LA TRISTE STORIA DI GIULIA MORO

I cocchieri fermi davanti al palazzo D’Elia a Corso Mazzini stanno godendo il venticello fresco della sera – è il 27 luglio 1918 – chiacchierando tra di
loro. All’improvviso delle urla provenienti dal primo piano del palazzo li fanno girare incuriositi, poi tre colpi di pistola. I vetturini si guardano attoniti ma non hanno nemmeno il tempo di chiedersi cosa diavolo stia accadendo che sentono un quarto colpo e subito dopo le persiane di un balcone del primo piano si aprono e una donna urla:
– Aiuto! Aiuto! È successa una disgrazia, correte!
Due cocchieri, Umberto Santagati e Francesco Sansosti, si precipitano nell’androne del palazzo e salgono le due rampe a quattro a quattro. Sul pianerottolo uno dei portoni è socchiuso e, senza pensarci due volte, entrano in casa ma il primo dei due inciampa nel corpo di un uomo e per poco non finisce a gambe levate. Ferma al centro del corridoio c’è la donna che ha chiamato aiuto; in mano ha una rivoltella e sta piangendo.
– O gesummaria! Cosa è successo? – le chiede uno. Lei, senza dire una parola, entra in una stanza, ripone la rivoltella nella sua borsetta e ne estrae una  boccetta, torna nel corridoio dove i due cocchieri stanno osservando il cadavere di un uomo dell’apparente età di più di quarantacinque anni, steso in posizione supina con i piedi divaricati che toccano la porta d’ingresso, con la giacca infilata per metà ed immerso in una pozza di sangue. La donna li guarda, svita il tappo della boccetta, ne beve il contenuto poi scosta i due uomini e si stende accanto al cadavere.
– Andate a chiamare qualcuno – dice la donna, prima di chiudersi nel mutismo. Uno dei due uomini si affaccia al balcone aperto e urla agli altri cocchieri ancora fermi lì sotto di correre alla Questura. 
Il Vice Commissario Cilento non ci mette molto ad arrivare a bordo di una carrozza e trova la donna stesa che si sta contorcendo
– Signora, per l’amor di Dio, che cosa è successo?
– Ho ucciso due uomini, l’altro è nel salottino… dirò tutto al giudice…
Ma la donna non dirà niente a nessuno perché morirà nel giro di pochi minuti, non prima, però, di riuscire a baciare il cadavere dell’uomo, sebbene scossa violentemente dalle contrazioni provocate dal veleno che aveva ingerito.
L’uomo si chiamava Raffaele Giani, aveva quarantacinque anni, era nato a Fucecchio in provincia di Pisa ed era un uomo molto in vista in città, essendo primario
chirurgo dell’ospedale.
L’altro uomo si chiamava Luigi Susini, quarantacinque anni, domestico di Giani.
La donna si chiamava Giulia Moro, trentasette anni di San Nazario in provincia di Vicenza, da due anni a Cosenza.
Ma perché Giulia ha combinato questo macello? Per capire bene tutto dobbiamo
tornare indietro di qualche anno.
Giulia Moro era maestra elementare, poi nel 1911, dopo il matrimonio, aveva lasciato il lavoro e aveva sempre seguito in giro per l’Italia il marito Giacinto Sanavio, trentasettenne padovano, geometra dell’Intendenza di Finanza. La coppia arrivò a Cosenza l’11 marzo 1916 e prese alloggio in un appartamento nel palazzo Ferrari, all’angolo tra Via Sertorio Quattromani e Piazza Carmine. Dopo nemmeno tre mesi, Giacinto fu richiamato alle armi e dovette partire al fronte lasciando Giulia a Cosenza in compagnia della loro cameriera, la sedicenne riminese Ida Filippi che Giulia aveva preso con sé quando il marito lavorava in Romagna per toglierla dalla miseria più nera e la trattava come la figlia che non avrebbe mai potuto avere.
Giulia si poteva definire, senza esagerare, una bella donna. Formosa, alta più della
media ma non appariscente, dimostrava meno degli anni che aveva. Capelli castano scuro, occhi di un marrone brillante, era sempre perfettamente acconciata e vestita, seppure con abiti modesti. Intelligente, le piaceva leggere e mantenersi informata sulle questioni di attualità; agli uomini risultava ancora più desiderabile tanto per la sua capacità di mantenere viva una discussione sui più disparati argomenti, quanto per quel suo civettuolo, adorabile, marcato accento veneto. Molte donne, al contrario, tendevano a detestarla per gli stessi motivi.
