Sono le cinque di pomeriggio del 23 settembre 1889 e il sole è ancora caldo. Sulla strada comunale che da Rende conduce a Cosenza, e precisamente ove incomincia la curva che sta dirimpetto alla Chiesa del Ritiro ed è limitata da un fosso di scolo a diritta di chi scende da Rende, è ferma la carrozza di Monsignor Camillo Sorgente, Arcivescovo di Cosenza, in attesa che il prelato, seguito da un nutrito corteo di sacerdoti, seminaristi e fedeli, arrivi per partire verso la sede Arcivescovile del capoluogo, dopo aver passato la giornata con i seminaristi. Tra coloro i quali seguono l’Arcivescovo c’è il ventenne Giovanni Locelso che, vestito da prete, dal fondo del corteo affretta il passo e si avvicina al prelato, proprio nel momento in cui sta per montare in carrozza. Locelso gli si inginocchia davanti, gli prende la mano e gliela bacia, poi con tono accorato gli dice:
– Monsignore, vi prego, abbiate compassione di me…
– Non ò che fare per te! – gli risponde con modi burberi, poi monta in carrozza.
– Ma perché?
– Non posso dirvi la ragione del mio rifiuto, lasciatemi stare – termina, facendo segno con la mano al giovane di allontanarsi.
Giovanni Locelso si rimette in piedi e, con gli occhi che esprimono tutta la sua delusione, gira intorno alla carrozza, si sporge all’interno attraverso lo sportello e spara un colpo di revolver contro l’Arcivescovo, colpendolo alla coscia destra. Un attimo di smarrimento generale, i cavalli che cominciano a imbizzarrirsi, l’urlo di dolore del prelato e poi lo schiocco della frusta del cocchiere che fa partire i cavalli al galoppo.
Giovanni Locelso ha il revolver in mano e la folla gli si avvicina minacciosamente, così si mette a correre, ma è inseguito da vicino e allora si ferma di botto, si gira e punta l’arma contro gli inseguitori:
– Fermatevi altrimenti vi sparo! – urla. Ottenuto l’effetto sperato, Locelso continua a correre per allontanarsi.
Il Brigadiere Bonaventura Mengol, comandante la stazione di Rende, è in caserma quando sente il botto della detonazione di un’arma da fuoco provenire dalla chiesa del Ritiro. Si affaccia e vede molta gente correre verso la caserma. Supponendo qualche misfatto, esce e si mette a correre verso la folla, ma si imbatte in Giovanni Locelso, che lo ferma tutto conturbato e gli dice:
– Brigadiere, se volete arrestarmi, sono io che ho sparato a Monsignore!
Mengol è incredulo, Locelso è disarmato, ma lo prende comunque per un braccio, lo porta in caserma e lo interroga.
– Perché hai sparato a Monsignore? Dove hai messo l’arma?
– Nel 1882 indossai l’abito talare, adempiendo sempre al mio dovere. Nel 1886, perché giovinotto inesperto, ad istigazione di altra persona ora defunta, chiesi ad un editore libraio di Torino, servendomi di altro nome, dei libri ecclesiastici, che mi furono mandati. Questo fatto venne a conoscenza dell’Arcivescovo di Cosenza, che qui si trovava ad estivare ed ascoltare lezioni. Tuttoché io avessi restituito i libri al suddetto libraio con lire venti pel depreziamento di alcuni di essi, Monsignore ordinò che io non fossi più acceduto al Seminario. Da quell’epoca perdurai nel pensiero di continuare la carriera sacerdotale, non deponendo l’abito. Intanto l’Arcivescovo, a preghiere mie e di altri, si è sempre negato ad ammettermi nel Seminario. Oggi lo stesso si recò qui a visitare i seminaristi e io fui sollecito a presentarmi da lui per baciargli la mano e pregarlo nello stesso tempo a perdonarmi ed ammettermi nel Seminario nel prossimo Novembre. Nei primi momenti che io rivolsi le mie preghiere all’Arcivescovo, egli, dopo di avermi fatto sedere, con bei modi cercò persuadermi che non poteva contentarmi. Alle mie preghiere replicate fu sordo ed inesorabile ed infine, con modi arroganti ed inurbani, mi diede un preciso rifiuto e si allontanò lasciandomi solo ed io me ne andai. A mie premure, per intercedere, all’Arcivescovo si presentarono Federico Costabile, Antonio Capizzano, Domenico Pisani e Serafino Caira e lo stesso li licenziò dicendo che non mi avrebbe fatto mai ascendere al Sacerdozio per tante ragioni e, fra l’altro, che io ero un cretino. Questa ultima parola a me riferita fu causa di farmi alterare e dissi fra me “oggi, prima di partire, andrò dall’Arcivescovo e se continua ad essere ostinato gli lascerò un ricordo”. Ed infatti verso le cinque mi armai di revolver, andai dall’Arcivescovo e lo trovai che stava salendo in carrozza per ritornare a Cosenza. Gli baciai la mano e lo pregai che avesse avuto compassione di me. Egli mi rispose con modi burberi “Non fa per te!” e si sedette in carrozza. Allora io, preso da disperazione, andai dall’altro sportello e gli tirai un colpo di revolver diretto alle gambe, con intenzione soltanto di ferirlo e non di ucciderlo, mentre in quest’ultima ipotesi avrei diretto il colpo al petto.
