La mattina del 23 novembre 1941 Gaetano Rizzuto, trentaquattrenne contadino di Rogliano, esce di casa e non torna più. Amici e familiari lo cercano senza risultato, poi il 27, quattro giorni dopo la scomparsa, il padre, battendo la località Nocelletto, lo trova morto ammazzato a fucilate nel torrente Merone. I Carabinieri iniziano ad indagare ed il Maresciallo, che conosce la storia di Gaetano, ha subito dei sospetti. Qual è la storia di Gaetano? Molto brevemente è questa: Gaetano aveva sposato Virginia Reda, contadina sua compaesana, e dalla unione era nata una bella bambina. Ma verso il 1939, siccome Virginia aveva avuto intime relazioni con Michele Pulice, quarantatreenne contadino, i due si separarono di comune accordo. Virginia andò ad abitare in una casetta in contrada Melobuono, ove riceveva l’amante, mentre Gaetano, che si era unito con la ventiquattrenne Maria, andò ad abitare in contrada Acqua di Forno.
Sembrerebbe non esserci nulla di strano in questa pacifica separazione di fatto, eppure il Maresciallo, che deve essere sospettoso per mestiere, pensa che Michele e Virginia non siano estranei al delitto e li mette in stato di fermo per interrogarli. I due negano ogni addebito fino alla noia e, non essendoci nemmeno il minimo indizio, devono essere rimessi in libertà. Allora il Maresciallo mette in stato di fermo i fratelli di Virginia, che teoricamente avrebbero potuto nutrire dei rancori verso Gaetano, e ottiene ciò che sperava. No, i due non c’entrano niente, ma Virginia non può permettere che due innocenti stiano in carcere ingiustamente, va dal Maresciallo e racconta:
– Il 23 novembre verso le 13,30, partendo da Melobuono e diretta in contrada Gallico dove ero andata ad abitare, arrivai in contrada Difesa. A circa trenta metri da me vidi mio marito con il fucile in spalla che si avviava verso la parte a monte della contrada e Michele Pulice che scendeva. Si incontrarono e dopo aver scambiato poche parole, che non percepii, Pulice esplose un colpo di fucile contro Gaetano che, ferito e tenendo sempre il fucile sulla spalla, si diede alla fuga invocando aiuto. Pulice, inseguendolo, gli sparò contro altri tre colpi. Io, impaurita, continuai il mio cammino…
– E perché non lo hai detto subito? Certo, dovevi proteggere il tuo amante, non è così?
– No, da oltre un anno non ho più relazioni con lui…
È il caso di fare quattro chiacchiere con Michele Pulice.
– Si, è vero, ho sparato contro Rizzuto – confessa.
– Il motivo?
– La mattina del 23 ero andato a caccia in contrada Difesa. Vidi passare Virginia e scambiai con lei qualche parola. In questo mentre Virginia si accorse della presenza del marito che, dopo aver detto “vi ho visti”, sparò un colpo di fucile. Mi sentii sfiorare il viso dai pallini e mi spostai, vidi Rizzuto con il fucile spianato contro di me e allora gli sparai, alla distanza di circa dieci metri, un colpo di fucile. Rizzuto scappò verso il fiume, lo inseguii per dargli una lezione manuale, ma lo vidi appiattato nei pressi del fiume con una pistola spianata mentre premeva il grilletto. Mancata l’esplosione, gli sparai a bruciapelo un secondo colpo e Rizzuto si riversò nel fiume…
– Come mai ti sei messo a parlare con Virginia? Lei ha detto che da un anno non avete più rapporti…
– Così… ma è da circa tre anni che non abbiamo rapporti!
Virginia, interrogata nuovamente conferma tutto punto per punto e le versioni contrastanti sono un grosso problema per entrambi.
Intanto le indagini accertano che i rapporti tra Virginia e suo marito erano indifferenti. Pur vivendo separati, Gaetano si recava in casa di lei per visitare la figlia; al contrario, i rapporti tra Gaetano e Michele erano tesi e questo convince i Carabinieri che Virginia sia estranea al delitto e la rilasciano, mentre denunciano formalmente Michele Pulice per omicidio e lo trattengono in arresto.