Il suo unico neo era il carattere ansioso, insofferente, addirittura nevrastenico, così lo aveva definito il marito, che la portava spesso a drammatizzare anche le sciocchezze, tanto che il medico le aveva prescritto una cura di calmanti di cui, ormai, pensava di non poter più fare a meno. Ma questo era ormai un vezzo, perché da quando era sposata, l’amorevole e costante presenza di Giacinto aveva via via diradato le assunzioni di farmaci.
Giulia, dopo la partenza del marito per il fronte dovette affrontare l’assalto di molti
corteggiatori e uno di questi, il farmacista Feraco, una volta respinto cominciò a spargere veleno su di lei.
Il momento peggiore della sua permanenza a Cosenza lo passò, però, agli inizi del
1917 quando la sua cameriera/figlioccia rimase incinta e abortì clandestinamente rischiando di lasciarci le penne. Giulia, su consiglio del dottor Ranieri, suo dirimpettaio, la fece visitare in ospedale dal primario chirurgo Raffaele Giani.
Giani era una celebrità. Era considerato, nell’ambiente medico italiano, uno dei migliori chirurghi in circolazione. Ma era anche un bell’uomo di quarant’anni, bruno, occhi neri, le braccia forti e una voce calda e amichevole con quell’accento da toscanaccio e dal giorno che si conobbero in ospedale le fece una corte spietata per alcuni mesi, fin quando Giulia acconsentì a riceverlo in casa per un bicchierino.
Ma Giani non aveva nessuna intenzione di mollare la presa su quella donna che lo intrigava da morire. Quando se ne andò accennò a un languido baciamani ma non volle infierire. Giulia era rimasta dietro la porta, trasognata. Era molto lusingata per le mille attenzioni e premure di Raffaele, adorava, dal primo giorno che l’aveva incontrato, la sua parlantina toscana e i suoi occhi luminosi e fieri. E poi faceva la corte da vero signore, non come quei buzzurri che le dicevano ogni sconcezza possibile.
Poi l’angoscia del dubbio e il tormento del pianto e pensò che avrebbe dovuto piangere d’altro. “Vergogna!” si disse, “mio marito è al fronte e io penso a fare la civetta… vergogna!”.
“Il tuo unico pensiero deve essere lui che è là a combattere” le suggeriva la coscienza, rigida come una monaca di clausura. “Poveretto!” si diceva lei cercando ogni possibile appiglio per resistere.
Pensava a sé stessa, sola in quella città che non le apparteneva, pensava alle mille
carezze che Raffaele avrebbe potuto farle.
– Sta fresco Raffaele! – disse a voce alta, arrossendo per un pensiero così abietto, atterrita di poter precipitare nell’abisso. Poi, sussurrando a sé stessa, pronunciò quel nome:  Raffaele… – e subito arrossì di nuovo, passandosi le mani tra i capelli per rassettarli, o forse per cercare di scacciare quei pensieri. Sospirò – questa guerra… questa guerra non ci voleva proprio…
Ma ormai sapeva, in cuor suo, che non c’era più niente da fare, Raffaele le era scoppiato dentro. Alzò le spalle, irritata: “Pazienza” pensò, “sarà quel che sarà”. Poi con due lacrimoni negli occhi pensò a Raffaele, perché, finalmente lo ammise a sé stessa, era solo lui il suo pensiero. Pensò di andare con lui in capo al mondo, perché lui era capace di portarla dovunque. Lo vide coglierle un fiore in un giardino proibito, lo vide prenderla per mano e condurla in una città da sogno dove non c’era l’esattore delle tasse, non c’era la guerra e nemmeno il Generale Cadorna, che il diavolo se lo porti. Sognò a lungo ad occhi
aperti e, a volte, nella meraviglia del sogno arrossì.
Quando Raffaele la invitò a casa sua, con la scusa di visitarla con calma perché aveva notato uno strano sibilo nel suo respiro, era un pomeriggio tiepido e assolato di fine inverno, Giulia chiuse gli occhi e si sentì pronta a seguirlo dove non era mai stata. Lui la abbracciò all’improvviso baciandola teneramente, poi si abbandonarono su un divanetto e, prima che Raffaele la soffocasse di nuovo con i suoi baci, Giulia gli parlò:
– Ricordi il nostro primo colloquio in ospedale? Allora io ero come una che si rialza da sotto le macerie del terremoto dove ha perso tutto. Mi sentivo come una bambina che sa di dovere stare zitta e far fare tutto ai grandi. Dalle braccia di mia madre sono passata nelle braccia di mio marito e mi lasciavo guidare. Ora che sono rimasta sola per questa maledetta guerra, devo camminare da sola e ho capito che niente di
quello che mia madre e mio marito mi hanno insegnato mi serve. La prima cosa
che mi serve è essere sincera con me stessa.
– E quindi? – fece lui, impaziente.