– Qualcuno ti ha, come dire, consigliato di sparare a Monsignore?
– Io ò agito di moto proprio, senza che nessuno mi avesse istigato.
– E il revolver?
– Fuggendo l’ho perso. Credo che mi cadde senza avvedermene.
Incredibilmente sconcertante.
Appena Monsignor Sorgente arriva all’Arcivescovato viene avvisato il dottor Felice Migliori, che gli riscontra una ferita da arma da fuoco corta del diametro di 12 millimetri nella faccia esterna della coscia destra. Il proiettile, attraversate le masse muscolari per ben trentadue centimetri, si è fermato in corrispondenza della faccia interna della coscia, quattro dita traverse sotto la piega dell’anca. Quindi gli presta le cure del caso estraendo il proiettile e medicando la ferita. È andata bene perché il proiettile ha solo rasentato i grossi vasi sanguigni, ma ugualmente il medico certifica che c’è pericolo di vita e la guarigione dovrebbe aversi in un mese e mezzo circa, salvo complicazioni. Solo dopo le cure mediche viene avvistato direttamente il Giudice Istruttore Gaetano Galati che, poco prima di mezzanotte, corre al capezzale del sessantaquattrenne ferito per raccoglierne la deposizione:
– Certo Giovanni Locelso da due anni a questa parte faceva istanza per entrare in Seminario onde ascendere al sacerdozio, ma perché i suoi precedenti non destavano a suo favore, segnatamente perché aveva commesso un furto di libri a danno della ditta Marietti di Torino, per mia responsabilità di coscienza dovetti sempre respingerlo. Questa mane, poi, essendomi recato in Rende per visitare i miei seminaristi, ivi il Locelso si è a me ripresentato e ha rinnovato le sue istanze, ma mio malgrado, per le medesime ragioni, con bei modi gli fui negativo. Allora egli mi disse che sarebbe ancora ritornato per prendersi la risposta. Poco dopo, quattro operai della Società Operaia di Rende vennero da me a patrocinare la causa di Locelso e io dissi loro che mi era assolutamente impossibile di potersi contentare, tanto che gli operai, persuasi della ragionevolezza del mio rifiuto, mi ringraziarono ed andarono via. Disbrigatomi attorno alle sei pomeridiane, ero per montare in carrozza quando mi si ripresentò altra volta Locelso e fece istanza di avere una risposta affermativa. Io invece gli dissi che non era da pensare. Montai in carrozza e sedei al mio posto, allora Locelso, girando dall’altro sportello della carrozza e senza profferire alcun motto, mi esplose un colpo di arma da fuoco col quale mi ferì alla coscia diritta ed immediatamente si diede alla fuga.
