I FIGLI DELL’AVVOCATO

Verso le quattro del mattino del 7 marzo 1937 un contadino sta percorrendo la strada che da Mirto conduce a Caloveto quando, giunto a circa due chilometri da quest’ultimo paese, allo svolto di un gomito della strada che in quel punto è in forte pendio, nota su un bordo una motocicletta rovesciata ed a cavalcioni di essa un uomo. Sebbene intuisca che deve essere accaduta qualcosa di grave, tuttavia non si ferma né si avvicina ma, giunto a Caloveto dà l’allarme. Accorrono sul posto molte persone e constatano che l’individuo che ancora inforca la motocicletta è stato ucciso con ben sette tremendi colpi di scure infertigli al capo ed al viso con estrema energia vulnerante.

– È Pasquale Bevacqua! – esclamano in coro i presenti.

Pasquale Bevacqua, giovane assai vigoroso ed aitante era figlio naturale dell’avvocato Luigi Comite, che lo aveva procreato, insieme ad altri sei figli, con la contadina Maria Beraldi, maritata Bevacqua. Dei detti sette figli, però, soltanto l’ucciso, ch’era il primogenito, godeva la maggiore benevolenza del padre, avvocato Comite, del quale amministrava i vasti possedimenti siti in contrada Serra di Caloveto.

Ovviamente, appena appresa la tragica notizia, sul posto accorrono tutti i familiari del povero Pasquale, tra cui la sorella Bambina (una dei sette figli dell’avvocato e di Maria), nonché suo marito Domenico Bevacqua, fratello uterino del morto perché nato da Maria e da suo marito. Bambina e Domenico, come gli altri, sono in preda alla più nera disperazione, piangendo e imprecando contro l’ignoto uccisore.

I Carabinieri di Cropalati, un Sostituto Procuratore della Procura di Rossano ed un medico arrivano nel pomeriggio e possono soltanto assodare che la motocicletta era in posizione di fermo, che Pasquale risiedeva abitualmente nella masseria di contrada Serra, da dove quasi tutte le sere si recava in motocicletta a Caloveto, tornando poi a notte inoltrata. Di più il Maresciallo apprende che la sera fatale Pasquale era arrivato in paese verso le 18,00 ed era ripartito alle 22,30 e che nel tornare a casa era solito fare la discesa a motore spento. Da queste poche informazione si può solo immaginare che l’assassino doveva conoscere bene i luoghi e le abitudini della vittima, da cui doveva essere conosciuto e con cui, anzi, doveva essere in dimestichezza se ad un suo cenno nella notte lunare Pasquale aveva fermato il mezzo senza sospetto. Per il resto buio pesto.

C’è, però, da dire una cosa: quando si passa ad esaminare il cadavere, questo viene ispezionato solo esternamente ed a nessuno viene in mente di accertare, come da prassi, se e quali oggetti si trovino nelle tasche del soprabito e dell’abito che indossa l’ucciso. Soltanto, sbottonando il soprabito, ben chiuso entro la cintura affibbiata, si constata che dalla tasca interna della giacca sporge un portafoglio in cui, con altre carte, vengono rinvenuti due biglietti da dieci lire ciascuno. Fatto ciò, il Magistrato ordina il trasporto del cadavere al cimitero, dove resta altri due giorni prima di effettuare l’autopsia. E solo in questa occasione si può accertare che nelle tasche degli indumenti, oltre al portafoglio, si trovano una lampadina elettrica, una penna stilografica, un temperino, un pacchetto di tabacco “Trinciato forte” con delle cartine da sigarette e delle chiavi.