– Io ti amo, Raffaele, ma non credere che io sia una di quelle. Solo una forte passione poteva farmi decidere a questo passo, ma ho un debito con mio marito. Non me la sento di lasciarlo finché non torna sano e salvo.
– Ma cosa vai a pensare… vieni qui, sciocchina…
– Raffaele, io non voglio perderti tanto presto.
 -Perché dovresti perdermi? Non vedo il motivo per lasciarti ora che ti ho – cercò di rassicurarla.
– Non fare il finto tonto, dottore. Ci sono modi di volere bene a una donna che sono peggio di abbandonarla – terminò strizzandogli l’occhio e, abbandonandosi nella sue
braccia, posò la testa sul petto di lui che le accarezzava i capelli con la calma dell’uomo che sa di avere il mondo ai suoi piedi.
Giulia era sempre docile e tenera e per Raffaele il gusto della conquista su cui ormai aveva capito di aver fondato il suo affetto vacillava perché non c’era più nessun segreto di lei che potesse ancora scoprire. Capiva che aveva creduto di amarla per la dedizione con la quale lei gli si donava anima e corpo. Capì che tutto ciò lo annoiava. In fin dei conti non le aveva dato nulla di suo. Non aveva partecipato attivamente a quello scambio infinito e inspiegabile che è l’amore ed era giunto al punto in cui pensava all’amore di Giulia come ad una rappresentazione angosciante che non lo riguardava se non nel momento in cui i suoi sensi erano esaltati. Eppure andava avanti.
Una sera, tornando dal teatro dopo aver accompagnato Giulia con altri amici comuni, decise di fare una passeggiata solitaria e, senza rendersene conto, si trovò sotto il palazzotto dove abitava la famiglia Boccuti. Gli avevano presentato, giorni prima, Elvira, la ricchissima ereditiera di quella famiglia; istintivamente alzò gli occhi verso le finestre illuminate e gli sembrò di vederla dietro i vetri. Aspirò il sigaro e, sorridendo tra se e se mentre scrollava la testa come per allontanare dei pensieri strani, continuò la passeggiata. Ma il tarlo gli si era insinuato e da quella sera, approfittando del tepore primaverile, cominciò a passeggiare intorno al palazzotto, finché, finalmente, non la incontrò che scendeva dalla carrozza, accompagnata dal padre.
Grandi cerimonie per magnificare la sua scienza medica e l’invito del padre a bere un bicchierino di sciacchetrà. Il resto avvenne in pochi giorni.
“Devo rompere con lei”, cominciò a pensare, “ma come? E con quale pretesto?
Nonostante ormai mi annoi, non mi va di darle una sofferenza inaspettata e brutale. In fondo mi ha amato e mi ama, per me sfida le maldicenze della gente e anche la galera se il marito venisse a saperlo; meglio prepararla lentamente, dicendole una parola oggi e una domani, portarla a capire con esempi insistenti quello che è giusto che faccia. Si, è molto meglio lasciarle intuire certe cose che dirgliele direttamente”.
Cominciò a inventare dei pretesti per limitare gli orari delle visite di Giulia e non appena se ne andava, correva a casa Boccuti per parlare con Elvira, così ogni dissidio interiore gli si calmava. In quei momenti l’amante svaniva nei suoi pensieri come la nebbia mattutina appena il sole riscalda l’aria; rivedeva la ragazza in quelle sue pose inebrianti che gli rivolgeva occhiate languide, sensuali, mentre gli parlava con quelle labbra che sembravano fatte per dare baci. Si, Elvira era la donna per lui: giovane, bella, libera e per di più con un considerevole patrimonio in dote.
Con Giulia si comportava come il più cinico degli amanti. Le sue effusioni lo infastidivano, così come la sua allegra risata gli suscitava un sentimento di rancore. Ma possedere Giulia era un bisogno quotidiano che, se non soddisfaceva lo lasciava smanioso nel letto.
L’occasione per cominciare a prepararla al distacco gli si presentò la volta in cui non potè fare a meno di accettare un invito a casa di Elvira, dove si fermò fino a
notte fonda.
Giulia, nonostante Raffaele credesse il contrario, già si era accorta del cambiamento e le spiegazioni che il domestico dell’amante cercò goffamente di darle, la ingelosirono oltre ogni misura. La mattina dopo, contrariamente al volere di Raffaele, si presentò in ospedale per ottenere una spiegazione a cui avrebbe creduto qualunque fosse, solo perché voleva credere a ogni cosa che Raffaele le dicesse, ma fu accolta malamente:
– Insomma, mi stai seccando, mi stai sempre tra i piedi!
– Se vuoi che questo sia il pretesto, allora è meglio vuotare il sacco e smetterla con questa commedia – azzardò Giulia – tu non mi vuoi più bene o forse non me ne hai mai voluto.
