L’INCUBO

– Che cazzo è stato? – esclama Domenico Adamo, trentaduenne contadino di Carpanzano, inciampando in qualcosa lungo la via Sottana mentre va al suo campo. Sono le cinque di mattina del 20 febbraio 1910, fa freddo ed è buio pesto. Domenico accende uno zolfanello per vedere cosa c’è in mezzo alla via e, con stupore esclama – minchia!
Per terra c’è il corpo inanimato di un uomo ma lo zolfanello si spegne e Domenico non lo riconosce. Va a bussare a una casa vicina e si fa dare un lume acceso. Ora si, ora lo riconosce. Si tratta di Antonio Gagliano, un calzolaio di quarantotto anni. Accanto al corpo, il contadino nota il luccichio di un trincetto, una mezza scarpa e una scopa. Ispeziona velocemente il corpo ma non trova, oltre a un piccolo taglio sul polso destro, segni di lesioni gravi, o almeno così gli sembra, data la semioscurità. “Per oggi niente zappa”, pensa, “ma gli animali li devo fare mangiare se no muoiono e dopo vado dai carabinieri”.
 È appena fatto giorno quando il brigadiere Fuduli arriva sul posto. Neanche lui nota ferite che possano far pensare a un delitto, ma con la luce del giorno appare chiaro un bozzo sulla tempia destra del cadavere e tutto lascia pensare che il disgraziato, magari ubriaco, sia caduto battendo la testa e ci sia rimasto secco. Si, non può che essere andata così. Il cadavere viene rimosso e portato nella camera mortuaria del cimitero in attesa dei funerali e il brigadiere si accinge a redigere il verbale per la morte accidentale del calzolaio.
Lo ha già quasi del tutto scritto, quando sulla porta compare un sottoposto che, facendo battere i tacchi, lo avvisa che c’è una donna che ha qualcosa da dire sulla morte del calzolaio.
– Brigadiè – esordisce Antonia Sposato – io abito accanto alla casa del povero Gagliano e ho la camera da letto muro a muro con quella del morto. Verso le 22,00 di ieri sera ho sentito la voce di Nicola Vezzi, cognato del morto, che bussava violentemente alla porta di Gagliano chiedendogli del proprio figlio Vincenzo e quello gli ha risposto di andarsene. Dopo qualche minuto ho sentito dei colpi fortissimi e le voci dei due che si scambiavano male parole, poi un tonfo e quindi il silenzio.
– Che volete dire con questo? – la incalza il brigadiere
– Niente… solo che ieri sera Antonio Gagliano ha litigato con suo cognato Nicola Vezzi e poi lo hanno trovato morto…
– Grazie, potete andare.
“E se ci fosse una relazione tra i due fatti?” pensa il brigadiere guardando il suo rapporto quasi terminato. “Questo lo finiamo più tardi…” dice tra sé e sé, poi chiama i suoi sottoposti e gli ordina di andare a prendere Nicola Vezzi per sentire cosa ha da dire.
Nicola Vezzi è un falegname di 58 anni e tutti lo descrivono di carattere irascibile e violento, soprattutto con i familiari, e dedito al vino. I carabinieri non lo trovano a casa ma viene detto loro che è al cimitero a vegliare il cognato ed è lì che i militi lo invitano a seguirli in caserma.
– Io? Ma quando mai! – il falegname è offeso dalla domanda del brigadiere che gli ha chiesto se in seguito alla discussione avuta col cognato lo abbia ucciso – andavo d’accordissimo con mio cognato… ieri, dopo il lavoro, abbiamo bevuto insieme un bicchiere nella cantina di Vincenzo Adamo e poi ognuno è tornato a casa sua.
– Tanto d’accordo che avete litigato – lo punzecchia il brigadiere – ma perché avete litigato?
– Non è vero che abbiamo litigato. Gli volevo chiedere se avesse visto mio figlio Vincenzo che se ne era andato di casa temendo che lo punissi perché mancavano dei soldi, ma non rispondeva nessuno e io me ne sono tornato a casa.
– Un bicchiere e basta?
– Beh… a essere sinceri credo che ne abbiamo bevuto un paio di litri a testa…
– Ci sono dei testimoni che giurano di avere sentito dei colpi violentissimi alla porta di tuo cognato a distanza di qualche minuto gli uni dagli altri… – È  vero. La prima volta che ho bussato non rispondeva nessuno e ho pensato che si sentisse male, dato il vino bevuto, così sono tornato a casa e ho preso una scure per aprire la porta e l’ho aperta, sono entrato e col chiarore della luna piena ho visto che in casa non c’era nessuno, quindi me ne sono andato a dormire.
– E la porta com’era chiusa?
– Dall’interno. Infatti me lo sono chiesto anche io come era possibile che la porta fosse chiusa dall’interno e in casa non ci fosse nessuno, poi ho pensato che dentro c’era sicuramente nascosto mio figlio, ma certamente non c’era mio cognato. Però ormai la rabbia contro mio figlio era sbollita e me ne sono andato…
– Mi sembra una favoletta quella che stai raccontando… pensaci bene stanotte quando dormirai sul tavolaccio e ne riparliamo domani mattina…
