IL PAZZO DI PATERNO

– Michè, ha detto papà se puoi venire a casa nostra ad aiutarlo che zio Francesco sta dando i numeri – così il figlioletto di Salvatore Arabia riferisce il messaggio del padre a Michele Nerino, il quale, conoscendo bene la situazione, si alza dalla seggiola messa davanti al fuoco, si mette addosso il mantello e si avvia col bambino.
È la sera del 17 febbraio 1937 in contrada Patrocia di Paterno Calabro. Francesco Arabia, cinquattottenne contadino, è da molti anni che manifesta segni di labilità psichica, fin dal 1904 quando fu ricoverato per due mesi in una casa di salute di Saint Louis in Missouri con la diagnosi di “alienazione mentale”. Poi nel 1914 torna in patria e viene richiamato al fronte ma viene presto esonerato per attendere ai lavori agricoli. Di lui, in paese, nessuno si è mai lamentato più di tanto perché non ha mai avuto manifestazioni violente ma quando gli vengono le crisi, e ultimamente queste si sono molto ravvicinate, il fratello Salvatore ha paura che possa combinare qualche guaio e lo tiene chiuso in un basso finché non si calma.
– Michè, stanotte è bene guardarlo, non so che gli è preso… è diverso dal solito… l’ho tenuto chiuso fino a poco fa, poi si è calmato e l’ho fatto salire in casa… – Michele guarda con attenzione il comportamento di Francesco e nota anche lui che è diverso dal solito quando se ne sta seduto su di una sedia a fare ragionamenti strampalati tra sé e sé: adesso è irrequieto, gira in tondo per la stanza senza fermarsi mai, pronunciando parole sconnesse, disinteressandosi completamente delle persone e delle cose che gli sono accanto – ma domani mattina vado dal sindaco che si deve occupare del caso, io non sto più tranquillo…
I due uomini si siedono vicino al fuoco a parlottare, dando sempre uno sguardo a Francesco che continua il suo girotondo. Fuori piove incessantemente e un paio di volte Francesco vuole uscire davanti alla porta per urinare, poi riprende a camminare in tondo. Verso le 4,00 chiede di nuovo al fratello di poter uscire a pisciare e Salvatore gli apre la porta. I due uomini sono quasi vinti dalla stanchezza e non si rendono conto che Francesco sta impiegando troppo tempo per soddisfare il suo bisogno, poi scattano in piedi come folgorati e si precipitano fuori, ma di Francesco non c’è traccia. Lo chiamano nel buio ma non ottengono risposta e si mettono a cercarlo per le campagne circostanti sotto la pioggia battente. Niente, Francesco sembra essersi volatilizzato. Verso le 5,30, sconfortati, i due ritornano alle proprie case e Salvatore esprime il proposito di andare dai Carabinieri non appena fatto giorno. E così fa, ma non appena entra in paese nota uno strano stato di agitazione generale. Una sua nipote lo ferma e gli racconta quello che è appena successo:
– Stavo prendendo l’acqua alla fontana quando ho visto zio Francesco sulla strada, con un grosso bastone in mano che fermava Pietro Caputo che stava andando all’esattoria e gli diceva: Voltati… voltati se no ti meno… ma non ha aspettato che Pietro si voltasse e gli ha mollato due o tre bastonate in testa. Il poveretto è stramazzato al suolo e zio Francesco è scappato.
– E Pietro come sta? – le chiede, preoccupato, Salvatore
– Ha due bernoccoli, tutti e due gli occhi neri e un taglio, ma sta bene.
Nel frattempo, Francesco, andando verso casa incontra il fruttivendolo Antonio Viola e la contadina Carolina Greco, i quali stanno andando in paese.
– Tornate indietro, di qui non si passa, oggi comando io! – dice ai due con tono minaccioso, tenendo il bastone con tutte e due le mani.
– Non posso tornare indietro, devo andare in paese a comprare il sale, fammi passare – gli risponde Carolina, sapendo delle stranezze di Francesco, senza temerlo perché è sempre stato innocuo.
– Io non mi volto nemmeno perché me ne devo andare a casa, vattene a casa pure tu – le fa eco Antonio.
Francesco, senza pronunciare una parola di risposta, all’improvviso vibra un violentissimo colpo di bastone sulla testa del fruttivendolo che cade tramortito a terra, poi continua a colpirlo, nonostante le implorazioni di Carolina per farlo smettere. Quando Francesco smette di colpire il povero Antonio rivolge le proprie attenzioni alla donna, colpendo anche lei, ma il primo colpo serve solo a farle cadere dalla testa il cesto pieno di cavoli che sta andando a vendere, poi, una volta che la donna è a terra, la colpisce sulla testa e se ne va.
Poco dopo passano alcune persone che soccorrono i due feriti, li accompagnano in paese e li fanno curare dai due medici che ci sono.
Francesco è ormai vicino casa quando incontra sulla sua strada Michele Frangella e ripete anche a lui più o meno le stesse parole dette agli altri.
– Torna indietro, di qui non si passa, oggi comando io!