– Altro che commedia! Siamo al dramma! – ironizzò lui.
– No. Raffaele. Parliamoci sinceramente una volta per tutte – attaccò senza che gli occhi si velassero, così come il suo cuore avrebbe voluto – Non hai pronunciato una sola parola che mi facesse veramente capire che mi amavi. Dalla prima volta ad oggi siamo andati avanti a moine, come dei ragazzini. Non so se sei stato con me per pietà, vedendomi sola in una città estranea al mio mondo. Se così fosse ciò mi offenderebbe a morte e non credo che tu mi abbia presa per una donnaccia perché sai che non è così. Io non ti ho mai chiesto nulla in cambio del mio amore. Posso solo pensare che tu lo abbia fatto per il gusto di avere un’amante. E questo, in fondo, salverebbe il mio orgoglio.
Raffaele stava in silenzio, esitante ad assumersi la responsabilità dell’addio e, anzi,
in cuor suo era contento che Giulia avesse preso l’iniziativa di finire quella storia. Finalmente, non trovò nient’altro di meglio da dire che:
– Stai dicendo cose senza senso che non pensi.
– Oh! Capisco quello che hai in testa! Come fai a pensare che non ti capisca dopo
un anno e mezzo siamo stati vicini giorno e notte? Vuoi dare a me la responsabilità di troncare tutto? Ebbene non ti toglierò dai tuoi impicci.
– Facendo così non fai altro che anticipare la tua fine – sibilò con dispetto Raffaele.
– Io non potrei fare a meno di te… sono qui… sempre tutta per te… – disse disperatamente, quasi buttandosi ai suoi piedi. Ma la cacciò via in malo modo.
Il giorno dopo Giulia tornò da lui e litigarono ferocemente. Lei, per la rabbia, staccò dal portafotografie sulla scrivania di Raffaele una fogliolina di edera finta, rigirandola tra le dita e portandosela via quando se ne andò.
Lui, ormai stanco delle discussioni quotidiane e, temendo che tutto venisse alle orecchie di Elvira, andò a confidarsi con suo intimo amico, un maggiore dei carabinieri il quale gli disse che ci avrebbe pensato lui a mettere tutto a posto; sarebbe bastato farle un po’ di paura con la minaccia di una denuncia per furto e così mandò due carabinieri a casa di Giulia e la fece portare in caserma. Lei, per difendersi dalle false accuse, raccontò al maggiore e ai carabinieri presenti tutti i particolari della sua storia d’amore. Successe un putiferio. Alle minacce del maggiore seguirono le minacce di Giulia a rivelare tutto pubblicamente in Tribunale quando si sarebbe fatta la causa. Tornata a casa, capì che ormai aveva perso Giacinto, Raffaele, l’onore e cominciò a meditare un gesto insano. Tra le lacrime prese carta e penna e scrisse una lettera all’amante:
Ma dimmi, dimmi che
t’ho rubato per mandarmi i carabinieri a casa, e farmi chiamare in caserma? Io nulla t’ho preso, solo ho staccato una foglia di edere, tu sai bene di mentire col dire che t’ho rubato un quadro, tu ora vuoi farmi del male è vero? Tu vuoi ora inveire contro la donna che ti si è data per più di un anno, e solo per affetto. Va, sei vile, e ti disprezzo, e in questo momento mi sento superiore di molto a te. Che hai ottenuto? Hai ottenuto solo che fra pochi giorni la cosa si saprà in tutta Cosenza, perché in caserma oltre il S. Maggiore c’era pure due carabinieri, e certamente per scolparmi ho dovuto dire come sono le cose, figurati il putiferio che ci fu, certamente che io non potevo essere incolpata di ladra. Se prima potevo nascondere tutto a mio marito, ora come faccio? Che accadrà? Ora che mi resta di fare, svergognata in paese, e il timore di mio marito, ora mi resta solo che togliermi la vita. Ecco la ricompensa, ecco quello che hai fatto alla donna che t’ha voluto bene più della vita. In me era giusto, e compatibile anche se avessi minacciato come dici tu (mentre poi non è vero) ma io non avevo fatto ancora nulla, ma tu no, non hai agito lealmente, ne da gentiluomo, e la tua fidanzata dovrebbe rifiutarti solo per la parte che mi hai fatto. Io ho mancato e vero, il mio fu un fallo grave, ma se non perdonabile almeno sarà compatibile perché solo un grande e disgraziato affetto che mi ha trascinato, ma tu sei doppiamente colpevole, con avere accettato la moglie di un altro, e per di più un soldato. Io potrei anche riconoscere alla legge e avere sodisfazione della colpa che mi fai di averti rubato. Tu ora temi di perdere la tua fidanzata, e più ancora la sua vistosa dote, e per questo vuoi farmi del male, ma ti sbagli, io protesterò energicamente. 