Il 10 marzo i Carabinieri riferiscono all’autorità giudiziaria l’esito negativo delle indagini per scoprire l’autore dell’omicidio e, vista la situazione, da Rossano mandano a Caloveto un ufficiale dell’Arma per condurre le indagini. E l’ufficiale non sta con le mani in mano perché il 16 marzo procede al fermo di Domenico Bevacqua, fratello uterino del morto e marito della sorella naturale Bambina. Il provvedimento viene giustificato dall’ufficiale perché da un lato ha saputo che Domenico nutriva un sordo rancore e una mal dissimulata invidia nei confronti di Pasquale per essere stato costui prescelto dall’avvocato Comite nell’amministrazione del suo patrimonio, mentre Domenico conservava in famiglia soltanto il ruolo di dipendente salariato, come ogni altra persona di servizio, e, da un altro lato, perché in una perquisizione eseguita in casa di Domenico l’ufficiale ha rinvenuto una giacca lavata di recente, presumibilmente proprio il giorno del delitto o il mattino successivo, come ha riferito tale Rosina Marra, che l’avrebbe notata, quando andò a fare la visita per il lutto, entro un catino lasciato in un angolo del portoncino di casa. In più, l’ufficiale ha sequestrato un vecchio cappello di Domenico perché al lato sinistro del nastro presenta qualche macchiolina sospetta di sangue.

Domenico, da parte sua, protesta con ogni energia la propria innocenza, sostenendo che tra lui ed il fratello uterino ucciso, nonché cognato, erano sempre corsi rapporti di tenero e vicendevole affetto. Poi aggiunge:

Nella sera e nella notte del delitto sono rimasto a dormire nella masseria Serra insieme a mia madre ed a certa Maria Rosa Nigro fino al mattino del 7 marzo in cui, informato dell’avvenuta uccisione di mio fratello, mi recai con loro ed altre persone residenti nella masseria sul posto del delitto.

Ma nonostante la madre, Maria Rosa Nigro e un nuvolo di testimoni, tra i quali anche l’avvocato Comite e suo fratello, confermino l’alibi, l’ufficiale dell’Arma, con rapporti del 6 aprile e 16 maggio 1939, denuncia in stato di arresto Domenico Bevacqua per omicidio premeditato, Maria Rosa Nigro, l’avvocato Comite e suo fratello per favoreggiamento personale e più precisamente per avere, tutti e tre, cercato di ostacolare le investigazioni della Polizia Giudiziaria con false dichiarazioni e i fratelli Comite anche per aver proceduto a investigazioni personali dirette a scoprire il vero autore del misfatto. L’avvocato e suo fratello però vengono subito scagionati ed escono dall’inchiesta. Poi l’ufficiale integra le sue accuse contro Domenico aggiungendo altri indizi: 1) il prevenuto, mentre nel pomeriggio del 6 marzo tenne a far sapere che non aveva più trovato la sua scure che aveva lasciato sul carro con cui aveva lavorato durante il giorno, nel mattino successivo, allorché insieme agli altri congiunti piangeva o fingeva di piangere sul triste fato del fratello, sarebbe uscito nella frase “fratello mio, ti hanno forse ucciso con la stessa mia scure che mi fu rubata ieri perché vedo che alcune ferite sono della stessa lunghezza del taglio della mia scure!”; 2) l’ucciso, nella sera del 6 marzo, portava un orologio marca “Lips”, come ebbero a dichiarare varie persone che con lui ebbero contatto prima che egli inforcasse la motocicletta per far ritorno alla masseria Serra, se non che tale orologio non fu, l’indomani, trovato addosso all’ucciso, ma fu invece rinvenuto dopo alcuni giorni alla masseria Serra dalla Nigro Maria Rosa nella tasca di una giacca dell’ucciso; 3) i coniugi Nigro Luigi e Britti Bambina, i quali abitano nel piano soprastante della casa dove abita l’imputato, riferirono, due mesi dopo il delitto, che la sera in cui questo fu commesso sentirono, verso le 23,00, entrare nella casa di Bevacqua un uomo che dal passo e dalla voce sembrò loro essere proprio lui e che, dopo essersi intrattenuto con la moglie circa una mezzora, tornò ad uscire. Trasmessi gli atti alla Procura, questa dispone una perizia biochimica per accertare la natura delle macchie riscontrate sul nastro del cappello sequestrato a Domenico e delle altre macchie che sono state notate anche sulla giacca lavata. Le analisi accertano che, mentre sulla giacca non c’è traccia di sangue, sul nastro del cappello una delle macchie è di sangue umano. La conseguenza è che in base a questi indizi, terminata l’istruttoria, Domenico Bevacqua viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Rossano per rispondere di fratricidio premeditato. Gli farà compagnia Maria Rosa Nigro che dovrà rispondere di favoreggiamento personale.

