L’ULTIMO TRENO DELLA SERA

Sono quasi le 20,30 del 24 agosto 1932 quando il Vice Brigadiere Angelo Negri ed il Carabiniere Seminario sentono fischiare il treno, l’ultimo della sera, che si sta fermando nella stazione di Scigliano.

– Ecco, il servizio di pattugliamento è finito, torniamo in caserma – dice il sottufficiale ed i due si avviano.

Dal treno, tra gli altri, scende anche Bernardo Bidone, appena tornato definitivamente dall’America dopo anni da emigrato, durante i quali è riuscito a costruirsi una buona posizione col commercio di generi alimentari ed una sala da biliardo. La moglie, la figlia, i parenti e gli amici gli corrono incontro e lo abbracciano, poi Bernardo prende per mano la figlia e tutti insieme si avviano verso casa nella frazione Petrisi. Arrivati a pochi passi dall’abitazione, dal buio spunta un uomo che gli si para davanti e gli chiede:

Mi conosci?

Bernardo non ha nemmeno il tempo di rispondere, perchè l’uomo estrare una rivoltella, gliela scarica addosso uccidendolo all’istante e poi scompare nel buio lasciando nello sgomento i presenti, che cominciano ad urlare il proprio dolore.

I due Carabinieri hanno fatto solo pochi passi quando sentono, in rapida successione, cinque colpi di arma da fuoco corta provenire dalla frazione Petrisi. Una bestemmia rimasta strozzata in gola e subito i due corrono a vedere cosa è accaduto.

Arrivati trafelati sul posto, nella pubblica strada di detta frazione, in mezzo a persone che si disperano ed una piccola folla di curiosi che le circonda, vedono il cadavere di un uomo.

– Chi è? – chiede il Vice Brigadiere ad uno dei presenti, indicando la vittima.

– Bernardo Bidone, era appena sceso dal treno…

– Si sa chi è stato?

– Si, Felice Pallone, l’hanno riconosciuto tutti. Pare che dopo averlo ucciso si sia diretto verso casa, di là…

– Accompagnateci!

– Ma è armato!

– Basta che ci indicate la casa, poi potete andare.

Mentre i tre vanno verso la casa di Pallone, un uomo esce da un orto. L’accompagnatore fa segno al sottufficiale che si tratta dell’assassino e si blocca, mentre i militari intimano all’uomo di fermarsi e di alzare le mani. Si, è proprio Felice Pallone e in tasca ha ancora la rivoltella con tutte e cinque le cartucce esplose. Viene portato in caserma e interrogato:

– Si, sono stato io. Gli ho sparato tutti e cinque i colpi della rivoltella.

– Perché?

Era da quattro anni che avevo in animo di vendicarmi di lui perché in America aveva messo in giro la voce che mia moglie, durante il periodo che ero emigrato, aveva coltivato una illecita relazione con un mio parente e rimasta incinta era anche volontariamente abortita.

– Hai aspettato quattro anni? Perché non lo hai ucciso in America?

Essendo ancora inconsapevole della diceria che correva sul mio conto non riuscivo a spiegarmi la ragione per cui venivo deriso e beffato non solo dai compaesani come me emigrati, ma anche dai miei conoscenti americani. Però avevo intuito che mi si teneva celata qualcosa di grave avvenuta nella mia famiglia, onde scrissi a mio padre chiedendo ansiosamente notizie. E mentre con l’animo in tumulto ero in attesa della risposta, che tardava ma finalmente arrivò rassicurante, appresi l’odiosa voce ed il nome di chi l’aveva propalata, senza che in America mi riuscì più di rivedere Bernardo Bidone perché questi, temendo la mia giusta vendetta, scomparve dalla città. Io, poi, temendo che Bidone, conscio dei miei propositi di vendetta, potesse farmi del male, decisi di abbandonare l’America e feci ritorno nel dicembre 1928. Appena ho appreso che Bidone sarebbe giunto in paese stasera con l’ultimo treno, di nascosto dai miei familiari mi sono armato di rivoltella e quando effettivamente è arrivato l’ho affrontato e dopo avergli domandato se mi conoscesse gli ho sparato tutti i cinque colpi della rivoltella

Cinque colpi tutti a segno: uno al braccio destro, con frattura dell’omero, che finisce la sua corsa nella regione laterale del torace; uno al lato destro del petto; uno nella regione epigastrica destra; uno al dorso accanto alla scapola sinistra; un altro al dorso in corrispondenza dell’ottavo spazio intercostale di destra. Tutti e cinque colpi sono penetrati in cavità e hanno leso gli organi interni, determinando la morte quasi istantanea di Bernardo Bidone.