Non temere, io non mi abbasserò di fare scene in mezzo alla via. Va, va Raffaele. Non meritava Giulia questa ricompensa, ma ricordati che quello che si fa, si aspetta 
Raffaele, visto che la trappola organizzata col suo amico non funzionò, preferì cambiare di nuovo strategia e sembrò diventare più tenero con Giulia e lei sembrò avere accettato il fatto che tra loro fosse finita. Ma poi tutto precipitò di nuovo quando Giulia andò a casa di Raffaele per riprendersi la fotografia che gli aveva dato e scoprì che lui l’aveva distrutta. Tutto questo glielo rinfacciò in un’altra lettera:
Perdonami ancora una volta della seccatura che ti do di leggere le mie sciocchezze come le chiami tu. Immagino il moto di noia che farai vedendo ancora una mia lettera, ma sta pur certo che sarà l’ultima. Dimmi perché hai stracciato la mia fotografia? Che diritto avevi di far questo? Ti avevo scritto di restituirmela se non la volevi, perché non l’hai fatto? Sei cattivo ed ingrato, e ti dico ancora una volta sei come tutti gli altri, mi ero illusa vedendoti superiore tanto agli altri, e in questo momento rimpiango, e piango nello stesso tempo.
Ma che uomo sei tu mio Dio? Che all’impeto di una passione così profonda e leale, e che al grido di chi invoca soccorso sentendosi perdere, non ti muovi, e resti così indifferente? Mi hai detto che ti dispiace di non essere compreso, e che devo comprendere mio Dio? Comprendo abbastanza, comprendo che nulla t’importa di me, e se Domenica sei stato tanto buono parlandomi calmo, non per riguardo a me, per riguardo al mio dolore, ma solo perché temevi che in un momento di sconforto, ti recassi qualche seccatura. Ma se tu fossi certo che io me ne andassi all’altro mondo senza recarti danno, sono più che certa, che non ti farebbe né freddo, ne caldo la mia fine. Ieri quando sono venuta per la fotografia ti sarai accorto che soffro terribilmente, ti sarai accorto che in pochi giorni mi sono fatta la metà, ma dalla tua bocca non è uscita una parola, per calmare il mio dolore, eppure una tua parola mi avrebbe fatto tanto bene.
Senti, per me ormai tutto è finito, che mi resta più? Dolore vergogna e anche rimorso, e anche forse il tuo disprezzo. Fino che avevo la speranza di venire da te, soffrivo per altre ragioni, ma mi consolava di tutto il pensiero di te, ed ora? Sono così sconfortata in questo momento che solo un miracolo mi può salvare. Io mi punirò, ma nello stesso tempo punirò anche te, per non avere avuto compassione di me, per non avere voluto comprendermi. Oh sta certo ti ricorderai di me, sarà con rammarico ma ti ricorderai. Se fossi stata certa  che una forte ragione ti costringeva ad agire così, ma che mi fossi accorta che ti dispiaceva di recarmi dolore, che ti fosse dispiaciuto di vedermi soffrire, Oh allora, se non fossi stata buona di guarire, sarei morta benedicendoti, ma vedendoti così freddo indifferente soffro doppiamente. Ora perché ti fa comodo fare così, non t’importa di quello che può accadere a me. Mi sembra però che tutto ad un tratto ti sei fatto scrupoloso. Io per te avrei fatto qualunque cosa, la vita stessa avrei dato pur di vederti contento, quando leggevo nei giornali un articolo che riguardava te, io ero tanto, tanto contenta, e nello stesso tempo ero orgogliosa di te, che bella differenza che passa fra me e te, io tanto affetto, e tu nulla. Ma così va il mondo, sciocca io che credetti in un Dio superiore. Tu dirai che t’ho seccato anche troppo non e vero? Ma tu che sei più intelligente capirai anche che non è colpa mia, in questo momento sento anch’io di non ragionare perdonami, perdonami di tutte le noie recate, ma ricorda sempre che io t’ho amato più che un Dio, perdonami almeno questo
Era ormai chiaro a Giulia che avrebbe dovuto farla finita e passò gli ultimi giorni a procurarsi una rivoltella e dell’altro veleno da mischiare alla fialetta di stricnina che Giacinto aveva lasciato a casa[1]. Voleva essere sicura di non sbagliare. In un modo o nell’altro sarebbe morta.