La causa si discute il 29 novembre 1940 e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva che nessuno degli indizi, se valutati alla luce di tutte le emergenze del dibattimento e della stessa istruttoria formale, ha alcun serio fondamento o, almeno, consistenza tale da offrire la prova tranquillante della colpevolezza di Domenico Bevacqua. Poi smonta uno ad uno tutti gli indizi: non quello che ha tratto la causale del delitto, ossia al preteso rancore ed all’invidia che il prevenuto nutriva contro l’ucciso per essere stato costui preposto dal padre – avvocato Luigi Comite – alla direzione ed amministrazione dei vasti possedimenti di costui, perché non esistendo nessun vincolo di sangue tra il Comite ed il prevenuto, questi non poteva avere alcun ragionevole motivo per invidiare la sorte migliore di designato erede dell’avvocato Comite capitata al fratello uterino Pasquale. Né poteva, il prevenuto, con l’uccisione di Pasquale attendersi di sostituirlo attraverso l’interposta persona della moglie (sorella consanguinea di Pasquale perché anch’essa figlia dell’avvocato) nell’amministrazione e nell’eredità del patrimonio del Comite in quanto, da indagini espletate durante il dibattimento e trascurate nell’istruttoria formale, si è appreso che l’avvocato Comite ebbe a procreare con la sola Maria, madre dell’imputato, oltre all’ucciso Pasquale, che era il primogenito, ben sette altri figli tra cui due maschi che, scomparso Pasquale, sarebbero stati i designati eredi del Comite. Quanto al preteso odio del prevenuto contro l’ucciso, è rimasto invece accertato da un nuvolo di testi probi ed autorevoli, che l’imputato amava teneramente l’ucciso e menava anzi vanto di questo suo fratello uterino ch’era bello, forte ed aitante e che lo aveva anche tante volte beneficato. D’altronde, con questa causale, secondo cui il prevenuto avrebbe avuto interesse a sopprimere il fratello per sostituirlo nell’eredità, neppure sembrano conciliarsi le modalità stesse con cui il delitto fu consumato, giacché per il numero dei colpi di scure e per l’estrema violenza con cui furono inferti, tale delitto porta evidentemente le stigmate di un delitto determinato da un sentimento di feroce ed implacabile vendetta. Causale, questa, che appare tutt’altro che infondata, ove si pensi che l’ucciso che, come è risultato dal dibattimento, era un giovane, oltre che assai intraprendente con le donne, anche molto audace, manesco e prepotente al punto di non peritarsi di regalare ai fratelli ed agli sposi delle sue amanti, con le corna, anche le botte, può aver ingenerato nell’animo di qualcuno di costoro la sete della vendetta. Ma tale pista fu del tutto obliterata dall’Arma e dal Giudice Istruttore. Quanto, poi, all’indizio concernente la macchiolina di sangue umano rinvenuta sul cappello, esso vale meno di nulla dal momento che è risultato pacifico, in punto di fatto, che alcuni mesi prima del delitto l’imputato, nel potare con la scure un albero di ulivo, si procurò una grave ferita alla testa con recisione di una piccola arteria, dalla quale ben poté spruzzare qualche goccia di sangue sul cappello. Ciò senza dire che l’imputato sia il giorno prima del delitto, sia quando accorse con gli altri congiunti presso il cadavere, teneva un cappello diverso da quello sequestrato, ch’egli aveva dismesso da più tempo perché logoro w vecchio. Ne ha miglior fondamento l’indizio concernente il mancato rinvenimento addosso al cadavere dell’orologio marca Lips che egli teneva la sera del delitto e che invece fu trovato dopo alcuni giorni nella sua stanza alla masseria Serra. Vera o non questa pretesa preesistenza del detto orologio addosso all’ucciso poiché niuno degli inquirenti si curò di accertarne la mancanza al momento in cui si procedette alla prima ispezione del cadavere, che