ARCANGELA NON VOLEVA MORIRE

Sulle colline alle spalle del paese di Longobardi c’è una delle proprietà dei signori Pizzini, denominata Bosco Rosso, che da sopra il centro abitato si estende fino alle pendici della montagna e termina in una piccola valle denominata Cariglio, che guarda verso il mare. Dall’altra parte di questa valle il bosco continua, ma la proprietà è dei signori Pellegrini. Gli abitanti del paese ci vanno per fare legna da ardere. I sentieri che lo attraversano sono abbastanza ripidi e per questo motivo chi ci va a piedi è costretto a trasportare solo una fascina alla volta. Ma non basta. Chi vuole andare a fare legna deve chiedere il permesso ad Arcangelo Provenzano, alias Lucifero, che fa il guardaboschi per conto dei proprietari e per arrivare alla piccola casa rurale dove Provenzano abita con la moglie e quattro figli, un maschio e tre femmine, deve attraversare la gola di Ritaro – dove in tempi antichi si andava ad uccellare ma che adesso è spoglia perché i proprietari hanno fatto tagliare tutti i frassini per farne travi  – attraversare i campi coltivati di contrada Palieri, lasciarsi dietro la strada che porta al monte Cocuzzo, scendere per un viottolo dove si incontra una sorgente d’acqua e quindi piegare a destra per il viottolo che arriva alla turra di Lucifero.
Ohi mà, mamma! – a chiamare sua madre è Arcangela Filippelli, robusta sedicenne di Longobardi. È figlia di Vincenzo e di Domenica Pellegrino, ma fin da bambina vive con la donna che l’ha allattata, Rosanna Bruno – ti volevo dire che devo andare a fare un po’ di legna ché l’abbiamo finita
– Stai attenta che c’è fango e si scivola – l’avverte. È domenica 7 febbraio 1869 e da poco è passato mezzogiorno.
Arcangela, scalza nonostante sia inverno, si incammina alla volta della turra di Lucifero in compagnia di Chiara Bruno che deve fare legna come lei. Lungo la strada incontrano un altro ragazzo, Giovanni Molinaro, e tutti e tre, ridendo e scherzando, arrivano dal guardaboschi, contrattano la legna, e partono verso il punto del bosco che Provenzano gli ha indicato. Con Arcangela, Chiara e Giovanni vanno anche i figli del guardaboschi per aiutarli nel trasporto. Antonio Provenzano è incaricato dal padre di provvedere al taglio della legna, ma siccome in casa non hanno una scure adatta, il ragazzo userà quella di Chiara Bruno.
Il posto dove devono tagliare la legna è proprio sul limitare del bosco, dalla parte della piccola valle. Dalla parte opposta, in linea d’aria non saranno che due o trecento metri, abita la famiglia di Francesco Garritano, guardaboschi dei Pellegrini. Francesco è davanti casa e vede, dall’altra parte della valle, un uomo, che riconosce essere Antonio Pellegrino dal modo di vestire e di muoversi, mentre sta tagliando la legna in compagnia di alcune donne che non riconosce; poi entra in casa.
Le fascine sono ormai pronte, Antonio le lega per bene e le donne se le caricano sulla testa, protetta dal tipico cerchio di stoffa. Le sorelle di Antonio si incamminano verso la propria abitazione, mentre Giovanni Molinaro e Arcangela prendono un sentiero più breve ma più ripido che li porterà in paese. L’accordo tra i due ragazzi è che lungo la strada si fermeranno a riunire le pecore che Giovanni custodisce e poi proseguiranno insieme. Fatti pochi metri, Arcangela si accorge che la sua fascina sta cedendo e le cadrà a terra tutta la legna:
– Giovà, me la leghi per bene? – chiede all’amico
– Facciamo una cosa – le risponde – io continuo a camminare, raccolgo le pecore e ti aspetto al Punituru. Tu torna indietro e fatti legare la legna da Antonio, così non perdiamo tempo che sta calando anche la nebbia.
E così fanno. Arcangela torna sui suoi passi e raggiunge Antonio che sta finendo di legare la sua fascina. La ragazza butta a terra la legna e aspetta che Antonio gliela sistemi per bene.
– Adesso che non c’è nessuno sarai mia! – le dice cercando di abbracciarla.
– Ma non dirlo nemmeno per scherzo! – replica lei, respingendolo.
– O per si o per forza – insiste.
– Muoviti a legarmi la legna che tra poco non si vede niente con questa nebbia – taglia corto Arcangela.
