L’ATROCE DELITTO

È la notte tra il 27 e il 28 gennaio 1944. Alcuni malviventi si introducono nell’abitazione della settantaduenne Mariantonia Timpano, a Melito Porto Salvo, per compiere un furto facile facile perché l’anziana, che ha fama di essere persona ricca, vive da sola. Ma qualcosa va storto. La donna si sveglia all’improvviso e vede il tenue bagliore di una lucina vicino alla porta della stanza da letto. I ladri si bloccano immediatamente, ma è troppo tardi, Mariantonia ha visto l’ombra di un uomo proiettata sul muro e cerca di urlare, ma per sua sfortuna non si è accorta dell’uomo che si era avvicinato al comodino con l’intenzione di aprirlo per cercare qualcosa di prezioso da prendere e che in un attimo le mette le mani alla gola e le impedisce di emettere un qualsivoglia suono. Ma forse per i ladri il fatto che Mariantonia si sia svegliata può essere l’occasione di fare tutto più in fretta perché sarà lei, sotto la minaccia di ammazzarla, a dire dove tiene nascosto l’oro.

La donna, però, non ha nessuna intenzione di rivelare il suo nascondiglio segreto e resiste, nonostante la pressione delle mani dell’uomo sulla sua gola si faccia sempre più forte e lei riesca a respirare sempre con più difficoltà. Niente, nemmeno un cenno a voler dire di fermarsi perché sta morendo. A questo punto i ladri si trovano di fronte ad un tragico bivio: darle una botta in testa per tramortirla e darsela a gambe prima di essere scoperti o continuare con metodi più convincenti, correndo tutti i rischi del caso? Gli scellerati scelgono la seconda via e allora mettono mano ad un coltello e ad un paio di forbici trovate sul comò e cominciano a seviziare la povera vittima infliggendole prima colpi superficiali ma molto dolorosi, poi colpi sempre più profondi per fiaccarne le resistenze. Finalmente Mariantonia, stanca di sopportare tutta quella violenza e tutto quel dolore, con la testa fa un cenno. I ladri, meglio chiamarli aguzzini, capiscono e smettono di colpirla, le legano le mani dietro la schiena e per non farla urlare le ficcano in gola un pannolino da donna, poi si dedicano a fare razzia del piccolo tesoro. Finita l’operazione, sorridenti e soddisfatti dal bottino accumulato, se ne vanno e lasciano Mariantonia ferita, legata e col pannolino in gola, il che equivale a condannarla ad una morte atroce per dissanguamento e soffocamento.

Difficile stabilire quanto sia durata l’agonia della povera donna, la cosa certa è che la mattina seguente alcuni vicini, insospettiti dalla porta spalancata e dalla confusione che si intravede in casa, entrano e si trovano davanti all’orrore che suscita la visione del cadavere martoriato di Mariantonia.

I Carabinieri indirizzano subito i loro sospetti nei confronti di quattro giovinastri del posto: Alfonso Spinella, suo cugino Francesco Spinella, Andrea Scopelliti e Andrea Focà. Li fermano e li interrogano, ma i quattro dicono di non saperne niente e insistono per un po’ su questa linea. Poi, quando i Carabinieri cambiano il metodo degli interrogatori, Alfonso Spinella cede e confessa l’atroce delitto:

– A fare il furto siamo stati io, mio cugino Francesco, Scopelliti e Focà… mio cugino e Scopelliti hanno ammazzato la vecchia, mentre io e Focà siamo rimasti all’ingresso a fare il palo – poi indica il luogo dove è stata nascosta la refurtiva.

La confessione con la chiamata in correità degli altri tre e il ritrovamento della refurtiva sono risultati significativi per gli inquirenti, ma c’è bisogno di altre conferme per circoscrivere ogni singola responsabilità nella commissione dell’atroce, orrendo, inutile omicidio, così Alfonso Spinella viene messo a confronto con gli altri tre e, mentre Focà conferma di avere fatto il palo, gli altri due continuano ostinatamente a negare tutto, ma alla fine cedono e confessano anche loro, cominciando però il solito giochino di scaricare l’uno sull’altro la responsabilità della materiale uccisione della povera Mariantonia. Le uniche cose sulle quali i quattro si trovano d’accordo nella ricostruzione dei fatti è che avevano concordemente stabilito l’assassinio e che, in caso di scoperta del medesimo, dovevano farsi salvi Francesco Spinella e Francesco Scopelliti che, liberi, avrebbero provveduto alla difesa degli altri due, ma prima “avevano sacramente giurato” di non parlare anche a costo della vita. Evidentemente non avevano considerato che l’atrocità del delitto commesso avrebbe giustificato anche l’ingiustificabile nei metodi di interrogatorio da parte dei Carabinieri.