I familiari di Gaetano non ci stanno e in due esposti, il primo del 2 gennaio 1942 ed il secondo del 29 giugno successivo, sostengono che le relazioni carnali tra Virginia e Michele erano in atto fino a pochi giorni prima del delitto e che Gaetano aveva ardente desiderio di riunirsi alla moglie, onde questa ed il Pulice, per non essere disturbati nei loro amori adulteri, avevano deciso di sopprimerlo. E spiegano quelli che secondo loro sarebbero stati i dettagli del piano criminale: Virginia, profittando che il marito le aveva proposto di unirsi a lei e di trasferirsi a Catanzaro per iniziare il commercio di carbone e, fingendo di voler discutere con lui questa proposta, gli aveva dato appuntamento in contrada Difesa e qui Pulice gli aveva sparato contro quattro colpi di fucile.
Agli inquirenti sembra credibile. Poi, il ritrovamento di una lettera scritta da Gaetano alla moglie una quindicina di giorni prima di essere ucciso, nella quale la proposta di riappacificazione con il conseguente trasferimento a Catanzaro è messa nero su bianco, toglie ogni dubbio e le indagini virano decisamente in questa direzione. Virginia viene arrestata ma continua a dichiararsi innocente, mantenendo ferme le parti sostanziali della sua versione: rapporti indifferenti col marito; allontanamento da Pulice da tempo; suo passaggio occasionale per contrada Difesa; uccisione del marito da parte di Pulice fuori ogni sfera di legittima difesa. L’impostazione dell’impianto accusatorio sembra un po’ debole, ma chiusa l’istruttoria, il 31 dicembre 1942, il Giudice Istruttore accoglie questa tesi e rinvia al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza Michele Pulice con l’accusa di omicidio aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi e Virginia Reda con l’accusa di concorso in omicidio aggravato.
Il tre aprile 1943 si apre il dibattimento e la Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni, osserva: la versione di parte civile sull’agguato è destituita di fondamento. Reda e Pulice avrebbero ucciso Rizzuto perché costui pretendeva di riunirsi alla moglie. L’ambascia del distacco avrebbe determinato i due amanti al delitto. Così fu impostata la causale, poi sposata dalla Procura e dal Giudice Istruttore, sulla quale furono adagiate le argomentazioni per l’agguato, giustificatrici dell’aggravante della premeditazione. Secondo la Corte non bisogna sforzarsi troppo per dimostrare l’inconsistenza di questa tesi, peraltro sconfessata anche dal Pubblico Ministero in udienza, perché è sufficiente rilevare che non esiste nel processo alcuna prova che Gaetano Rizzuto avesse il rovente desiderio di riunirsi alla moglie e che questo desiderio tentasse di realizzare con manifestazioni tali da impressionare i due amanti al segno di temere che l’adultero loro amore sarebbe stato infranto e da determinarli al delitto. Rizzuto si era acquietato al tradimento della moglie e dopo l’allontanamento di questa si era creato una nuova convivenza more uxorio con una donna più giovane della moglie.
Acquietato? Ma se due settimane prima di essere ucciso aveva scritto a Virginia proponendole di tornare insieme e di trasferirsi a Catanzaro! Beh! Questione di ciò che si legge e di cosa non si vuole leggere. Si, perché la Procura ed il Giudice Istruttore si sono fermati alla proposta, tralasciando il resto come fa notare la Corte, che continua: è vero che Rizzuto aveva avanzato la proposta di riunirsi alla moglie e di recarsi con lei a Catanzaro, ma nessuna frase di minaccia si ritrova in questa lettera, bensì una semplice proposta di riavvicinamento; più che il desiderio della carne o l’esplosione dell’affetto, affiora un desiderio di interesse economico. Per esercitare il commercio di carboni Rizzuto aveva bisogno di denaro e proponeva alla moglie di farsene dare dal padre e le offriva le garanzie ipotecarie che essa avrebbe desiderate.
Ah! Una lettura a piacere, insomma. Ma la Corte non ha finito di demolire l’accusa e continua: stile calmo senza fuoco di passione; il suo amore per la moglie era spenta cenere per il passato, per l’età di entrambi, per l’accomodamento di entrambi ad una situazione diversa da quella del matrimonio. Nessuno, né in periodo istruttorio, né in dibattimento ha affermato circostanza dalla quale potesse ricavarsi che Rizzuto o per amore riacceso o per sete d’interesse avesse insistito presso la moglie a riunirsi a lui o, comunque, disturbato o perseguitato gli amanti. Perché, dunque, costoro avrebbero dovuto organizzare il delitto, sopprimere Rizzuto, quando costui, come per il passato, non aveva mai disturbato i loro adulteri amori? La mancanza di ogni prova idonea ad accreditare la versione di parte civile decapita il proposito dell’agguato e, conseguentemente, quello del movente per gli imputati. Il delitto non poté che essere improvviso.
