LA MONTAGNA ASSASSINA

La sera del 28 febbraio 1949, Antonio Salerno, quarantaduenne segantino di Longobucco, si presenta dai Carabinieri del suo paese per denunciare che una settimana prima, mentre tagliava legna in montagna per conto della Società Anonima Feltrinelli, ha subito il furto del suo vecchio fucile da caccia calibro 12 a retrocarica, difettoso, sulle cui canne è stampata in nero la dicitura MITRO STEL. Nonostante le indagini, i Carabinieri non riescono a trovare né il fucile e né tantomeno l’autore o gli autori del furto.
Passano sei mesi buoni quando, il 6 settembre, Natale Grillo, operaio della Feltrinelli, esce dalla baracca che occupa in contrada Seminato della Mimosa, nella montagna tra Rossano e Longobucco, per andare a tagliare legna in contrada Aria del Pino. Vede IL suo collega Giuseppe Spanò parlare con gli operai di un’altra ditta forestale e saluta, poi prosegue, deviando dal viottolo che sta percorrendo per soddisfare un bisogno corporale. Continua il cammino per scorciatoie fino alla Caserma della Guardia Forestale in località Rinacchio e qui riprende il viottolo solito. Passa accanto alle baracche, vuote, occupate da altri operai e finalmente arriva sul posto di lavoro, ma gli viene ordinato di tornare indietro per sbrigare altre faccende. Bestemmiando, ritorna sui suoi passi. Ripassa davanti alle baracche e questa volta incontra un certo Giulio Tordino col quale fa insieme la strada. Sono ormai le 7,00. I due camminano per un’altra mezzoretta, fino a un’altra baracca, poi si salutano. Tordino rimane lì e Grillo prosegue.
– Prendi la scorciatoia – gli consiglia Tordino
– No… ormai me la prendo comoda… – gli risponde Grillo che prosegue lungo il sentiero. Non percorre nemmeno trecento metri quando nota qualcosa che prima non c’era: un uomo disteso per terra e due sacchi strappati dai quali fuoriescono degli oggetti. Si avvicina e, con grande sorpresa, riconosce nell’uomo suo suocero, Salvatore Bauleo, ormai cadavere. Gli hanno sparato. Col cuore in gola corre verso la caserma della Guardia Forestale e dà l’allarme.
Il Maresciallo Maggiore Alessandro Napoli si precipita sul posto con i suoi uomini e constata che il cadavere, disteso in posizione supina, presenta numerose ferite in varie parti del corpo, prodotte da pallini da caccia e un bozzo in testa, evidentemente causato da un corpo contundente. A circa dieci metri dal corpo, due sacchi manomessi in modo evidente, contenenti alcuni pacchi di pasta, cibi in scatola e altri generi alimentari. “L’assassino, o gli assassini, deve essersi appostato dietro quell’albero e gli ha sparato appena lo ha avuto a tiro, ma con i pallini che ha in corpo non è certo morto. Di sicuro, quando il poveretto è caduto, gli si è avvicinato e lo ha finito con il dorso di un’ascia… si deve essere stata un’ascia, qui in montagna ne girano a volontà…” pensa.
– Bauleo – precisa il direttore della Società – era incaricato di recapitare nel cantiere montano la somma di 613.000 Lire per pagare una parte degli operai della ditta. Ovviamente della somma di denaro non c’è traccia.
È evidente che chi ha ucciso Bauleo era a conoscenza del fatto che trasportava le paghe degli operai e che teneva i soldi in uno dei sacchi.
