– Hai visto una delle mie pecore? Me ne manca una, non è che per sbaglio è andata tra le tue? – chiede Nunziato Caruso, diciassettenne pastore di Cetraro, a Giuseppe Maritati, anch’egli pastore dello stesso paese, che di anni ne ha ventisette. È il tramonto del 10 marzo 1898 e i due stanno rinchiudendo le greggi nel jazzu, nell’ovile cioè, di contrada Porrili. Intendiamoci, le pecore non sono di loro proprietà, ma le pascolano per conto di massaro Giovanni Maritati, che è anche il fratello di Giuseppe.
– No, non ho visto nessuna pecora isolata e tra le mie non c’è, le ho appena contate – gli risponde Giuseppe. Bestemmiando, Nunziato rinchiude il resto del gregge affinché massaro Giovanni e suo figlio Raffaele possano mungere il latte e, con il sole già quasi del tutto scomparso nel mare, si mette alla ricerca dell’animale. Le sue ricerche, però, sono infruttuose e mogio mogio torna all’ovile, consapevole che dovrà lavorare gratis fino a che non avrà rimborsato il valore dell’ovino. Quando arriva, alla luce di un bel fuoco che riscalda e illumina tutto intorno, nota che gli altri pastori lo guardano con strani sorrisetti sulle labbra.
– Si, ridete… ridete… io non ho proprio voglia di ridere… – si lamenta. Poi Giuseppe si alza in piedi e gli fa segno di guardare in direzione di un querciolo dove, legata, c’è la pecorella smarrita – e da dove è spuntata?
– Era in mezzo alle mie! Ti ho fatto uno scherzo! – gli dice ridendo sguaiatamente.
– Sei proprio una merda! Mi è venuto un colpo…
La cosa finisce lì e il gruppo di pastori, al caldo del fuoco, mangia pane e formaggio, accompagnandolo con del buon rosso.
Qualche giorno dopo, Giuseppe ha l’impressione che Nunziato abbia munto abusivamente del latte per berlo e lo riferisce al fratello. Massaro Giovanni non ci bada, ma Nunziato è colpito dalla spiata che ha subito e si arrabbia con Giuseppe al quale, tra sé e sé, promette di rendere pan per focaccia.
Il tramonto del 25 marzo vede, come ogni santo giorno, il ritorno delle greggi custodite da Nunziato e Giuseppe. Ma questa volta a perdere ben tre pecore è Giuseppe. La scena adesso si ripete a ruoli invertiti.
– Nunzià, hai visto tre pecore? Non è che sono in mezzo alle tue?
– No… le ho appena contate – gli risponde, dando un calcetto al pastorello decenne Gaetano Iacovo che sta per rivelare a Giuseppe che le sue pecore sono in mezzo a quelle di Nunziato.
Giuseppe, come è capitato a Nunziato, bestemmia, chiude le altre pecore per farle mungere e si mette in cerca degli animali.
– Diciccillu a chillu, sinnò stasira va peniannu… – Dice Gaetano il pastorello a Nunziato.
– Non ci dicu nenti, ca a settimana asciuta illu m’ha fattu penìare a mia! – gli risponde sorridendo beffardamente.
Quando torna a testa bassa è già buio. Il grande fuoco, come al solito, riscalda e illumina lo spiazzo dove gli altri pastori stanno già mangiando e Giuseppe nota le sue tre pecore legate allo stesso querciolo dove lui stesso aveva legato la pecora smarrita da Nunziato. Solo adesso capisce che gli è stato reso lo scherzo, ma se la prende a male. Tre pecore sono un’enormità da rimborsare e lui già stava pensando che i figli gli sarebbero morti di fame.
– Chi mu ti piglia nu cancaru! Non me lo potevi dire che le avevi tu? Mi hai fatto scaliare dappertutto, merda!
– Perché, tu me lo hai detto quando l’ho persa io?
– T’ha da pezzià ‘a morte! Mò ti metto il coltello alla gola – minaccia Giuseppe.