Rinviati al giudizio della Corte d’Assise di Reggio Calabria, in udienza tutte e quattro le difese richiedono di sottoporre i propri assistiti a perizia psichiatrica in base all’asserto che siano tutti e quattro epilettici o seminfermi di mente.

All’improvviso, durante una delle udienze, Francesco Spinella crolla a terra dimenandosi scompostamente nella gabbia riservata agli imputati. Attimi di panico conditi da urla altissime dei familiari, che subito si precipitano davanti alle sbarre portando un boccale di aceto per far rinvenire il congiunto. Immediatamente viene fatto chiamare il dottor Sorgonà, che lo visita ed esclude essersi trattato di un attacco epilettico. Si può andare avanti, la Corte respinge le richieste di perizia psichiatrica ed il 14 marzo 1945 tutti e quattro vengono condannati all’ergastolo per omicidio e rapina. Tutti e quattro ricorrono per Cassazione e la Suprema Corte, il 7 marzo 1947, respinge i ricorsi di Focà, Scopelliti e Alfonso Spinella, ma accoglie quello di Francesco Spinella e annulla la sentenza che lo riguarda, rinviando gli atti alla Corte di Assise di Catanzaro perché venga riesaminata la richiesta di perizia psichiatrica avanzata dall’imputato.

Perché questa decisione? Perché durante la detenzione di Francesco Spinella nella casa penale di Favignana, periodo a cavallo tra la sentenza d’Assise e quella della Cassazione, è addirittura intervenuto un esame tecnico sulla salute mentale di costui, avendo presentato disordini della condotta tali da far dubitare della sua integrità mentale. Esame tecnico svolto nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, dove è rimasto dal 2 dicembre 1945 al 14 febbraio 1946, data nella quale fu restituito allo stabilimento di provenienza, avendo l’alienista, Direttore del manicomio, escluso che Spinella fosse, comunque, infermo di mente.

La Corte catanzarese ha certamente molti più elementi di quella reggina per poter prendere una decisione inattaccabile, visto che oltre alla perizia psichiatrica dispone di molte più carte da potere esaminare, come per esempio i certificati medici rilasciati dai dottori Mascianà e Saccà, quest’ultimo medico delle carceri di Reggio Calabria mentre Spinella vi era detenuto in attesa di giudizio, che lo vorrebbero un soggetto epilettico; come il resoconto dell’attacco dal quale Spinella fu colto in gabbia durante il primo dibattimento o come le segnalazioni del medico della casa penale di Favignana. La Corte catanzarese esamina con attenzione tutto, ma pur ritenendo che le carte contengano molteplici indizi, non ravvisa nessuna seria consistenza e fondatezza, come richiesto dal Codice Penale.

Argomenta la Corte: il dottor Mascianà nel lontano 1936 ha certificato di aver visto Spinella, non però nell’attualità degli accessi, e di avergli rilasciato un certificato medico attestante che fosse affetto da epilessia essenziale, ma né il medico, né l’imputato han saputo dare ragguagli sul motivo pel quale il certificato venne chiesto e rilasciato. È strano che Spinella sia andato da un modesto medico generico di Reggio Calabria, niente affatto meglio qualificato, alla bisogna, del medico della sua famiglia o degli altri medici del suo paese. Strano ancora di più che quel certificato è stato conservato come una reliquia per quasi un decennio e non è mai stato usato prima, pur essendosi presentate gravi occasione per farlo come per la chiamata alla leva oppure quando, nel 1940, fu condannato a più di tre anni per quattro furti. Né maggior forza persuasiva ha l’attestazione del dottor Saccà che, affermando assertivamente la natura epilettica degli attacchi e ponendo su uno stesso piano le osservazioni sue e quelle degli infermieri, non sembra che siasi reso conto della delicatezza di una diagnosi differenziale del morbus sacer, specie nel campo medico-legale dove bisogna tener conto anche dell’eventualità, non infrequente per questo genere di malattia, della simulazione. Circa l’attacco che Spinella ebbe in gabbia, sono senza dubbio da tener presenti le riserve formulate dal consulente di parte, professor Puca, intorno alla fondatezza della diagnosi negativa per l’epilessia, pronunziata dal perito, dottor Sorgonà. Però non è lecito trascurare che il dottor Sorgonà visitò lo Spinella ancora disteso in posizione supina, con le braccia flesse sul torace, le estremità inferiori distese ed inerti. Dunque, se non proprio nell’attualità dell’attacco, certo immediatissimamente dopo, eppure non riscontrò neppure uno dei segni clinici dell’epilessia. Accorsero i familiari portando un boccale di aceto per farlo odorare al congiunto: dunque essi sapevano che l’attacco sarebbe venuto? In ogni modo, quella malattia che durava da circa dieci anni non doveva aver reso esperti i familiari, visto che contro gli accessi del gran male a nulla giova ricorrere all’acqua o all’aceto perché l’epilettico è insensibile anche di fronte a stimoli molto più intensi ed enormemente più dolorosi, come le punture, i bottoni di fuoco eccetera? Infine, la relazione del medico di Favignana che qualificava Spinella epilettico, non ebbe conferma alcuna nel considerevole periodo di osservazione in Barcellona Pozzo di Gotto, durante il quale Spinella non fece rilevare segni clinici da attribuirsi a sindrome epilettica.

