione! Quello è davvero capace di sputtanarci.
Gennaro ascolta pensieroso senza dire una parola, poi lui e Antonietta si occupano di faccende più piacevoli.
Alle dieci di sera del 12 luglio 1924 Santo Miceli bussa alla porta della Caserma dei Carabinieri di Dipignano e con fare insistente chiede di parlare col Maresciallo Francesco Longo:
– Marescià non posso trovare mio figlio Antonio. Stamattina le pecore erano al pascolo da sole e lui non c’era. Oggi pomeriggio gli animali sono tornati da soli all’ovile… siamo stati alla casetta e non era nemmeno lì, che devo fare? Sono molto preoccupato…
– Miceli, vedrete che tornerà… andate a casa a dormire, se ne parla domani mattina – cerca di rassicurarlo il Maresciallo. Santo se ne va ma non è per nulla rassicurato. Lui, suo genero e qualche amico continuano a cercarlo per tutta la notte. Inutilmente.
La mattina del 13, verso le otto, a bussare alla Caserma è il genero di Santo, Giovanni Nardi. È sconvolto. Antonio è stato trovato morto un’ora prima!
I Carabinieri, accompagnati dal medico Venanzio Spada, seguono Giovanni Nardi fino alla contrada Icanto dove, scendendo lungo una stretta gola, arrivano ad una piccola spianata circondata da tre enormi massi a picco: lì c’è il cadavere di Antonio.
Il ragazzo giace in posizione supina, la testa reclinata sulla spalla sinistra e le braccia piegate a toccare il viso da entrambi i lati. Accanto al corpo c’è il cappello di paglia del ragazzo. Ad un primo esame non mostra segni evidenti di violenza e tutto lascia pensare a una morte naturale, forse una caduta.
Il Maresciallo Longo, però, ha la sensazione che le cose non siano così chiare come appaiono. Sono il cappello di paglia e i vestiti di Antonio a dargli questa sensazione: il cappello sembra essere stato poggiato a terra con cura, più che caduto dalla testa del ragazzo e i vestiti sono puliti e in ordine. Quando il medico scosta le mani del cadavere dal viso, i sospetti di Longo aumentano: il viso, ora scoperto, è fortemente cianotico, le labbra sono tumide, annerite e cosparse di bava mista a sangue nerastro. Sulla tempia destra una piccola ferita. Il dottor Spada ordina che il corpo sia girato ed è subito evidente che non si tratta di morte naturale ma di omicidio: attorno al collo c’è una lividura circolare blu tendente al nero e, poco più sotto, i segni di due unghiate. Per il medico non ci sono dubbi: Antonio è morto per strangolamento.
Longo effettua anche una perquisizione nella casupola dove dormiva il ragazzo e trova qualcosa di strano: le lenzuola del letto sono macchiate di urina, cosa alquanto strana per un ragazzo di tredici anni. Che sia stato strangolato mentre dormiva? Questa ipotesi deve per forza far sospettare delle due donne che dormivano con lui e Longo le interroga sul posto, ma non trova niente di strano nelle loro risposte e lascia perdere.
Tornato in paese, il Maresciallo trova in caserma Giovanni Nardi, il cognato della vittima, che gli esplicita i suoi sospetti circa gli autori dell’omicidio e gli racconta delle lamentele che Giuseppe Presta, Caterina Miceli e Francesco Greco gli hanno fatto per il comportamento sbafaldo e fortemente offensivo di Antonio. Aggiunge anche di essere a conoscenza che i tre, in vario modo, avrebbero minacciato di morte il cognato se avesse continuato col suo modo di fare. Il Maresciallo Longo non perde tempo e mette in stato di fermo i tre che si difendono strenuamente protestandosi innocenti, ma dalla camera di sicurezza vengono portati nel carcere di Cosenza in attesa di trovare elementi di prova a loro carico.
Le indagini vanno avanti, ma i giorni passano senza che a carico dei sospettati emerga uno straccio di indizio oltre le minacce che qualche testimone ha sentito e riferito ai giudici. Troppo poco per portare uno dei tre a processo e troppo poco per farli restare in carcere, eppure ci restano.
