Alle 14,30 del 31 luglio 1921 il sole picchia forte e molti uomini di Piane Crati trovano riparo nel fresco della cantina di Giuseppe Piane, che è proprio al centro del paese. Il vino fresco è buono e asciuga il sudore, ma scioglie le lingue e spesso libera anche i freni inibitori della gente.
All’improvviso scoppia un parapiglia, gli avventori fanno largo intorno ai due che stanno questionando. Sono Carmine Lavorato di 24 anni e suo suocero Saverio Marrazzo, che di anni ne ha 68.
– Esci fuori che ti devo parlare, cornuto! – intima il genero al suocero afferrandolo al collo con una mano e minacciandolo con un coltello nell’altra. Marrazzo fa resistenza e il genero comincia a tempestarlo di calci. Dopo qualche secondo di esitazione, gli avventori presenti intervengono per disarmare Lavorato e strappargli dalle mani il suocero. Ma è una furia scatenata e, anche se ormai disarmato e circondato, riesce a colpire ripetutamente l’anziano.
– M’ha chiamatu fetente! Fetente ci sì tu e tutt’a razza tua, ohi ciuncu! – continua a urlare Lavorato contro il suocero, alludendo alla sua deformazione delle mani.
Marrazzo viene portato fuori tutto pesto e se ne torna a casa, il genero sembra essersi calmato e accetta l’invito di alcuni avventori per giocare una partita a tressette ma, non appena le carte sono state distribuite, Carmine si alza ed esce di corsa bestemmiando, mettendosi all’inseguimento del suocero per insultarlo ancora e prenderlo a pietrate; Saverio, per sua fortuna, riesce a mettersi in salvo in casa, mentre Carmine viene raggiunto dalla madre che lo implora di tornare a casa con lei e di lasciar perdere:
– Torna a casa, non mi sei rimasto che tu… – gli dice, riferendosi al fatto che appena due mesi prima il marito si è suicidato.
Questa non è la prima volta che Lavorato aggredisce il suocero, lo fa da ormai sette anni, da quando, cioè, rapì e sverginò la figlia quindicenne Giuseppina, per poi riparare al torto col matrimonio.
Carmine Lavorato, che in paese non gode di buona fama, fa ufficialmente il sarto ma in pratica campa mangiandosi la dote della moglie, facendole vendere tutto l’oro, i mobili e anche il corredo, ma soprattutto andando in giro per l’Italia a fare truffe. Alcune volte lo hanno pure beccato e si è fatto un po’ di galera, roba di pochi giorni, a Genova, Cosenza, Davoli, Catanzaro, Roma e Napoli. Ed è proprio nelle sue due ultime scorribande a Roma e Napoli che decide di svoltare. “Dato che ormai non c’è più niente da vendere, perché non vendere mia moglie?” pensa. Lei rifiuta e lui la lascia per strada e se ne va a Napoli, ma poi va a riprenderla e la chiude in un bordello nella città partenopea. Giuseppina però scappa e, sapendo che in quella Questura lavora un paesano, il cavaliere Cesare Abbenante, lo va a trovare e gli chiede aiuto. Il cavaliere è mosso a compassione e, siccome ha una certa esperienza, prima la fa ricoverare all’Ospedale della Pace per farla curare dalla malattia venerea che il marito le ha passato e poi la mette a servizio in casa del figlio al Largo Petrone. Ma Carmine ormai si è messo in testa che deve fare soldi sulla pelle della moglie e, contattato da Abbenante, le scrive un telegramma invitandola a tornare in paese. Giuseppina non vuole ricadere nei soliti errori e risponde ponendo come garanzia la condizione che la suocera la tenga con sé in casa:
Bella Vista
29-7-921
29-7-921
Senti arricevuto lettera 2 giorni dopo siccome mitrovo abbella vista con la moglie del figlio Abenante a villegiare mela portato la signora. Tu vuoi che venisse prima assideve fare una lettera tua madre quale almente mi vuole accora dopo mi devi venire aprendere esetieni senno e affetto di moglie qualmente tua moglie non accommesso nennuna mancanza che tu ai fatto proprio cose dai fetenti ma io sono sempre Giuseppina ella faccia mia non la devo ammacchiare.
Basta se vuoi venire vieni abella vista seno io non mifazzo muovere da qua
Giuseppina
Se vuoi scrivere scrivete allargo Petrone alla salute N 5 Napoli
Dite a tua madre di non dire nulla che oscritto
(Ho ricevuto la lettera con due giorni di ritardo perché mi trovo a Bella Vista a villeggiare con la nuora di Abbenante. Tu vorresti che io tornassi ma prima tua madre mi deve scrivere che mi vuole a casa sua e dopo mi devi venire a prendere. E se hai senno e amore per tua moglie che non ha fatto niente mentre tu ti sei comportato da fetente, sappi che io sono sempre Giuseppina e il mio onore non lo voglio sporcare. Se vuoi, vieni a Bella Vista, altrimenti non mi muovo da qua. Nda)
È proprio questa lettera la causa dell’aggressione al suocero. Carmine non tollera che Giuseppina lo abbia chiamato fetente e, non potendo prendersela con lei, bastona il padre.