Dall’altra parte della valle Francesco Garritano spia dalla finestra. Ormai la nebbia è fitta e non si vede a un palmo dal naso. Tira una boccata dalla pipa e fa per andare a sedersi accanto al fuoco, quando gli sembra di udire delle urla. Apre la porta e tende l’orecchio. Proprio dal posto dove prima ha visto Antonio Pellegrino e le donne intente a tagliare legna, gli arriva l’eco di una voce di donna che implora pietà:
Lasciami, Antonio, non mi ammazzare… Antonio che ti ho fatto? Lasciami
Poi il rumore sordo di alcuni colpi. Di bastone? Di scure? Francesco non sa distinguerli anche perché quei colpi sono accompagnati da lamenti. Dopo qualche secondo non sente più nulla. C’è solo silenzio.
“Sicuramente Antonio ha trovato qualche donna che faceva legna e l’ha picchiata, ma, testa calda com’è, è possibile pure che l’abbia ammazzata!” pensa tra sé e sé.
– Domenica, dammi la scure, vado a vedere cosa è successo – ordina alla figlia, poi, avvoltosi nel mantello e calatosi il cappello sulla fronte, esce e si dirige verso il posto da cui provenivano le grida. A fare la strada a piedi per andare da una parte all’altra della valle, si deve percorrere circa un chilometro e mezzo e lungo il tragitto Francesco Garritano incontra un suo paesano, Nicola Zupi, che sta andando a tagliare un albero per conto del suo padrone e si fa convincere ad accompagnarlo, lasciando stare le grida che ha sentito.
Giovanni Molinaro ha finito di riunire le pecore ed è ormai mezz’ora che sta aspettando Arcangela. È quasi buio e non può tardare oltre, così si avvia verso casa certo che la ragazza stia tornando con i Provenzano dalla strada più lunga ma più comoda .
Quando Rosanna Bruno non vede tornare Arcangela si preoccupa e va a casa dei genitori, ma non la trova nemmeno lì. Domenica, la madre, temendo che sia successa una disgrazia, manda il genero a casa dei Provenzano per avere notizie, ma passano le ore e Carlo Coscarella non torna. Domenica decide di andare lei stessa e si fa accompagnare da Antonio Amendola, da Antonio Foco e dai suoi due figli maschi Nicola e Francesco.
In casa dei Provenzano ci sono soltanto il capofamiglia e le figlie, le quali cercano di indurre Domenica a pensare che Arcangela possa essere stata rapita da qualcuno con cui aveva appuntamento, ma Domenica non ci crede perché sa che sua figlia non sarebbe capace di scappare con chicchessia e comincia a sospettare che la ragazza sia stata disonorata o, peggio, uccisa. In questo frattempo entra in casa Antonio e Domenica gli chiede che fine ha fatto la figlia
– E che ne so? Quando me ne sono andato l’ho lasciata con Giovanni Molinaro.
– Accompagnaci che andiamo a cercarla – gli dice.
– Ma è notte… dove dobbiamo andare… domani mattina se ne parla…
Domenica non può, ovviamente, aspettare fino al mattino successivo e continua a insistere, ma Antonio non cambia atteggiamento finché la donna non lo mette davanti alle sue responsabilità:
– Mia figlia era con te e devi rendermi conto di quello che le è potuto succedere. Adesso muoviti e accompagnaci.
E finalmente Antonio si decide. Il gruppetto si incammina lungo i tortuosi e ripidi sentieri illuminando la via con una lanterna a petrolio. Camminano molto più del dovuto perché Antonio, con la scusa di non riconoscere la strada, fa fare loro dei giri assurdi. Urlano il nome della ragazza fino a perdere la voce e Domenica comincia seriamente a sospettare che l’uomo sia in qualche modo implicato nella scomparsa della figlia, ma è distrutta dalla fatica e il genero la fa fermare in una casetta rurale per riposare; continueranno lui e gli altri le ricerche. Le ore passano e finalmente il genero di Domenica torna dove l’ha lasciata, ma il suo viso non promette nulla di buono.
– Non l’abbiamo trovata… poi, a un certo punto Antonio ha preso la lanterna e gli si è spenta in mano e senza luce era inutile continuare. Riposeremo un po’ fino all’alba e poi ricominceremo le ricerche.
– È meglio tornare in paese e chiedere al sindaco di mandare le guardie a cercare con noi…
più siamo e meglio è – consiglia Domenica, e così si decide di fare.
All’alba, un nutrito gruppo di paesani e di guardie comincia a battere i sentieri che da Longobardi portano a Bosco Rosso. Adesso non ci possono essere più scuse. Ogni angolo viene ispezionato. Ad arrivare per prima sul posto dove era stata tagliata la legna è proprio Domenica. Nota qualcosa di strano sulla corteccia di tre alberi. Sembrano graffiature e delle strane macchie scure. Anche il terreno sembra calpestato in modo anomalo. La donna, col cuore in subbuglio, ispeziona per bene tutto intorno e lo sguardo le va su ciò che non avrebbe mai voluto vedere: il cadavere di Arcangela!