Con fredda determinazione sgombrò l’appartamento di tutte le sue cose e di quelle
del marito sistemandole in alcuni bauli, poi andò a salutare il commendatore Carmine D’Angelo, Ingegnere Capo all’Ufficio Tecnico di Finanza e diretto superiore di Giacinto, pregandolo di far custodire le casse perché lei sarebbe partita per Messina e per questo motivo aveva lasciato la casa. Sarebbe passato poi Giacinto a ritirarle poiché per lui la guerra era quasi finita dal momento che era stato ferito abbastanza seriamente e adesso era ricoverato nell’ospedale militare di Reggio Emilia. Tornò a casa e scrisse due lettere, una delle quali ripose in un baule bianco che richiuse accuratamente. L’altra la imbustò, ci scrisse sopra un indirizzo e la incollò per bene.
Ormai è scesa la notte tra il 26 e il 27 luglio 1918 e l’indomani, sabato, ci sarebbe
stata la festa per il fidanzamento ufficiale tra Raffaele ed Elvira Boccuti. La mattina del sabato la passa nel letto in uno stato di estrema prostrazione. È stanca, stanca di tutto. Nelle ultime settimane è deperita a tal punto da sembrare una vecchia e non si cura quasi più del proprio aspetto. Ma quel pomeriggio si veste bene ed esce, va alla posta e imbuca la lettera, poi vaga senza meta per la città, incurante dei saluti dei conoscenti. Passa nelle
vicinanze della casa dei Boccuti e sta per un po’ ad ascoltare la musica e i brindisi che provengono dalle finestre aperte. Non più una lacrima. Aspetta che il sole cali e va a casa di Raffaele.
Luigi Susini, il domestico di Giani, sta versando del latte in un pentolino quando,
sono le 20,40, sente bussare alla porta. Apre la porta e resta un po’ sorpreso nel vedere Giulia. Dalle parole che aveva ascoltato qualche giorno prima aveva capito che non ci sarebbero state altre visite.
– Ho portato un piccolo presente… sto lasciando la città… – dice con un sorriso
sforzato.
 La fa entrare e l’accompagna nel salottino. Lei toglie il cappellino di velluto nero, posa il ventaglio e la borsetta, anch’essa di velluto nero, su di una poltrona, siede sul divano e, per ingannare l’attesa, si mette a sfogliare nervosamente un libro. Il domestico la
lascia e torna in cucina per riscaldare il latte.
Giani rientra verso le 21,00 e, informato dal domestico della visita di Giulia, va direttamente nello studio. Posa sul pianoforte la paglietta e il bastone e chiede conto a Giulia del motivo della visita.
– Ti avevo chiesto di rinviare il fidanzamento di un mese… sarebbe tornato mio
marito e io avrei avuto il suo sostegno per continuare a vivere ma tu niente. Adesso non mi resta altro da fare che morire e tu mi porterai sulla coscienza per tutta la vita – dice frugando nella borsetta – la vedi questa – continua mostrandogli la boccetta gialla a collo largo con il veleno – adesso la bevo qui davanti a te e così tutti sapranno di noi…
– Dai… falla finita… mi hai seccato con questa tiritera… ammazzati anche qui, se
vuoi, ti butterò giù per le scale e poi troverò chi dirà che eri venuta per rubare di nuovo e che eri solo una povera pazza! – la sfida, credendo che Giulia non è capace di uccidersi, poi, cominciando a togliersi la giacca, esce dal salottino e si dirige verso la camera da letto – ti lascio sola, fai quello che devi fare…
Giulia sa che Raffaele è un uomo potente e potrebbe tranquillamente mettere in atto la macchinazione. Decide in un attimo. Prende la rivoltella, arma il cane e segue l’uomo nel corridoio.
– Guardami, Raffaele, guardami mentre ti ammazzo – gli dice mentre punta l’arma.
Raffaele si gira e vede la rivoltella puntata contro di lui e il dito di Giulia che tira il grilletto. È incredulo e sgrana gli occhi. Istintivamente cerca di ripararsi mettendo il braccio sinistro davanti al viso. Il primo colpo gli trapassa il polso e gli frantuma la mascella, il secondo colpo lo colpisce alla spalla sinistra e il terzo, quello fatale, gli si pianta nel petto.

Luigi Susini al primo colpo non capisce ciò che sta accadendo ma il grido di dolore del suo padrone lo fa scattare dalla sedia. Non fa in tempo a salvargli la vita e, quando cerca di disarmare Giulia, lei gli esplode contro un solo colpo che colpisce la clavicola sinistra, la quale devia la traiettoria del proiettile che finisce la sua corsa nel polmone, recidendo un’arteria. La morte è quasi istantanea.
Poi Giulia chiama aiuto.
La domenica mattina il portalettere recapita al cavaliere D’Angelo una lettera.