Le indagini però smentiscono la dichiarazione di Felice Pallone, infatti i Carabinieri accertano che mai in America, né nel comune di Scigliano era corsa la voce calunniosa ai danni della moglie del Pallone e lesiva del decoro di lui. E ciò è stato riferito dai testi Roberto Leone, Angelantonio Damiano e Vincenzo Pugliano i quali, trovandosi in America allorché ivi dimoravano anche Pallone e Bidone, hanno assolutamente escluso che costui avesse mai messo in giro alcuna voce riflettente l’onorabilità della moglie di Pallone, soggiungendo che una siffatta diceria mai circolò. Non si spiega per quale motivo Bidone avrebbe dovuto creare di sana pianta e divulgare una voce così gravemente offensiva, dal momento che egli in America aveva sempre serbato buoni rapporti con Pallone. Certo non lo poteva animare il sentimento dell’invidia, come l’imputato vorrebbe dare ad intendere; semmai l’invidia e la gelosia potevano essere da parte di Pallone, che era riuscito soltanto ad occuparsi come custode notturno in una società per l’industria dell’estrazione del carbone e non da parte di Bidone, che all’estero si era costruito una discreta fortuna col gestire una rivendita di generi alimentari ed anche una sala di bigliardo, molto frequentata da clienti di diversa nazionalità.

Questi sono dati di fatto, ma gli inquirenti, per smontare le affermazioni dell’imputato, fanno anche un ragionamento logico: è smentito anche dal comportamento da lui serbato allorché fece ritorno in paese. Se davvero, come egli dice, quando ritornò in Italia non era completamente sereno e dall’animo di lui non erano del tutto cancellati i sospetti velenosamente inoculati da Bidone, non avrebbe mancato di indagare presso parenti ed amici per informarsi della condotta della moglie durante la sua assenza per sapere la verità delle cose o conoscere, almeno, se la propalazione avesse avuto una qualche insidiosa origine in paese. Sarebbe stato logico ed umano comportarsi così, invece nulla di tutto ciò: non parlò di quanto era accaduto ad alcuno, non si confidò nemmeno col fratello e col padre, onde appare evidente che la discolpa da lui adottata non è che una mera escogitazione difensiva per attenuare la gravità del reato commesso e per dissimulare il vero motivo che lo spinse al delitto.

Su queste basi Felice Pallone viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio premeditato e la mancanza di un movente accertato potrebbe, in aula, comportare la contestazione dell’altra aggravante dei futili motivi.