– Mu ti pezzìa a tia! – gli risponde Nunziato.
I due cominciano a offendersi e si avvicinano sempre più, minacciando di azzuffarsi. Il problema è che tutti e due hanno a portata di mano le proprie accette e se qualcuno non interviene per calmarli può succedere qualcosa di molto brutto. Ma nessuno interviene pensando che la questione non possa degenerare oltre, sbagliando. Giuseppe e Nunziato si lanciano l’uno contro l’altro e Giuseppe prende Nunziato per una spalla mentre mette la sua mano destra sull’accetta che gli pende dalla cintola. Il rivale a questa mossa alza la sua accetta, che ha già in mano, e gli vibra un violentissimo colpo alla testa.
Il colpo è così violento che gli trapassa lo spesso e duro cappello e gli sfonda le ossa del cranio. Giuseppe cade all’indietro con l’accetta conficcata in testa. Quando sbatte la testa al suolo, l’accetta salta via facendo schizzare tutto intorno il sangue e materia cerebrale.
Nunziato capisce quello che ha fatto e sparisce nel buio della notte.
Massaro Giovanni, ancora incredulo, si precipita a soccorrere il fratello e si accorge che respira ancora, quindi ordina agli altri pastori di portarlo immediatamente a casa, mentre lui, a grandi passi, va ad avvertire i Carabinieri.
Quando il Vicebrigadiere Gabriele Amassi, comandante ad interim della stazione di Cetraro, e il Carabinere Nazzareno Di Lorenzo arrivano, intorno alle due di notte a casa di Giuseppe, scoprono che è morto mezz’ora prima e si mettono a battere le campagne per trovare e arrestare Nunziato ma né quella notte né tutto il giorno successivo riescono a rintracciarlo, nonostante ispezionino ogni pagliaio, ogni casa colonica e ogni grotta dove un uomo può nascondersi.
Verso le due di pomeriggio del 25 marzo, i Carabinieri stanno battendo le campagne della contrada San Filippo quando si imbattono in due contadini che stanno zappando un pezzo di terra. Ai militari sembrano mantenere un atteggiamento sospetto e si avvicinano per chiederne le generalità:
– Mi chiamo Francesco Leporino, ho ventisette anni e sono di Cetraro. Non ho obblighi di leva perché sono stato dichiarato rivedibile – risponde quello che sembra più anziano, poi, indicando l’altra persona, aggiunge – lui è mio fratello Angelo
I Carabinieri non gli credono. Adesso che sono vicini notano una certa corrispondenza tra la descrizione di Nunziato Caruso fatta dai testimoni e colui il quale dice di chiamarsi Angelo Leporino e li incalzano con una sfilza di domande, ma le risposte sono sempre le stesse:
– Come ve lo debbo dire che mi chiamo Angelo Leporino e quello è mio fratello Francesco?
– Io sono Francesco Leporino e quello è mio fratello Angelo, perché non dovete crederci?
I due insistono fino a perdere la voce ma il Vicebrigadiere Amassi è convinto che mentano e qualche accenno di nervosismo e di indecisione nell’atteggiamento del sedicente Angelo rafforzano sempre più la sua convinzione, così decide di portare tutti e due in caserma per fare ulteriori accertamenti.
– E perché dovrei venire in caserma? Io sto lavorando e il mio padrone se la prenderà a male se lascio la zappa! Non ci vengo!
Da un pezzo di terra vicino, fa capolino un certo Francesco Cerbelli che si avvicina e chiama in disparte Amassi, sussurrandogli:
– Ho capito perché gli state domandando chi è e posso assicurarvi che quello non è Nunziato Caruso…
– Così dite voi… io penso il contrario! Adesso anche voi venite in caserma!
I tre uomini e i due Carabinieri si mettono in marcia e fatte poche decine di metri si para davanti a loro una donna che dice di essere la cognata di Francesco Cerbelli:
– Brigadiere, ho sentito tutto anche io, lasciatelo perdere a mio cognato che è mezzo scemo. Vi giuro che quello è proprio Nunziato Caruso!