A questo punto a carico di Giovanni Locelso viene formalizzata l’accusa di tentato omicidio premeditato e le cose si fanno molto serie anche perché, il 26 settembre, si presenta nell’ufficio del Giudice Istruttore don Vincenzo Zagarese, Vicario Foraneo della Curia Arcivescovile di Cosenza, per consegnare una serie di documenti comprovanti la truffa perpetrata da Locelso ai danni della Tipografia Pontificia ed Arcivescovile Cavalier Pietro Marietti di Torino: 1) domanda fatta da certo Previte Gaspare, prete, in data 14 marzo 1886, con la quale il Locelso chiedea dei libri alla Ditta Marietti di Torino; 2) nota dei libri chiesti a nome di costui e mandati dalla detta Ditta; 3) domanda per lo stesso oggetto fatta da Giovanni Mirabelli, ora defunto, in data 30 marzo 1886; 4) relativa nota dei libri spediti; 5) certificato sottoscritto a mio nome, ma che il Locelso falsificò, col quale si attesta che il Previte Gaspare avrebbe celebrato le messe in pagamento dei libri avuti; 6) lettera dell’editore Marietti in data 16 agosto 1887 con la quale si chiedevano a me informazioni relativamente alle richieste dei libri; 7) cartolina postale direttami dallo stesso editore, con la quale si accusa ricezione di alcuni dei libri restituitigli da Locelso e con la quale si chiedeva il pagamento del prezzo di lire venti per altri libri da esso Locelso ritenuti.
Tra tutti i documenti esibiti, probabilmente il più significativo è la lettera spedita da don Zagarese all’editore in risposta alla cartolina postale:
Pregiatissimo amico,
Conforme all’ultima cartolina postale di V.S. con la quale mi accertava di aver ricevuto i libri spediti a V.S. da Giovanni Locelso, chierico di questo paese, e chiedeva insieme lire venti per alcuni libri ritenuti dal Locelso. Le acchiudo un vaglia di venti lire e così sarà disbrigata questa faccenda. Nel tempo stesso prego la bontà di V.S. di scrivere al Vicario Generale della nostra Archidiocesi, sig. Federico Decano Piraino, che Locelso chierico ha interamente e perfettamente soddisfatto ogni suo debito con la S. Sua e che ella non ha altro a pretendere dallo stesso per l’affare dei libri. Insieme a questa dichiarazione, la bontà sua aggiungerà qualche parola di scusa e di carità e di ciò Le ne sarò io obbligato.
I più cordiali saluti.
Dev. Amico Vincenzo parroco Zagarese, Vicario Foraneo
Che avrà voluto dire?
Comunque, in tutto a Locelso furono spediti 50 volumi per un totale di 179 lire. L’esibizione di questi documenti costa a Locelso anche una denuncia per truffa e occorre sentire il danneggiato per fargli dichiarare se intende o non esporre querela.
Ad essere ascoltato a Torino, il 22 ottobre 1889, è Consolato Marietti, proprietario della Tipografia Pontificia ed Arcivescovile Cavalier Pietro Marietti:
– Siccome volevo incassare l’importo dei libri, mandai le circolari d’uso ma l’Ufficio Postale me le rimandò coll’indicazione che non esistevano gl’individui cui indirizzavo le circolari. Allora mi rivolsi al Vicario Foraneo don Zagarese di Rende per le informazioni. Pochi giorni dopo mi giunsero quasi tutti i libri che risultavano spediti da Locelso Giovanni. Verificai il tutto e trovando che mancavano libri per la somma di venti lire, scrissi al Vicario, il quale mi spedì un vaglia di lire venti a tacitazione del mio avere. Siccome non ne ho patito danno, non sporgo querela.
Il 27 novembre 1889 Giovanni Locelso viene interrogato riguardo al nuovo procedimento penale a suo carico e ammette:
– È vero che io nel 1886, inventando il nome di due preti che non esistevano in Rende e falsificato la firma del Vicario Foraneo, mi feci venire dalla Ditta Marietti di Torino una quantità di libri, facendo credere alla Ditta che li avrei pagati celebrando tante messe quando sarei divenuto prete, ma io in allora ero ragazzo ed inesperto e fui insinuato a ciò fare dal nipote del parroco Zagarese, Luigi Zagarese, ora defunto. Però ho rivalso la Ditta Marietti fino all’ultimo centesimo.
E con le parole di Giovanni Locelso si spiegano sia la sollecitudine con cui don Vincenzo Zagarese intervenne per risolvere i problemi di Marietti, siai suoi accorati appelli.