È quasi irriconoscibile col volto sfigurato da chissà quanti colpi ricevuti. Nota che ha un orecchio tagliato a metà e manca proprio la metà dove era appeso un orecchino d’oro. Non vede altro perché cade a terra piangendo e abbracciando la sua creatura strappatale in modo così orrendo.
Poco dopo arriva altra gente e le voci di richiamo per fare arrivare le guardie si rincorrono nel bosco. Arcangela viene portata al cimitero in attesa del Vicepretore di Fiumefreddo e del medico che dovrà eseguire l’autopsia.
Sul terreno umido restano evidenti numerose impronte di piedi di donna scalzi e altrettante di piedi calzati con le purcine e molte pozze di sangue. Nel frattempo la voce del ritrovamento si sparge veloce e non c’è una sola persona che non pensi ad Antonio come autore di quella barbarie, così le guardie lo mettono in stato di fermo.
Il compito dei dottori Giuseppe Riccio e Carlo Laggio è ingrato ma necessario per capire ciò che è successo ad Arcangela. L’elenco delle ferite è lungo: Il dito indice, il medio e l’anulare presentano una incisione nelle prime falangi, parte superiore, che penetrava fino alla parte ossea, e tutte queste venivano prodotte da un medesimo colpo di scure. Il dito pollice della medesima mano mostra un taglio prodotto da istrumento tagliente nella sua parte interna, e ciò poteva succedere per stringimento che la morta poteva pratticare di qualche arma tagliente, tale ferita penetra pure fino all’osso. Sul capo dell’omero si vede una ferita prodotta da colpo di scure, lunga due pollici, che penetrava tanto da incidere per poco il capo dell’omero sinistro. Ferita lunga sei linee e profonda tre appariva nel terzo superiore dell’omero su cennato, prodotta da istrumento pungente e tagliente a doppio taglio. Altra simile un pollice sotto della stessa, ambedue parte superiore. Ferita di quattro linee di lunghezza e due di profondità nella base della mammella sinistra prodotta da istrumento pungente e tagliente a doppio taglio, parte esterna. Due altre feritelle pur di eguale arma causate a detta medesima mammella sinistra. Altra ferita, pure avvenuta da simile arma, nello spazio tra la quarta e quinta costola a via sinistra larga cinque linee, profonda tre. Altra simile a quest’ultima e da eguale strumento prodotta, vedevasi sulla clavicola sinistra. Nella regione giugulare appariva una ferita prodotta da scure di circa due pollici di lunghezza che penetrava fino alla trachea, la quale era pur essa tagliata nella parte che ad essa corrispondeva e che per poco non incidevasi in tutta la sua estensione e per quella veniva pur tagliata la giugulare arteria. Altra ferita pur di scure era situata nella regione occipitale, ma alquanto a destra. Era lunga un tre pollici, profonda da non toccare per poco l’osso sottostante e lunga un mezzo pollice. L’orecchio destro era orizzontalmente inciso da arma tagliente nel punto dove adattasi il pendedate (?) o fioccaglio che non esisteva. Una ferita prodotta benanco da scure ma vibrata con piena forza si osservava nella mascella superiore a lato sinistro: tagliava l’angolo della bocca, la totale spessezza della mascella, in modo da contarsi la estensione di un tre pollici circa. Lieve lividura al gomito sinistro. Al terzo superiore del femore sinistro eravi un colpo di bipenne lunga due pollici e profonda tre, la qual ferita aveva direzione quasi verticale. Una lieve lesione si scorgeva nel grande labbro sinistro prodotta da corpo contundente ma non duro a parer nostro, in opposto si sarebbero verificate le lacerazioni.
È chiaro, dalle ferite alle mani e alle braccia, che la ragazza si è difesa strenuamente. Ma Arcangela ha subito violenza sessuale? I periti non hanno dubbi in proposito: Il corpo della vagina era libero, in maniera da supporre che essa sia stata anteriormente usata, tantoppiù che le grandi labbra non erano tumefatte, né rosse alla superficie interna, né lacerazioni nelle piccole labbra e neppure liquido bianco si ravvisava scolare dalla vagina, od altro che avesse potuto indicare essere stata deflorata di fresco. No, non c’è stata violenza ma i periti dicono che la povera ragazza non era vergine.
Antonio viene interrogato una prima volta il 9 febbraio e si protesta innocente:
– Dopo che le ho fatto la fascina di legna, lei se l’è messa sulla testa e si è allontanata in compagnia di Giovanni Molinaro e non l’ho più vista. Non è vero che si fosse rotta la fascina e che lei sia tornata indietro perché io gliela sistemassi.