Il Maresciallo Longo, però, ha sempre in mente il particolare delle lenzuola sporche e comincia a indagare anche in quella direzione, così scopre la tresca tra Antonietta e Gennaro Greco, consenziente la madre della ragazza. Un particolare lo induce a continuare in questa direzione: Gennaro Greco è il padre di Francesco, uno dei sospetti autori dell’omicidio. “Qualche cosa di strano ci deve essere in questa coincidenza” pensa Longo.
– Io con Gennaro Greco? Ma quando mai! Semmai facevo l’amore col figlio Francesco – risponde Antonietta quando il Maresciallo la interroga in caserma.
– Io non ho mai fatto l’amore con lei – afferma Francesco dal carcere.
– Mente. È successo a casa mia quando abbiamo ammazzato i maiali.
– Mente lei. Io in quella casa non ci sono mai stato. La volta che hanno ammazzato i maiali c’era mio padre, non io.
“È questa la pista giusta” pensa Longo il quale, nel frattempo, riceve le confidenze di due donne che affermano di aver visto, tra le 7,30 e le 8,00 del 12 luglio, Antonietta raggruppare il gregge di Antonio che stava brucando il suo granone e spostarlo in un altro fondo.
Ma nonostante gli sforzi non si riesce a trovare niente altro e tutto rimane troppo vago per portare qualcuno a processo. Quando ormai è chiaro che si arriverà all’archiviazione del caso, ecco che accade ciò che non ti aspetti.
Carcere di Cosenza: Francesco Greco ha un attimo di smarrimento, si prende la testa tra le mani e, piangendo sommessamente, dice tra sé e sé: “Io innocente devo restare in carcere e l’assassino è libero… se non esco subito dico tutto…”. Non si accorge, però, che non è da solo. Ad ascoltarlo c’è un certo Annunziato Marino che è stato appena arrestato per un furto da niente.
Marino aspetta che Francesco si calmi e gli chiede il nome dell’assassino ma non riceve risposta. Poi, quando Francesco si addormenta, chiama una guardia e sottovoce gli racconta il fatto.
Francesco Greco viene subito chiamato dal Giudice e messo a confronto con Marino che gli ripete ciò che ha sentito e l’altro abbassa la testa restando in silenzio. Tutti si guardano tra loro aspettando una parola, tutti capiscono il travaglio interiore di Francesco e restano in silenzio. Poi il giovane scoppia a piangere e tra i singhiozzi farfuglia:
– Ma io non posso andare contro…
– Contro chi? – lo incalza il Giudice, sperando che sia il momento buono.
Francesco tira su col naso, si asciuga le lacrime col dorso delle mani, fa un lungo respiro e confessa:
– Dirò tutta la verità: l’assassino di Antonio Miceli è mio padre!
– Tuo padre? – gli fa, quasi incredulo, il Giudice.
– Mio padre – conferma –- Quella mattina, era molto presto, stavo portando le mie pecore al pascolo e sono passato dal fondo Gicanta. Antonio era con i suoi animali poco più sotto della casetta dove dormiva, poi è arrivato mio padre che si è messo a discutere animatamente col ragazzo. A un certo punto lo ha preso per il collo e Antonio ha cominciato a dibattersi e quando non si è mosso più se l’è caricato sulle spalle e si è allontanato verso il posto dove la mattina dopo hanno trovato Antonio…
Gennaro Greco viene immediatamente arrestato. Si dichiara innocente e dice di non sapersi spiegare perché il figlio lo accusi di una cosa così orribile. Il Giudice decide di mettere a confronto padre e figlio:
– Sei stato tu a uccidere Antonio Miceli, non puoi negarlo. Ti ho visto afferrarlo per la gola e poi caricartelo sulle spalle e allontanarti.