Ma questa volta non aspetta nemmeno la risposta. Ha visto sotto il braccio del malcapitato un pacchetto e chissà che pensa possa essere. È un attimo e i colpi di bastone si abbattono violenti sul capo di Michele che cade a terra e rimane immobile. Da una casa a un centinaio di metri di distanza una donna vede tutto e si mette a urlare. Accorre gente. Francesco, raccolto il pacchetto caduto alla sua vittima, si mette a correre verso casa inseguito da un paio di uomini che lo raggiungono, lo disarmano e lo portano a casa.
– Ma che ti è venuto in mente? Perché lo hai colpito? – gli chiedono. Francesco apre l’involto, tira fuori una sveglia e, mostrandola a tutti, risponde:
– Mi voleva sparare con questa mitragliatricee adesso con questa mitragliatrice ammazzo anche voi!
I due uomini si guardano e capiscono che Francesco non è più il solito uomo che fa delle innocenti stranezze, ma qualcosa deve essere successo nella sua testa e così, per evitare ulteriori guai, lo chiudono nel basso dove di solito lo chiude il fratello.
Le condizioni di Michele Frangella appaiono subito molto gravi ai medici che lo visitano: frattura di entrambi gli zigomi, del naso e sospetta frattura della base cranica. Il poveretto morirà nel giro di poche ore.
Francesco Arabia viene portato nel carcere di Cosenza ma in cella diventa di nuovo violento, tanto da costringere il medico a dare l’ordine di assicurarlo al letto di contenzione e a fare subito la richiesta di ricovero in un manicomio giudiziario.
Il 12 aprile 1937 per Francesco si aprono le porte del manicomio di Barcellona Pozzo di Gotto.
– Come si chiama questo luogo? – gli chiedono i dottori Vittorio Madia e Giuseppe Messina Benedetti, incaricati di eseguire la perizia psichiatrica.
Palazzo Sanita, a nessuno pò sparà – risponde.
– Chi sono io? – gli fa uno dei medici.
Cosa bianca, questo costa mille lire – risponde indicando il camice del medico.
– Dove vi trovate?
A Cosenza nuova.
– Quanto fanno dieci più quindici?
Trentuno.
– Chi è questo signore? – chiede un medico indicando l’altro.
Può essere della famiglia reale
– Ed io chi sono?
Umberto Primo.
– Chi è il capo del governo?
Prima Gesù Cristo e poi l’Eterno Padre
– Come mai vi trovate qui?
Per prendere la misura della cavalleria.
– Perché vi hanno portato qui? – insiste il medico.
– Ci sono venuto solo, meglio mi presento, se no non va bene
– Sentite qualcuno vi fa dei discorsi quando siete solo?
Si, specie la notte, ma anche di giorno.
– Che vi dicono?
Tu devi sortire a forza, tutte le spese le pago io
– Chi ve lo dice?
Io dico che sono persone altezze reali… – poi Francesco si raccoglie improvvisamente su sé stesso e, coprendosi il volto con le mani, continua – vedo Castagnevizzele pecore
I medici gli fanno vedere la fotografia doppia, di fronte e di profilo, che gli hanno fatto al suo ingresso in manicomio e gli chiedono chi è l’uomo ritratto – Umberto PrimoMaria di Savoia
I medici, durante l’osservazione del paziente annotano che è spesso preda di crisi violente, a cui è impossibile trovare motivi adeguati. L’azione è dunque bizzarra, incoerente, contraddittoria, stolida, automatica e soprattutto impulsiva per difetto abnorme di ogni capacità inibitoria e volitiva. È ad uno di questi stati che si deve, indubitatamente, il delitto, il quele è esploso da un sintomo del suo stato morboso. (…) Perché egli ha obbedito ad una idea delirante attiva che gli è passata per la mente, suggeritrice di atti delittuosi: idea imperativa!
Idea delirante, dunque, a tipo espansivo ed a carattere imperativo, questo il sintomo che produsse il delitto; sintomo facile ad aversi e facile a prevedersi, sintomo assai comune non soltanto nei dementi precoci, ma anche nella follia alcoolica e sifilitica, nella paranoia e nella paralisi generale progressiva.
I medici escludono che possa trattarsi di delirio alcolico perché Francesco non è mai stato dedito al vino e, d’altra parte, è anche negativo al test della sifilide, così come non è affetto, di conseguenza, da paralisi generale progressiva, cioè una meningo-encefalite sifilitica.
È paranoia? I medici escludono anche questa patologia perché i sintomi si manifestano con l’età matura, mentre in Francesco i primi segnali si manifestarono già nel 1904, all’età di 25 anni, quando fu ricoverato negli Stati Uniti.
Resta, a questo punto, solo la demenza precoce, alla quale i medici aggiungono che si tratta di una varietà paranoide, il cui sintomo più evidente è proprio l’idea imperativa a cui ha obbedito: oggi comando io!
Quindi Francesco, nel momento in cui commise i fatti era in uno stato mentale tale da escludere la sua capacità di intendere e di volere, concludono i periti.
L’11 luglio 1937 il Tribunale di Cosenza, vista la perizia psichiatrica, emette la sentenza di non luogo a procedere nei confronti di Francesco Arabia per infermità mentale e ne dispone il ricovero in un manicomio giudiziario per un periodo non inferiore a cinque anni.[1]

 

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