Lui la apre e resta di sasso: 
Egregio Cavaliere, non è vero che io
parto per Messina, parto per non tornare più. Mi sono resa colpevole e non avendo la forza di sopportare l’abbandono dell’uomo che ho avuto la disgrazia di amare (il dottor Giani) e il rimorso di avere ingannato il marito, muoio.
Non mi disprezzi Signor Cavaliere, mi compianga, vede, ho mancato, è vero, ma ho anche il coraggio di punirmi. Dica a mio marito che non ho mai cessato di volergli bene e che solo una forte passione mi fece mancare. Io la ringrazio di tutto quello che ha fatto per me. Mandi a prendere le mie casse. Dica a mio marito che nella cassa bianca e dentro la scatola bianca c’è una lettera per lui.
Io non sono stata alla banca a prendermi i soldi, andrà mio marito. Gli scriva subito quando saprà della mia morte.
Addio Signor Cavaliere
Il cavaliere D’Angelo, appena appresa la notizia della tragedia, va in Questura e
consegna la lettera. Il delegato Cilento effettua una perquisizione nella casa dove Giulia e Giacinto avevano abitato e sequestra la lettera contenuta nella cassa bianca:
Mio caro Pisito
Quando leggerai questa io non sarò più, perdonami, perdonami Pisito mio il dolore che ti recco. La causa fu tutta di quella birbona, non è per scolparmi ma per farti capire come sono andate le cose. Quando fece quell’abborto (e mi sembra anche di avertelo scritto) sono andata (mandata dal dottore Ranieri) dal Direttore dell’ospedale Raffaele Giani, per pregarlo di tenerla all’Ospedale fino a tanto che fosse guarita completamente, per poi mandarla, poi ho dovuto andare, per informarmi di altre cose (sempre riguardo a quella birbona), perché essa aveva incolpato te, e per dirtela bene mi sono affezzionata a questo Giani, lui dopo che ero stata a casa sua mi ha fatto la corte, e dopo pochi mesi sono diventata la sua amante. Ma non disprezzarmi Pisito compiangimi, anch’io mi sono trovata qui sola, in mezzo a gente che non hanno fatto altro che insultarmi, specialmente Feracco e la moglie, e tanto la famiglia ranieri e tutti quelli della corte lo potrebbero dire, e io giuro di non averli fatto nulla. Ma non credere Pisito che io abbia goduto della mia mancanza  tutt’altro, anche dalle mie lettere tu avrai capito quanto io soffrivo, credimi Pisito solo una forte passione mi spinse a mancare, ho lottato molto contro questa passione, ma non ho mai avuto la forza di smettere, lui sembrava avesse per me più che simpatia, ma il giorno 28 Giugno quando sono andata a trovarlo, lo trovai cambiato, mi disse che non dovevo andare più perché lui non era più libero, e che doveva prendere moglie, una signorina di Cosenza con anche una vistosa dote. io ho pregato, e pianto tanto di essere ancora buono, ma inutilmente. trovandomi abbandonata da lui, il rimorso di averti ingannato, e non avendo più il coraggio di presentarmi davanti a te, ho pensato di punirmi del fallo commesso, ma nello stesso tempo punire chi non ha avuto compassione del mio dolore, ho mancato io e vero, ma lui ha mancato doppiamente con l’accettare la donna di un altro , e per di più soldato. Ultimamente poi si è mostrato vile, e poco leale. quando ho saputo del fidanzamento ufficiale, io andai a casa sua e le dissi che non volevo che per ora si sposasse, perché sarebbe come troncare la mia vita, e in un momento di gelosia, tracciai una foglia di edere che teneva in un quadro sopra la sua scrivania, lui appena uscita io, andò dai carabinieri, a denunciarmi col dire che io avevo minacciato, e rubato, tanto che vennero a casa mia due carabinieri, e poi ho dovuto presentarmi in caserma, e davanti al maggiore (amico intimo del dottor Giani) e due carabinieri, per scolparmi dell’accusa, ho dovuto dire come stavano le cose, figurati che ci fu, il maggiore difendeva l’amico, e certamente incolpava. Certamente ormai la cosa si è resa pubblica. Ecco che ha fatto quel vile della donna che si è data a lui per più di un anno e solo per affetto, perché credimi mai io ho accettato nulla, ma spero di riuscire a punire anche lui. E tu Pisito perdonami, perdonami, per il bene che t’ho voluto, solo una forte passione e un disgraziato affetto mi ha fatto mancare. Pisito è vero che mi perdonerai? Sapessi quanto ho sofferto, e in che stato mi trovo in questo momento che scrivo. Pisito, Pisito perdono, ti chiedo perdono con le mani giunte di quello che ho fatto, e tu perdona alla donna che un tempo avrebbe volentieri dato la vita per te, compiangimi, ma non disprezzarmi. Tu sai se io in 18 anni ho mai dato motivo di dubbitare di me, Pisito di nuovo perdono, perdono per quello che soffro in questo momento, e vero Pisito che mi perdonerai? E verrai a trovarmi al camposanto? Oh la guerra, la guerra. In questo momento mi sembra d’impazzire. I miei padroni e la mia serva ti potranno dire in che stato mi trovavo il giorno 27. i miei padronio ti potranno dire quante porcherie a detto sul mio conto quella brutta infame ancora quando era con me, ora si trova a servizio col prof. De Luca. 