– Tu sei pazzo, figlio mio! Vuoi far condannare tuo padre che è innocente…
– Non farei una cosa così terribile se non ti avessi visto uccidere…
– Devo restare in carcere io? Allora è bene che si sappia che a pagare per il ragazzo devi essere tu con Vincenza Mandarino e sua figlia Antonietta. Dimmi, non sei andato tu a dormire con le due donne nella notte tra il 12 e il 13 luglio? Ricordo che quella sera, quando venne Santo Miceli a casa mia, tu eri là. Fu quella notte che dovete aver portato il cadavere dove lo hanno trovato.
– Tu mi hai mandato quella sera dalle donne dicendomi che avevano paura e io ci sono andato controvoglia per non tradirti. Tu l’hai fatta e tu devi piangerla e non puoi pretendere che io resti in galera innocente!
– Forse qualcuno ti ha suggerito di accusarmi… sono state le due donne? Mi ero accorto che facevi all’amore con Antonietta, o meglio che stavi sempre insieme a lei.
– Sei tu che te la facevi con la ragazza!
– Mi stai accusando sapendomi innocente!
– È inutile che tu insista, papà, io ho detto la verità e continuerò a dirla!
Il Giudice, ispezionando con Francesco Greco il luogo dove sarebbe stato commesso l’omicidio e il posto dove lui dice di essersi trovato in quei momenti, si convince completamente della veridicità delle accuse di Francesco contro il padre e si convince anche che le due donne debbano essere state complici dell’omicidio o che addirittura ne siano state le mandanti per impedire che la lingua lunga di Antonio potesse disonorarle. Anche Vincenza Mandarino e Antonietta Orlando vengono arrestate e, ovviamente, si protestano innocenti.
Che ci siano stati rapporti intimi tra Antonietta e Gennaro adesso lo confermano anche dei testimoni che si presentano spontaneamente e, alla luce di tutto ciò, anche una sorella del povero ragazzo adesso è in grado di spiegarsi le parole dette da Vincenza Mandarino un giorno prima dell’omicidio e che invece avevano indotto lei e suo marito Giovanni Nardi a pensare che fossero rivolte contro Giuseppe Presta: Avverti tuo fratello perché è scostumato e un giorno o l’altro lo ammazzeranno… qua alla montagna ci sono cosi tinti e lo ammazzeranno…
A proposito di Giuseppe Presta e Caterina Miceli bisogna dire che, nonostante le dichiarazioni di Francesco Greco e le prove portate a proprio discarico, continuano a restare in galera e a niente valgono le istanze degli avvocati difensori per farli rilasciare.
Ci vorrà il 31 marzo 1925 per tornare a casa. Infatti la Sezione d’Accusa nella sentenza di rinvio a giudizio per omicidio premeditato nei confronti di Gennaro Greco, Vincenza Mandarino e Antonietta Orlando, riconosce, su richiesta del Procuratore del re, l’estraneità ai fatti per gli altri tre imputati e ordina il non luogo a procedere nei loro confronti.
Il 13 marzo 1926 si apre il dibattimento che riserva molte sorprese: prima tra tutte l’accusa dell’omicidio di un mendicante, avvenuto anni prima, che Francesco Greco rivolge al padre. Ma la difesa insorge e chiede l’acquisizione del fascicolo processuale per smontare la nuova accusa e inoltre confuta la validità legale dell’accusa fatta in istruttoria dal figlio contro il padre perché non è stata raccolta secondo le regole procedurali. Non solo: Francesco Greco, a termini di legge, non può nemmeno testimoniare nel dibattimento.
Il Presidente, richiamando l’articolo 149 del Codice di Procedura Penale vigente, riconosce che Francesco Greco, non potendo rivestire la qualifica di denunziante, non può testimoniare nel dibattimento ma stabilisce, tra le proteste della difesa, che sia data lettura del verbale di confronto tra padre e figlio.
Questa pregiudiziale è il colpo di grazia al processo: se non è valida l’accusa non c’è colpevole.
Il 30 marzo 1926 la giuria assolve Gennaro Greco per non aver commesso il fatto e di conseguenza anche le accuse contro le due donne vengono a cadere.[1]
I CAMINANTI-Quando gli zingari rubavano galline
[1] ASCS, Processi Penali.
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