Le indagini partono stabilendo che come attestano due Guardie Forestali, le quali hanno incontrato Bauleo alle 6,00 vicino alla Caserma, ed il genero, il quale passò dal luogo del delitto poco dopo le 6,00 non vedendo niente e poi ripassò verso le 7,30 trovando il cadavere, l’omicidio deve essere stato commesso tra le 6,30 e le 7,00 perché altrimenti il genero stesso avrebbe udito lo sparo. Viene interrogato il bottegaio presso il quale solitamente vengono acquistate le vettovaglie per gli operai e questi conferma che Bauleo la sera prima, fatti gli acquisti, ha messo in un sacco un involto contenente i soldi. Uscito dalla bottega si è fermato a parlare con un certo Antonio Spina, altro operaio della Feltrinelli che ha smesso di lavorare da appena due giorni. Il Maresciallo Napoli decide di metterlo in stato di fermo per vagliare la sua posizione. Vengono fermati anche Giulio Tordino perché contrariamente al solito ha passato la notte in montagna nei pressi del luogo del delitto e altre persone che, a vario titolo, si trovavano in quei pressi, ma a carico di queste persone non emergono elementi a carico e vengono prontamente rilasciate. Poi viene fermato Giuseppe Spanò per il quale pende anche un mandato di cattura per tentato omicidio.
Un testimone, il mulattiere Antonio Aloe, dichiara che la sera prima del delitto, verso le 21,00, incontrò quattro uomini con dei sacchi in spalla che salivano verso la montagna.
– Andate a funghi? Gli chiesi, ma nessuno dei quattro – che non ho potuto riconoscere per il buio – mi ha risposto. Un particolare però mi è rimasto impresso: uno dei quattro era molto alto.
C’è un fatto strano che attira l’attenzione del Maresciallo Napoli. La mattina del delitto sono stati notati a confabulare tra di loro sulla spiaggia di Rossano tre noti pregiudicati: Giuseppe Blasco, Gennaro Visciglia e Salvatore Galluzzi. Napoli non perde tempo e li mette in stato di fermo. Le loro dichiarazioni su come hanno passato le prime ore del mattino, suffragate da alcune donne ben conosciute alla giustizia, non convincono il Maresciallo, soprattutto perché sui loro indumenti vengono trovate delle macchioline che sembrano di sangue e per la statura di Salvatore Galluzzi, ben superiore alla media. Poi, con la testimonianza di due pastori, c’è la certezza quasi assoluta sull’ora del delitto: le 6,30, 6,35 al massimo. I tre pregiudicati sono stati notati insieme a Rossano dopo le 8,00, un lasso di tempo sufficiente per percorrere la strada dal luogo dell’omicidio fino alla città. Il fermo viene tramutato in arresto.
Anche per Giulio Tordino cominciano a sorgere seri dubbi sugli orari che ha indicato per giustificare la sua presenza sul posto. Il sorvegliante capo della teleferica della ditta Feltrinelli sostiene di avere chiamato Tordino per interfono, dalle 6,00 in poi e ad intervalli di pochi minuti, ma che questi gli ha risposto solo verso le 6,50. Inoltre, durante una perquisizione domiciliare gli vengono trovate e sequestrate una camicia con una macchiolina, presumibilmente, di sangue su una spalla e un’ascia, reperti che vengono inviati a Bari per gli accertamenti scientifici del caso, che confermano la presenza di sangue sulla camicia, ma escludono che l’ascia sia quella utilizzata per dare il colpo di grazia al povero Bauleo.
Per Spanò ci sono solo vaghi sospetti, ma lui deve restare in carcere per l’altro mandato di cattura e molte altre ipotesi investigative non vengono nemmeno prese in considerazione.
Passano i mesi, poi il 12 luglio 1950, un fratello della vittima si presenta dai Carabinieri di Rossano mostrando una lettera anonima nella quale si afferma che all’omicidio non sono estranei tali Cosimo Avena, Giovanni Cetera e il già conosciuto Giulio Tordino e che per sapere di più si sarebbe dovuta interrogare la prostituta Anna Mentana.