Il padre di Giuseppina, da parte sua, è stanco di subire le angherie del genero ma non sa che pesci prendere. Quando quello stesso pomeriggio lo vede salire sul treno per Cosenza con un involto in mano si informa e gli dicono che è partito per non si sa dove, ma che non tornerà tanto presto. Tira un sospiro di sollievo, ha tempo per pensare a cosa fare e va a lavorare tranquillo nelle terre del Sindaco, nonché Capostazione, di Piane Crati, Pietro Serra, che sono tra il paese e la stazione stessa. Fa il guardiano e per questo gira armato di doppietta sempre carica a pallini, i cosiddetti quagliaruoli. Ogni giorno, dopo l’arrivo del treno delle 12,56 proveniente da Cosenza, porta il pranzo al Cavaliere Serra, che lo consuma nel suo ufficio della stazione. Così fa anche quel giorno, il primo agosto.
Il giorno successivo, Saverio è sul limite dei terreni più vicino alla stazione, in attesa che il treno delle 12,56 arrivi per poi portare dei cetrioli e dei pomodori al cavaliere Serra. Ma il treno è in ritardo e lui se ne sta lì con l’involto in mano e la doppietta a tracolla per una buona mezz’ora ad aspettare. Quando finalmente il treno arriva e scarica il suo contenuto di varia umanità, ha un sobbalzo. Il primo a scendere è suo genero Carmine Lavorato. La disperazione e lo sconforto lo assalgono ma poi un lampo sinistro gli accende lo sguardo. Posa l’involto per terra, si apposta dietro un albero all’imbocco della scorciatoia che dalla stazione porta al centro del paese e aspetta che il genero faccia la cinquantina di passi necessari perché gli giunga accanto. Si, si è deciso, quel giorno la farà finita e accada quel che accada. All’improvviso, però, tra Saverio e Carmine si frappone un ostacolo: Pasquale Tosti. Anche lui è sceso dal treno e anche lui, come molti altri dietro di lui, imbocca la scorciatoia. Saverio ha difficoltà nel prendere la mira senza rischiare di colpire Tosti, così Carmine ha il tempo di vedere le due canne che sporgono da dietro l’albero. Con un balzo afferra Tosti e si fa scudo col suo corpo.
– Pasquà, scappa che sparo! – urla Saverio. Ma Pasquale è impotente, senza forze per la paura e senza respiro perché Carmine gli stringe il collo con un braccio. Poi la forza della disperazione gli ridà coraggio e tenta il tutto per tutto, cercando di divincolarsi. Nasce così tra i due una colluttazione sotto gli occhi attenti di Saverio che sta sempre col fucile puntato in attesa del momento buono. E il momento buono arriva quando Pasquale riesce a far girare di fianco Carmine: è un attimo. Il colpo parte fragorosamente lasciando nell’aria infuocata una nuvoletta azzurrognola. Carmine cade ferito e Pasquale può darsi alla fuga.
Carmine non ci sta. È ferito gravemente ma riesce a togliere dalla tasca una rivoltella e ad esplodere quattro colpi a casaccio, che, ovviamente, vanno a vuoto. Saverio gli è sopra, arma il cane del secondo colpo e glielo spara in testa.
– Questo è per tutto quello che ci hai fatto passare… – gli sussurra.
Alla scena assistono, terrorizzati, molti paesani. Qualcuno di questi corre verso il treno ancora fermo in stazione perché ha visto che tra i passeggeri ci sono due carabinieri, i quali accorrono precipitosamente sul luogo del delitto e trovano Saverio che sta per ricaricare la doppietta e finire col colpo di grazia il genero che, incredibilmente, è ancora vivo.
Intorno a Carmine si fa un capannello di gente che lo guarda senza muovere un dito. Ci sono anche due ferrovieri ai quali qualcuno dice di portarlo via
– Portatelo all’ombra… il sole lo sta cuocendo…
Alfredo Manco e Luigi Vena, i due ferrovieri, portano il ferito nella stazione, mentre i due militari arrestano Carmine Marrazzo, lo fanno salire sul treno e lo portano nella caserma dei Carabinieri di Rogliano. Confessa subito tutto e racconta la lunga serie di angherie e soprusi che la sua famiglia ha sopportato per anni. Le decine di testimoni che vengono interrogati confermano parola per parola il racconto del vecchio.
Luigi Sisca, possidente di Piane Crati, racconta al pretore di Rogliano che qualche anno prima, Saverio Marrazzo gli aveva chiesto di leggergli il testo di una cartolina postale che il genero gli aveva spedito dall’Alta Italia:
– Lo aveva qualificato, per disprezzarlo, come negoziante di pelli di volpe, lo chiamava cornuto e gli prometteva, una volta tornato in paese di fargli un culo così e accanto aveva disegnato un cerchio come segno pornografico della grandezza che avrebbe fatto prendere al culo di Marrazzo. So che questo accadeva perché Lavorato non riusciva a carpirgli il denaro che gli serviva per i suoi bagordi.
Il farmacista Fraschitto Sisca racconta che Antonio Lavorato, il padre di Carmine, poco tempo prima di suicidarsi gli raccontò che era molto dispiaciuto per l’atteggiamento del figlio il quale gli aveva sperperato quasi del tutto le quattromilalire che aveva risparmiato in America e che, se non fosse stato per l’ictus che lo aveva reso invalido, lo avrebbe ammazzato con le sue stesse mani.
Per fare il processo ci vorrà un anno e mezzo. Saverio Marrazzo è difeso dagli avvocati Nicola Serra e Tommaso Corigliano, la parte civile è rappresentata da Pietro Mancini: il fior fiore dell’Avvocatura si affronta in Corte d’Assise.
Vinceranno Serra e Corigliano perché Saverio Marrazzo è assolto dalla giuria popolare in quanto al momento dei fatti si trovava in tale stato d’infermità di mente da togliergli la coscienza e la libertà dei propri atti.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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