– Come mai porti una camicia pulita? – gli chiede il Vicepretore – forse perché quella che avevi ieri era sporca di sangue…
– Questa camicia ce l’ho addosso da ieri mattina – risponde.
– E come mai porti scarpe una diversa dall’altra? – lo incalza il magistrato, al quale alcuni testimoni hanno già raccontato che Antonio era l’unico del gruppo a portare le scarpe, mentre tutti gli altri erano scalzi.
– Mi si era rotta e, invece di cambiarle tutt’e due, ho pensato di usarne una di un paio e una di un altro…
Il giorno dopo il Pretore di Fiumefreddo lo interroga di nuovo e cambia versione:
– Ho preparato le fascine per le mie sorelle e per Arcangela e poi si sono incamminate insieme a Giovanni Molinaro, soprannominato Paglione, ma la fascina di Arcangela non era legata bene e mi ha chiesto di sistemargliela e io l’ho sistemata. Intanto le mie sorelle si erano allontanate lungo la stradina che porta a casa nostra, mentre Giovanni si incamminò per un’altra strada, che era la stessa che avrebbe dovuto fare Arcangela. Lei lo raggiunse e proseguirono insieme; io seguii le mie sorelle. Dopo poco ho sentito gridare dalla parte dove erano Giovanni e Arcangela e sono accorso. Lei era già morta e accanto c’era Antonio Garritano con una scure in mano che continuava a tirare colpi; a terra ho visto un coltello a scatto insanguinato. Mi sono piegato per prenderlo ma Garritano è stato più veloce e con un calcio lo ha allontanato. Fu allora che mi disse: Non palesare ciò che hai veduto, chè altrimenti uccido anche te e poi si allontanò. Fu per questo motivo che io non ho detto niente nel primo interrogatorio… ho avuto paura perché Garritano è di indole cattiva…
E adesso questo Antonio Garritano da dove spunta? Molte cose sembrano non quadrare nella nuova versione che, oltre a smentirsi da sola perché il luogo indicato da Antonio non è quello dove effettivamente è stato commesso l’orrendo delitto, viene smentita anche da diversi testimoni. In ogni caso, può Antonio Garritano essere sospettato di aver ucciso Arcangela? I testimoni interrogati rispondono assolutamente di no: Antonio Garritano di Gaetano è un giovinetto di arretrato sviluppo ed è impensabile ch’egli abbia potuto commettere l’omicidio in persona della Filippelli, la quale era una giovane robusta e non si lasciava certamente sopraffare da uno ch’è ragazzo più per complessione che per anni. Quindi Arcangela non era affatto una ragazza inerme e per essere ammazzata in quel modo ci voleva per forza un uomo molto forte.
Il 12 febbraio Antonio chiede di essere interrogato di nuovo e consegna una memoria scritta al Pretore, nella quale cambia ancora versione: Nel mentre i Reali Carabinieri lo conducevano alle prigioni nel punto denominato Madonna, uno di essi gl’impugnò il revolvero all’orecchio e l’altro lo minacciava con la baionetta alla gola, dicendogli che se lui non avrebbe confessato il fatto, lo avrebbero in quel punto ucciso ed appauritomi del fatto nominai un individuo inabile e vi fu per evitare la morte di che venivo minacciato. Ciò se lo vogliono lo possono contestare gli stessi carabinieri di cui in parola. Cita testimoni a suo discarico e ne ricusa alcuni a suo carico perché parenti della vittima.
Ma ormai le prove, per gli inquirenti, sono tali e tante che si può chiudere l’istruttoria chiedendo il rinvio a giudizio per omicidio volontario commesso allo scopo di assicurarsi l’impunità per altro crimine commesso, cioè il tentato stupro violento e la Sezione d’Accusa della Corte d’Appello delle Calabrie accoglie la richiesta rinviandolo a giudizio.
Il processo davanti alla Corte di Assise di Cosenza è una battaglia tra la difesa e il Presidente della Corte che, a detta degli avvocati di Antonio, commette numerosi errori di procedura e il 17 maggio 1871, dopo più di due anni dai tragici fatti, la Corte emette la sentenza: pena di morte!
L’avvocato Mariano Campagna non ci sta e presenta subito ricorso alla Corte di Cassazione di Napoli elencando numerose violazioni di legge commesse nel dibattimento e il 19 febbraio 1872, a tre anni dall’orrendo omicidio, la Corte di Cassazione gli da ragione: il processo è da rifare ma presso la Corte d’Assise di Catanzaro.
Quando il 5 agosto l’Ufficiale Giudiziario va nel carcere di Cosenza per notificare la sentenza della Cassazione, si trova nell’impossibilità di farlo: Antonio Provenzano è morto il giorno prima![1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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