Ma se l’affare dei libri sembra con tutta probabilità essere la causa, la revolverata a Monsignor Sorgente è l’effetto ed è qui che dobbiamo tornare.
– Nel ventitré di questo mese Monsignor Camillo Sorgente, Arcivescovo di Cosenza, venne in questo paese per visitare i giovani del Seminario che son qui ad estivare ed io fui sollecito di andarlo a visitare – racconta don Francesco Salerno, parroco di Rende –. Ero presso di lui quando si è presentato al prelato il chierico Giovanni Locelso, che insisteva perché lo avesse accolto in Seminario onde ascendere al sacerdozio, ma Monsignore, con modi urbani, cortesi e caritatevoli volle persuadere Locelso che non solo non aveva vocazione per quella carriera, ma difettava ancora dei mezzi opportuni per raggiungerla, facendogli del pari osservare che si opponeva la sua età pel compimento degli studi necessari. Locelso si licenziò dal Vescovo, credo dolente di avere avuto un rifiuto. Per vero, poco dopo, a premure dello stesso Locelso come credo, è venuta una commissione della Società Operaia per patrocinarne la causa presso Monsignore, insistendo sempre perché si fosse degnato accogliere in Seminario Locelso. Il Vescovo ebbe anche per costoro parole dolci e persuasive a convincerli che non poteva accogliere la domanda e finì ringraziandoli della missione caritatevole.
– Pare che Monsignore, invece, usò parole molto dure e offensive come cretino…
– Tanto quando Monsignore conversò con Locelso, che con la commissione, non profferì alcuna parola offensiva al Locelso, e segnatamente quella di cretino.
– Secondo voi è possibile che Locelso volesse uccidere Monsignore e avesse premeditato il delitto, magari istigato da qualcuno?
– Non conosco se il fatto fu premeditato, se Locelso sparò il colpo con l’intenzione di uccidere e se fu da altri insinuato. Sbalordito e col cuore spezzato per l’avvenimento doloroso, non potetti formarmi un criterio del modo come i fatti si sono svolti.
Il Brigadiere Bonaventura Mengol non ha dubbi:
– Ritengo che col dirmi le parole “volevo lasciare un ricordo al Vescovo” significava di volerlo uccidere.
Don Vincenzo Zagarese non era presente al fatto, ma dice di conoscere le ragioni per le quali Monsignor Sorgente negò a Locelso l’accesso al Seminario:
– Io stesso, quando Locelso era giovinetto, lo indussi a vestire l’abito da prete, ma in seguito ebbi a pentirmene perché lo stesso non serbava una condotta corretta e sugellò ogni mio divisamento per una truffa che commise. Scoperta la truffa, credetti mio debito di rapportare il tutto a Monsignore, significandogli che per me non era più buono per il sacerdozio. Ciò ha determinato l’Arcivescovo a scrivere una lettera nella quale m’inculcava di persuadere Locelso che non era adatto al sacerdozio e che se voleva servire Iddio poteva farlo in altro stato ed ordinava, nel contempo, che Locelso avesse svestito l’abito. Fui sollecito a rendere nota la lettera a Locelso, il quale non solo non svestì l’abito, ma continuò a vestirlo, insistendo. Ritengo che Locelso per tale cosa è rimasto adontato non solo di Monsignore, ma anche contro di me e ciò perché la mattina del 23 andante mese, avendo incontrato la mia persona di servizio a nome Nunziata Greco, ed in presenza del signor Luca Scaglione, in tono di minaccia le disse “salutami caramente il tuo padrone e digli che lui mi ha fatto indossare l’abito da prete e lui me lo farà svestire”. Il signor Scaglione, impressionatosi di tale minaccia, lo sgridò.
Il sacerdote e professore nel Seminario Michele Anselmi, lancia contro Giovanni Locelso accuse gravissime circa la premeditazione del delitto:
– La sera stessa in cui avvenne il fatto, Giuseppe Tenuta disse al sacerdote Carlo Maria Lo Gullo ed a Giuseppe Candelise che quindici giorni prima Locelso dichiarò che avrebbe ucciso l’Arcivescovo o in Rende o in Cosenza, qualora costui si rifiutasse ordinarlo sacerdote.