La causa si discute il 25 gennaio 1934 e Felice Pallone insiste nella versione della voce denigratoria messa in giro dalla vittima, per cui la sua difesa chiede che gli vengano concesse le attenuanti dei particolari motivi di natura morale e sociale e dello stato d’ira per fatto ingiusto della vittima e, presentando alcuni certificati medici della madre e del fratello, chiede anche che sia sottoposto a perizia psichiatrica. La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, innanzi tutto osserva che l’imputato, con l’addurre una causale che per quanto si è rilevato è del tutto insussistente, ha in tal modo taciuto il vero movente che lo indusse a consumare l’uccisione. Per altro non giova ricercarla dappoiché l’indagine circa la causale si impone nei processi in cui l’accusa è indiziaria e non pure nei casi in cui l’autore è manifesto in base a prove certe e sicure e per la sua stessa confessione. Poi continua: ne consegue che non possono concedersi all’imputato le due attenuanti richieste, dal momento che non può parlarsi di fatto ingiusto della vittima e manca la causa d’onore che avrebbe armato la mano di Pallone. Senza dire, poi, che se si volesse dare credito alla versione del giudicabile, non potrebbe da lui invocarsi la provocazione dato il lungo periodo trascorso e l’avere riacquistata la certezza, al ritorno in patria, che la sua famiglia non si era macchiata di colpa alcuna avrebbero dovuto certamente far dileguare ogni risentimento in un uomo normale. E tale è, fuori di ogni dubbio, Pallone il quale, da tutti descritto come un onesto lavoratore, si era recato in America col lodevole intento di procurarsi lavoro e così migliorare le condizioni della sua famiglia. Se egli, prima del delitto, nonostante i suoi 45 anni di età, mai fece parlare di sé, se non è stato mai riferito alcun episodio che si riferisca alla sua vita anteatta e possa anche lontanamente far dubitare della pienezza della capacità d’intendere e di volere di lui, appare evidente l’infondatezza della istanza diretta ad accertamenti psichiatrici, i quali sono stati invocati in base a certificati che riguardano non la persona dell’imputato, sibbene un fratello e la madre, in modo vago e generico dichiarata neurastenica.

Ma c’è ancora da discutere sulla terribile aggravante della premeditazione e la Corte osserva: circa l’aggravante della premeditazione, Pallone, all’evidente scopo di dare una base ancora più concreta alla causale di onore e al conseguente turbamento dell’animo suo per la gravità dell’offesa arrecatagli, nei suoi interrogatori ha insistentemente affermato di avere per lungo tempo meditato di vendicarsi di Bidone. Ed indubbiamente egli volle vendicarsi. Bidone, però, era in America ed era incerto se e quando sarebbe ritornato; e se così è, nella mente dell’imputato non poté sorgere che l’idea informe e confusa del delitto. Il mero proponimento formato prima dell’azione, senza che la vittima per peculiari circostanze possa essere in qualche modo a disposizione dell’agente, non può ancora dirsi ferma e decisa risoluzione, specie pel difetto a causa della lontananza della vittima e dell’incertezza del suo ritorno, di quella paziente, tenace e sagace preordinazione dei mezzi di esecuzione del reato, che quasi sempre è inseparabile dal concetto di premeditazione. Ed è, inoltre, dubbio se la determinazione a delinquere da parte di Pallone abbia persistito per tutto il periodo di tempo intercorso fino alla consumazione del delitto. Onde è che, stante anche tale dubbio, si ravvisa giusto escludere la premeditazione, la quale non può fondarsi sulla circostanza che Pallone, come seppe che in paese si era diffusa la voce dell’arrivo di Bidone, preparò i mezzi di esecuzione del delitto e corse ad ucciderlo, stante la brevità dell’intervallo di tempo fra la notizia dell’arrivo e l’attuazione del proposito omicida.

Sembra essere tutto e la Corte può passare alle considerazioni finali: Pallone, pertanto, deve essere dichiarato responsabile di omicidio volontario, essendo certo che egli volle l’evento mortale, come è fatto palese dal genere di arma usata, dalla reiterazione dei colpi, dall’esplosione di essi a brevissima distanza e, infine, dall’essere stati gli stessi diretti a parti vitali del corpo. Stimasi giusto infliggere all’imputato la pena massima stabilita per l’omicidio e cioè anni 24 di reclusione – oltre alle spese, ai danni ed alle pene accessorie –, tenuto conto di tutte le modalità del gravissimo fatto di sangue ed in ispecie perché l’imputato con il troncare la vita di Bernardo Bidone nell’attimo in cui questi, dopo lunghissimi anni, riabbracciava i suoi cari e sotto gli occhi di costoro, ha rivelato di essere di indole perversa e di avere l’animo chiuso ad ogni sentimento di umanità.

I precedenti penali immacolati di Felice Pallone fanno sì che possa godere dei benefici del R.D. 5 novembre 1932 e vedersi condonati anni 5 della pena.[1]

Ma il vero motivo per cui ha stroncato la vita di Bernardo Bidone rimane sconosciuto.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.