Potrebbe bastare per mettere una pietra tombale sulla richiesta della Cassazione, ma la Corte continua: d’altra parte, ai fini dell’ammissione della invocata perizia psichiatrica, a nulla potrebbe giovare l’esistenza di gravi e fondati indizi nel senso dell’afflizione epilettica. Quand’anche ci fosse addirittura la prova dell’epilessia, non sussisterebbero però, nel caso in esame, elementi atti a giustificare, secondo la norma, la perizia psichiatrica. Perché? Perché, esista oppure non esista nello Spinella l’affezione epilettica, due cose però sono certe e intorno alle quali sarebbe del tutto superfluo disporre nuove indagini. La prima è che Spinella non commise il delitto mentre versava in accesso epilettico o in stato epilettico o in stato equivalenziale epilettico; la seconda è che – siano genuini oppure simulati, siano epilettici ovvero di altra origine e natura gli attacchi presentati da Spinella – costui nei periodi interaccessuali e quindi anche nel momento del commesso delitto, ebbe integre tutte le facoltà mentali percettive, affettive, volitive. Che durante la commissione del crimine, che ebbe inizio verso le ore 15 del 27 gennaio 1944 con l’accordo fra i correi e conclusione nelle ore della notte con nascondimento della refurtiva, Spinella non abbia versato in accesso epilettico o in quello stato epilettico costituito dalla reiterazione, senza apprezzabile soluzione di continuità degli accessi epilettici, è cosa che non ha bisogno di essere dimostrata.

Questa Corte sa bene apprezzare come si deve gli insegnamenti del Supremo Collegio circa la possibilità che l’epilessia, specie ove i suoi attacchi siano gravi e frequenti, finisca, col logorio e le torture cui sottopone l’organismo, con l’incidere sulle facoltà mentali e quindi anche sull’imputabilità delle sue vittime anche nei periodi interaccessuali. Ma, pur senza obliare le cautele che un tale insegnamento impone nell’indagine, questa Corte ritiene, però, che nel caso presente esista la prova che Spinella, fosse egli oppure non fosse afflitto dal gran male, compì il delitto nel pieno possesso della normalità psichica.

Oltre che su questo lungo e complesso ragionamento, la Corte basa la sua convinzione anche su altri elementi: il Maresciallo Cavallaro, durante le indagini praticate a Melito Porto Salvo dopo il delitto, non ebbe riferito da alcuno, neppure dai parenti di Spinella, che costui soffrisse d’epilessia. Il dottor Ferrigno, ch’è medico della famiglia Spinella e conosce da molti anni il Francesco, nulla ha riferito circa le eventuali deficienze psichiche di costui. I testi Manganaro Antonino e Maresciallo in congedo Curatola ebbero al loro servizio lo Spinella e lo descrivono come normale, sano, anzi preciso, corretto, equilibrato. Perfino il teste Scambia, indotto dalla difesa, pur attribuendo allo Spinella frequenti attacchi epilettici, precisa, però, come costui, quando non era sotto tali attacchi, lavorava con volontà e diligenza e si portava bene. Dulcis in fundo il giudizio espresso dagli alienisti del manicomio di Barcellona Pozzo di Gotto: si è dimostrato bene orientato, mentalmente lucido, coerente, logico. Non ha mai presentato alterazioni della percezione o della ideazione, né si sono rilevati disturbi della coscienza, quali assenze o fasi confusionali. Il suo contegno è stato sempre calmo, la condotta ordinata; sufficientemente inibiti sono gli istinti.

È inutile dilungarsi oltre e non resta che emettere la sentenza.

La Corte, giudicando in sede di rinvio, respinta l’istanza di perizia psichiatrica avanzata dalla difesa di Spinella Francesco, dichiara il medesimo colpevole dei delitti ascrittigli e, come tale, lo condanna alla pena dell’ergastolo, oltra alle spese, ai danni e alle pene accessorie.[1]

È il primo agosto 1949 e sono passati 5 anni e 7 mesi dall’atroce delitto.

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.