– Puttana! Non ti fai mai i cazzi tuoi! – le urla contro Nunziato alias Angelo Leporino.
– Mettigli i ferri – ordina Amassi al suo sottoposto.
In caserma, Nunziato giura che ha colpito Giuseppe per legittima difesa perché stava per tirargli un colpo di accetta e quindi per non essere ucciso; ha colpito ma senza la volontà di uccidere.
I testimoni oculari smentiscono la sua versione, giurando che Giuseppe aveva, si, l’accetta ma non la impugnava, tenendola, invece, appesa alla cintura. La vittima fece solo il gesto di mettere la mano sull’accetta e anche se avesse voluto prenderla non ci riuscì perché colpito violentemente da Nunziato.
Che il colpo fosse stato vibrato con l’intenzione di uccidere è dimostrato chiaramente dal risultato dell’autopsia che certifica:
1° Che sulla testa di Giuseppe Maritati è stato tirato un unico colpo di scure, la quale, producendo la mortale ferita sulla regione fronto-parietale sinistra e penetrando fino al manico nella cavità cranica, à altresì potuto produrre con una delle sue punte al momento della estrazione, o distacco spontaneo di essa in seguito alla caduta della vittima, l’altra ferita triangolare dall’interno all’esterno sulla metà destra della regione frontale;
2° Che l’ecchimosi sottocutanea nella regione sternale, come anche le due altre piccole infiltrazioni emorragiche nei punti di unione della seconda e terza costola di destra con le relative cartilagini, sono state prodotte da un corpo contundente; e nel caso in parola, tenuto conto del fatto che il Maritati cadde a terra supino senza potersi più muovere, potrebbe probabilmente trattarsi di una contusione prodotta anteriormente dall’omicida con le nocche delle dita ed a pugno serrato, allo scopo di allontanare la vittima per viè meglio colpirlo;
3° Che la morte è avvenuta per paralisi cardiaca in seguito a gravissima contusione ed a commozione cerebrale di secondo grado, recando non poca meraviglia che con un colpo così tremendo si abbia potuto vivere per più di sette ore.
L’accetta è penetrata fino al manico, dice il dottor Giuseppe Panfili, cioè tra i 12 e i 15 centimetri. È chiarissima la volontà omicida.
Nunziato è in carcere e viene raggiunto da Francesco Leporino, arrestato per favoreggiamento personale dal momento che, conoscendo l’identità del ricercato, lo ha aiutato a sottrarsi all’arresto cercando di farlo credere un suo fratello.
Leporino si dichiara colpevole ma sostiene di avere aiutato l’omicida perché vincolato a lui dal comparaggio con Fedele Caruso, fratello dell’omicida. Inoltre, Nunziato gli avrebbe garantito che si sarebbe costituito alla Giustizia la mattina del 27 marzo e quindi non gli sembrava di sottrarlo alla giustizia.
Quello di Leporino, però, è un arresto illegittimo in quanto si tratta di un reato per il quale non è prevista le carcerazione preventiva, fa notare il Pretore di Paola, che ne dispone il rilascio.
Passa qualche mese e il primo luglio i due sono rinviati a giudizio per rispondere dei reati di cui sono accusati ma il processo dovrà celebrarsi presso la Corte di Assise straordinaria di Rossano Calabro e non in quella di Cosenza.
L’11 agosto 1898 la Corte emette la sentenza:
Attesochè ritiene la Corte che per le speciali circostanze del fatto sia il caso di determinare la pena di anni 21 di reclusione, da cui detratta la metà per l’ammessa provocazione grave, si restringe essa ad anni dieci e mesi sei di detenzione. Indi eliminato un sesto per la minore età di anni diciotto del predetto accusato, resta tal pena ad anni otto e mesi nove e detratto anche un altro sesto per le concesse attenuanti, segue che da tutta la pena da irrogarsi, va limitata ad anni sette, mesi 3 e giorni 15 di detenzione.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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