La notte è lunga da passare per Nicola, rinchiuso nella fredda e umida camera di sicurezza. Ogni volta che sta per prendere sonno si sveglia di soprassalto, assalito da incubi e fantasmi. In uno degli incubi vede sé stesso e il cognato che fabbricano scope di erica, poi il cognato che taglia suole da scarpe col trincetto e lui che, finito il lavoro, lo invita ad andare alla cantina per bere vino e giocare a carte. Poi, ubriaco e malfermo sulle gambe, si rivede nella bottega a rovistare in un cassetto per trovare degli spiccioli coi quali comprare altro vino ma gli spiccioli sono spariti. “Dove sono i soldi, brutto figlio di puttana?” urla al figlio mentre cerca di avventarglisi contro con un pezzo di legno per picchiarlo. “Te li sei bevuti alla cantina!” gli risponde il figlio. “Bugiardo! Mò t’ammazzo!” gli urla con in mano uno scalpello da falegname, più affilato di un rasoio. Vede il figlio spiccare un balzo felino e guadagnare l’uscita prima che lui avesse avuto il tempo di avvicinarsi. “Tanto lo so dove te ne vai, adesso facciamo i conti!” gli grida dietro. Si rivede barcollante per strada mentre va a casa del cognato, dove sa che suo figlio è solito ripararsi quando lui lo vuole battere e vede la sua mano aperta picchiare contro il portone e urlare al proprio figlio: “Merda, esci che facciamo i conti!”. Sente la voce del cognato che gli dice “Nicò, vattene che se ne parla domani, stai tranquillo che Vincenzino non si perde” e la sua voce che risponde “Mò vediamo se c’è o non c’è!”. Vede la propria figura aprire la porta della bottega e prendere una scure e poi la scure che picchia sulla porta del cognato fino a sfondarla. Ora è dentro. La luce della luna illumina fiocamente l’ambiente e la figura del cognato, fermo con le gambe larghe in mezzo al corridoio. Ma è il cognato o il figlio? Nell’incubo le due figure sono mischiate e indistinguibili l’una dall’altra. Le mani che stringono la scure sembrano mosse da una forza autonoma rispetto alla sua volontà e cominciano a tirare colpi all’impazzata. La figura, prima saldamente ferma nel corridoio adesso si rifugia nella camera da letto e lui la segue menando terribili fendenti che colpiscono solo l’aria. Adesso la figura inciampa e cade sul letto. Ormai non ha più scampo. “Mò ti scanno perlamadonna!”. Due colpi ben assestati col dorso della scure sulle due tempie e il gioco è fatto. Guarda la figura che adesso ha assunto inequivocabilmente le sembianze del cognato. Con un risolino di soddisfazione si mette a girare per la stanza sussurrando, come se stesse giocando a nascondino con un bambino, “Dov’è Vincenzino che scanno pure a lui?”. E va avanti e indietro parecchie volte come se fosse una sentinella che fa la guardia. Nelle sue orecchie risuona distintamente un rumore di denti che battono per la paura. “Vincenzino… esci bello di papà tuo… papà tuo non ti fa niente… ti vuole solo scannare…”. Poi d’improvviso la figura del figlio appare da sotto il letto come un fantasma pronto a spiccare un volo leggero e incorporeo. “Papà, l’hai ammazzato e adesso vai in galera” e sparisce.
Nicola, appena vista l’ombra del figlio e udite quelle parole, capisce che deve fare qualcosa per tirarsi fuori dai guai. “Fermati e non ti faccio niente. Aiutami che lo portiamo fuori… se mi aiuti non ti ammazzo” dice al figlio che si arresta di colpo e torna sui suoi passi. Nicola si carica il corpo inerme del cognato sulle spalle mentre Vincenzo lo regge per i piedi e, scoprendosi quasi una forza sovrumana, riesce a scendere i ripidissimi nove gradini della scala di accesso alla casa e lo trasporta lungo la strada fino davanti l’abitazione di Astorino, il paesano al quale il calzolaio stava fabbricando un paio di scarpe, e qui lo fa cadere in terra. “Vai alla bottega di tuo zio e prendi quella mezza scarpa che è nella forma, un trincetto e una scopa e torna subito qui”, ordina al figlio terrorizzato. Poi nell’incubo vede la figura del cognato che gli lancia un terribile anatema: “Mi hai ammazzato innocente, che tu possa bruciare in eterno nelle fiamme dell’inferno!”
È sveglio, gli occhi fuori dalle orbite, il respiro affannato e il corpo madido di un sudore così freddo che il gelo di quella notte di febbraio gli sembra il caldo torrido dell’estate. La luce della luna piena che entra dalle sbarre del finestrino proietta sui muri ombre sinistre che ingigantiscono nella sua mente la percezione della maledizione e il terrore di una morte enormemente più lunga e  atroce di quella che lui ha dato al cognato gli paralizza tutto il corpo.
– Guardia! – urla – guardia! Aprite! Chiamate il brigadiere, voglio parlare col brigadiere!
– Non seccare e dormi, è ancora notte – gli risponde il piantone
– No! Adesso, adesso, muoio… brucio…
Il piantone, tra mille bestemmie, si alza e va a svegliare il brigadiere e Nicola, scosso dagli spasmi del delirio, tra le lacrime confessa il suo orrendo crimine. Ma il suo racconto è ancora troppo confuso, ci vuole pazienza per calmarlo e, alla fine, il brigadiere raccoglie il racconto di quello che è realmente accaduto nella casa di Antonio Gagliano, confermato in tutto e per tutto dal figlio Vincenzo che, lucidamente e senza reticenze, lo accusa del crimine.
Nicola Vezzi è rinviato a giudizio per omicidio volontario e il 31 gennaio 1911 viene condannato a 12 anni, sei mesi e otto giorni di reclusione. Ad ascoltare la sentenza non ci sono né la vedova del povero Antonio né i figli, nel frattempo emigrati negli Stati Uniti per ricostruirsi una vita.
Nicola, due giorni dopo, dichiara di voler proporre ricorso in appello, ma l’avvocato Palmieri, suo difensore, non presenta entro i termini i motivi del ricorso e così, il 31 marzo 1911, il Tribunale di Cosenza ordina l’esecuzione della sentenza.[1]

 

[1] ASCS, Processi Penali.

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