Di nuovo Pisito perdono, e perdonami, io benchè avevo un amante non ho mai cessato di volerti bene. Febo l’ho condotto al macello prima di morire, povero animale l’unico essere affezzionato a me, ed io stessa l’ho portato a morire, povero, povero animale, povero Febo, però era troppo vecchio è puzzava già. Non so se capirai gran che di questa lettera, ma quello che ti chiedo e il perdono, e nell’ultimo momento sarà solo il tuo nome sulle mie labbra. Addio Pisito mio, possa tu essere felice, quanto sono stata io disgraziata. Addio, addio perdonami
Le indagini saranno frettolose e stabiliranno solamente che nella boccetta c’era
anche cianuro, ma nessuno si preoccuperà di scoprire come Giulia se lo fosse procurato né tantomeno come fosse riuscita a procurarsi la rivoltella calibro 22.[2]
Domenica 28 luglio su Cronaca di Calabria uscirà l’articolo sul fidanzamento del Prof. Comm. Raffaele Giani con la signorina Elvira Boccuti
Fidanzamento cospicuo.
L’illustre prof. comm. Raffaello Giani, lo scienziato insigne ed il chirurgo eminente, che con tanta competenza dirige il nostro Ospedale Civile, questo professionista valoroso che da pochi anni fra noi ha già conquistato, per il suo valore reale e per le squisite doti dell’animo l’ammirazione unanime non soltanto della nostra città ma della nostra provincia, si è fidanzato con una fanciulla elettissima, appartenente ad una delle più note e cospicue famiglie della provincia, Elvira Boccuti da Longobucco, signorina colta e distinta che unisce, in mirabile fusione tutte le più squisite e suggestive virtù muliebri e che sarà perciò la compagna degna dell’uomo che l’ha prescelta.
Questo fidanzamento, che prelude alla ben auspicata unione di due anime elette, sarà appreso con viva gioia dagli amici ed ammiratori dell’illustre prof Giani e di quanti conoscono pur attraverso un velo di modestia che ne rendono più fragranti le virtù, la gentile signorina Boccuti.
Da parte nostra inviamo ai fidanzati, con vivo sentimento di amicizia devota, con le nostre congratulazioni gli auguri più cordialmente fervidi.[3]
Giovedì 1 agosto uscirà un lungo articolo con la notizia della tragedia e i funerali di Giani e del povero Susini. I lettori, oltre alla cronaca degli eventi leggeranno anche:
(…) Nello spasimo doloroso che dava a tutti una profonda sensazione di sciagura immensa fu sollievo quando si seppe che autrice era stata una veneta: non l’atto insano di una donna nostra aveva resa inerte la mano benefica che a tante creature aveva dato salute, la vita! (…) Un eletto – ché tale era per bellezza fisica e per l’intelletto nobilissimo, Raffaele Giani – non doveva finire vittima della follia erotica e della gelosia aberrata di una isterica![4]

[1] Nella prima metà
del Novecento, piccole dosi di stricnina erano usate in medicina come
stimolanti, come lassativi e come rimedi per altri disturbi dell’apparato
digerente, nda.
[2] ASCS, Processi
Penali
[3] BCCS: Periodici,
Cronaca di Calabria, anno 1918.
[4] BCCS: Periodici,
Cronaca di Calabria, anno 1918.
Ho
amato la figura di Giulia Moro dalla prima volta che ho letto la sua storia, nel
settembre 2010, e per raccontarla ho lasciato andare un pò la penna. Un paio di
anni fa comprai dei fiori e andai al cimitero di Cosenza per deporli sulla sua
tomba ormai dimenticata da tutti, ma scoprii amaramente che, come capita a
tutti coloro che vengono tumulati nella nuda terra, dopo venticinque anni i
suoi resti furono dissepolti e distrutti.  I fiori li posai nella cappella riservata ai
bambini.
Le
salme di Raffaele Giani e Luigi Susini, vittima innocente, dopo qualche giorno
dalla morte furono traslate nella cappella privata della famiglia Giani a
Fucecchio, dove riposano tutt’ora.

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