Ma c’è chi smentisce la versione secondo la quale Monsignor Sorgente avrebbe usato solo parole dolci e cortesi nei confronti di Giovanni Locelso. Sono i quattro operai che andarono a perorare la causa del giovane. A parlare per tutti è il mastro di creta Antonio Capizzano:
– Io ed altri miei compagni e amici avemmo incarico di presentarci a Monsignore da parte di Giovanni Locelso per patrocinare la sua causa. Ci presentammo la mattina del 23 andante nel Seminario ed esponemmo a lui l’oggetto della nostra missione, ma egli ci rispose che non poteva accettare Locelso nella carriera sacerdotale perché era un cretino, stupido e malaticcio. Avuta questa risposta, dagli altri miei compagni fu riferita a Locelso.
Intanto Monsignor Sorgente è guarito e viene ascoltato di nuovo per sapere se vuole sporgere querela contro il suo feritore:
– Non intendo far querela contro Giovanni Locelso, faccia la giustizia quel che crede nel suo interesse.
– Ritenete che Locelso vi abbia sparato per ferirvi o per uccidervi? Avete visto quale parte del vostro corpo aveva o avrebbe voluto prendere di mira?
– Non potrei dirvi con precisione quale parte del mio corpo avesse preso di mira nell’esplodermi il colpo di arma da fuoco perché, potrei dire, quasi non lo vidi ma, come tutti credono, ritengo anch’io che ha tirato per uccidermi.
Può bastare. La Procura del re chiede che Giovanni Locelso sia rinviato a giudizio con l’accusa di mancato assassinio premeditato. La difesa, da parte sua, in una lunga memoria difensiva ritiene che gli atti del procedimento dicono che, piuttosto, si sia trattato di ferimento volontario con arma, esclusa la premeditazione e con attenuanti.
Il 10 gennaio 1890 la Sezione d’accusa sposa la tesi della Procura e ad occuparsi del caso sarà, il 18 marzo successivo, la Corte d’Assise di Cosenza.
C’è un inghippo: il nuovo Codice Penale Zanardelli, emanato con R.D. 30 giugno 1889 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1890. Secondo la Pubblica accusa è questo che si deve applicare, ma secondo la difesa è valido il vecchio codice del Regno di Sardegna, promulgato da Carlo Alberto di Savoia il 26 ottobre 1839, entrato in vigore il 15 gennaio 1840, modificato e quindi nuovamente promulgato nel 1859 da Vittorio Emanuele II.
La Corte dà ragione alla difesa perché il vecchio codice è più favorevole all’imputato ed al resto pensa la giuria quando, a maggioranza, alla domanda: L’accusato Giovanni Locelso è colpevole di avere, il 23 settembre 1889, in Rende, nel fine di togliere la vita a Monsignor Giovanni Sorgente, Arcivescovo di Cosenza, compiuto tutto ciò ch’era all’uopo necessario, esplodendogli sulla persona un colpo di arma da fuoco e l’uccisione non avvenne per circostanze indipendenti dalla volontà di esso Locelso? Risponde NO.
Locelso è, come chiesto dalla difesa, ritenuto colpevole di ferimento volontario con arma da fuoco, esclusa la premeditazione e con pericolo di vita per la vittima. In più, la giuria ritiene che Giovanni Locelso abbia commesso il fatto in seguito a provocazione grave da parte della vittima e quindi deve godere della relativa attenuante, oltre a quella di aver commesso il fatto quando era minorenne. Poi c’è la truffa e la giuria lo ritiene responsabile.
Adesso bisogna quantificare la pena da infliggere all’imputato. Fatta una serie di complicati calcoli, la pena per il reato di lesioni viene determinata in mesi 1 di detenzione e quella per la truffa in mesi 6 di detenzione, oltre a lire 20 di ammenda per la truffa e lire 20 per omessa denunzia di arma da fuoco, oltre ai danni da rifondere alla parte civile.[1]
Monsignor Giovanni Sorgente fu Arcivescovo di Cosenza per 37 anni dal 1874 al 1911 quando, all’età di 88 anni, concluse la sua esperienza terrena. A Cosenza, tra le altre iniziative, ripristinò il Seminario, iniziò i lavori per riportare la cattedrale dal “barocco” all’originale stile cistercense e sostenne la Società Operaia.
[1] ASCS, Processi Penali.