Il Maresciallo Maggiore Giovanni De Domenico, nuovo comandante della stazione di Rossano, rintraccia la donna e si fa raccontare quello che sa:
– La sera del 5 settembre dell’anno scorso, con mia grande sorpresa, bussò a casa mia Cosimo Avena, che non mi frequentava più da un paio di mesi, dicendomi che mi doveva parlare. Dopo un po’ io aprii e ci fu uno scambio di parole abbastanza vivace, tanto che si affacciò sul pianerottolo Mastro Nilo che ci guardò senza parlare. A quel punto Avena se ne andò. Il giorno dopo, appena seppi dell’omicidio di Bauleo ho collegato subito la visita di Avena a quel brutto fatto. Quando, dopo qualche giorno, lo incontrai per strada, glielo dissi che quella era stata una coincidenza piuttosto strana e lui mi rispose che ad uccidere Bauleo non era stata gente di Rossano, ma le Guardie Forestali. Non posso fare a meno di dire che Cosimo Avena è intimissimo di Giovanni Cetera e i due sono sempre insieme ed erano insieme quando Cosimo mi disse che a uccidere Bauleo erano state le Guardie Forestali.
Anna Mentana, però, non spiega per quale motivo ha collegato la visita dell’ex amante all’omicidio. Mastro Nilo, da parte sua, conferma la dichiarazione della donna e De Domenico, sentendo puzza di bruciato, procede al fermo di Avena e Cetera.
Avena dichiara di non essere stato a casa della Mentana la sera del 5 settembre 1949 perché si trovava a Napoli per sbrigare alcune pratiche relative al suo espatrio e per comprare vestiti usati da rivendere a Rossano e di non avere mai fatto affermazioni circa l’omicidio di Bauleo alla Mentana, per il semplice fatto di non averla mai incontrata per strada.
Cetera afferma di non sapere nemmeno dove si trova la contrada dove è avvenuto l’omicidio perché in montagna non c’è mai stato. Ma viene smentito perché in molti lo hanno spesso visto lungo la strada che porta al Seminato della Mimosa.
Anche Avena viene presto smentito dalle indagini praticate dai Carabinieri di Napoli per verificare le sue affermazioni. Avena nella città partenopea è andato alla fine di ottobre 1949 e non i primi di settembre.
Poi De Domenico si imbatte in una testimone, una vicina di casa della madre di Anna Mentana, che gli riferisce cose molto interessanti:
– Dopo l’omicidio di Bauleo, Anna veniva spesso a casa della madre e, parlando ad alta voce,  minacciava Avena, Cetera e Tordino dicendo che avrebbe cantato tutto perché lo spirito del morto le faceva paura. “Statti zitta!” le diceva la madre, ma lei aggiungeva che Avena prima dell’omicidio non aveva avuto mai tanto denaro quanto dopo e di questo ne era certa perché aveva visto il suo portafogli sia prima che dopo l’omicidio.
Questa testimonianza dimostrerebbe che Anna Mentana sa molto di più di quello che ha detto e viene arrestata.
Ma tanto attraverso più precisi riscontri che attraverso deduzioni logiche del Pubblico Ministero, gli indizi contro i tre pregiudicati rossanesi, contro Avena, Cetera, Anna Mentana e Spanò cadono e Giulio Tordino rimane l’unico sospettato. A suo carico sembrano aggiungersi sempre più indizi.
Così, nelle sue richieste, il Pubblico Ministero chiede che ad essere rinviato a giudizio per omicidio volontario aggravato e rapina sia il solo Giulio Tordino e che gli altri, con varie formule, siano prosciolti. Il Giudice Istruttore di Rossano, accogliendo tali richieste, stabilisce che il processo dovrà tenersi presso la Corte d’Assise di Cosenza.
Il processo inizia il 29 dicembre 1951 e durerà cinque mesi, durante i quali viene tirato in ballo anche il fucile rubato in montagna qualche mese prima dell’omicidio senza, però, riuscire ad associarlo a chicchessia, non fosse altro perché non è mai stato ritrovato. Da parte loro, gli avvocati Pietro Mancini e Antonio Berlingieri smontano punto per punto le tesi dell’accusa e inoltre sostengono che se non si trovano le armi del delitto non è possibile condannare una persona solo in base a congetture e flebili indizi. La Giuria, il 4 giugno 1952, gli da ragione e assolve Giulio Tordino da tutte le accuse per non aver commesso il fatto.
Si sa che se non ci si copre bene l’aria di montagna può fare tanto male da uccidere…[1]

 

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