già era rimasto per circa una giornata sulla strada, non si può escludere, innanzi tutto, l’ipotesi che a sottrarre l’orologio possa essere stato qualche altro familiare dell’ucciso. In secondo luogo appare anche poco verosimile che l’imputato, dopo avere ucciso il fratello, si sarebbe indugiato a sfibbiargli il soprabito e poscia a richiuderlo per togliere l’orologio, che val poco, e trascurato invece di togliergli il portafoglio col denaro che vi era dentro. Quanto poi alla dichiarazione della Rosina Marra, secondo cui soltanto essa (e non pure le altre numerose persone che con lei si recarono l’indomani mattina del delitto a far visita di lutto in casa dell’imputato) avrebbe visto la giacca del Bevacqua già lavata entro un catino situato ad un angolo del portoncino di casa, basta soltanto considerare, per escluderne la rilevanza, che se si fosse realmente trattato di una giacca lavata per cancellarne le eventuali macchie di sangue spruzzate dalla testa dell’ucciso, la moglie dell’imputato si sarebbe guardata bene dal tenere quella giacca e quel catino alla vista di tutti nel portone di casa. In base, quindi, a tale considerazione, appare più che verosimile la spiegazione innocente che della lavatura della giacca ha dato l’imputato e cioè che la giacca fu lavata soltanto due o tre giorni dopo il delitto allo scopo di farla tingere di nero, dato il recente lutto. Resta ancora l’indizio concernente la visita notturna che, secondo i coniugi Nigro, Domenico Bevacqua avrebbe fatto verso le ore 23,00 in casa sua nella sera del delitto. Ma, a prescindere dalle affermazioni fatte dalla Maria Rosa Nigro e dalla madre dell’imputato le quali hanno sempre ostinatamente e perentoriamente escluso che Domenico Bevacqua si fosse in qualunque momento della sera e della notte allontanato dalla masseria Serra, ove restò a dormire insieme ad esse nella sua stanza, come credere alla dichiarazione che i coniugi Nigro (la cui inimicizia astiosa contro il prevenuto e la di lui moglie è stata conclamata da tutti al dibattimento) si ricordarono di fare all’ufficiale dei Carabinieri soltanto dopo due mesi dal delitto? Ciò senza dire che al dibattimento essi sentirono il bisogno di annacquare l’originaria loro deposizione asserendo, in sostanza, che essi ebbero soltanto il sospetto che l’uomo il quale in quella sera si recò in casa Bevacqua fosse l’imputato. E resta, infine, la circostanza che l’imputato, mentre piangeva con gli altri il tragico fato toccato al fratello, avrebbe espresso il sospetto che questi fosse stato ucciso con quella stessa scure di cui aveva lamentato la sottrazione il giorno innanzi. Ma ognun vede lo scarso fondamento delle varie congetture che si possono trarre da questo sospetto, ove si consideri che ad una mente grossolana come quella dell’imputato, anche sconvolta per il tragico avvenimento, la perdita della scure e l’uccisione del fratello poterono ben apparire, in perfetta buona fede, come due episodi aventi relazione tra loro.

Una netta e completa stroncatura delle indagini, evidentemente concentrate ad ogni costo in un’unica direzione tralasciando tutte le altre ipotesi investigative. È ovvio che dopo la stroncatura degli indizi portati in aula dalla Procura, adesso sconfessati anche dal Pubblico Ministero, la Corte ritiene, di giustizia, in accoglimento della requisitoria del Pubblico Ministero d’udienza, assolvere tanto la Maria Rosa Nigro, imputata di favoreggiamento, quanto Domenico Bevacqua, imputato di fratricidio premeditato, per insufficienza di prove.

Forse Domenico Bevacqua dopo le parole della Corte si aspettava l’assoluzione per non aver commesso il fatto, ma può andar bene così perché non viene presentato alcun ricorso in Appello.

È il 29 novembre 1940.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Rossano.