Va bene, siamo d’accordo, le cose non andarono come esposte dalla parte civile e fatte proprie dalla Procura e dal Giudice Istruttore. Fu un delitto d’impeto, ma le versioni sono assolutamente contrastanti: Pulice ha ammesso di avere ucciso, ma per legittima difesa, e Virginia Reda, al contrario, lo accusa di avere ucciso volontariamente. Dove sta la verità? Adesso sì che le cose per la Corte possono farsi difficili.
Per districarsi, la Corte inizia ad esaminare la posizione processuale degli imputati e la prima cosa che è evidente e ovvia, una volta escluso il fatto che si sia trattato di un omicidio premeditato in concorso, è che Virginia Reda non può essere responsabile di quanto le si addebita. È ragionevole, però, discutere i veri argomenti sussidiari a quelli della causale che l’accusa fornì contro Virginia Reda. Intanto è una strana coincidenza quella che nello stesso momento e nello stesso luogo si siano trovati tutti insieme i due amanti e Gaetano Rizzuto. Perché? Per l’accusa è la dimostrazione che la vittima fu attirata in un tranello. La Corte, invece, argomenta: se è vero, e la Corte ritiene che sia vero, che Virginia continuava ad avere relazioni con Pulice, si può ritenere senza meraviglia alcuna che l’incontro, predisposto o fortuito, abbia potuto avere lo scopo dell’amplesso. Ma vi è di più. È provato, per i vari testimoni che hanno deposto al riguardo e che non furono smentiti, che Virginia Reda si era trasferita in contrada Gallico e spesso tornava in contrada Melobuono sia per i lavori di cucito, sia per ritirare le ultime masserizie che aveva lasciato nella vecchia casa. Anzi, è provato che proprio la mattina del 23 novembre 1941 aveva portato ad alcuni clienti della contrada biancheria confezionata per loro ed aveva poi preso nella sua vecchia casa alcuni oggetti e li aveva riposti nel cesto che portava sul capo. È inoltre accertato per mezzo del grafico esibito dal Maresciallo dei Carabinieri, accettato da tutte le parti in causa, che per andare da Melobuono a contrada Gallico, Virginia Reda doveva passare necessariamente dalla contrada Difesa e quindi non c’è da meravigliarsi che si fosse trovata in quel posto e vi avesse incontrato l’amante, a sua volta sicuro che sarebbe passata da lì. Quindi, come è possibile che i due si fossero accordati per commettere il delitto, è altrettanto possibile che si siano incontrati per caso e se esiste una concreta possibilità che può spiegare coerentemente in un altro modo una circostanza affermata come prova dall’accusa, quella prova non ha valore. Adesso la Corte affronta un’altra congettura contro Virginia Reda: se fosse stata estranea al delitto avrebbe dovuto operare in modo diverso da come disse di avere operato, cioè di essere rimasta inerme di fronte all’assassinio del marito. E dunque fu complice. La Corte risponde: il salto logico è imponente, tende sempre alla dimostrazione del previo concerto, inesistente per come prospettato dall’accusa. Che cosa doveva fare Virginia Reda alla rapida esplosione dei quattro colpi di fucile? Disse che scappò terrorizzata e giunse costernata a casa della cognata, che la ristorò con una tazza di orzo ed un bicchiere di cordiale. Ma si dimentica che non aveva più affetto per il marito, onde il dire che o sarebbe dovuta intervenire per evitare la strage o avrebbe dovuto rivelare il fatto appena giunta in paese vale presupporre una situazione psicologica irreale nella Reda. E si dimentica, ancora, che essa disse di non aver parlato per paura di essere complicata nel delitto. Situazione possibile che spiegherebbe il suo comportamento.
Smontate un altro paio di circostanze di minore importanza, la Corte si occupa di stabilire se Gaetano Rizzuto fu ucciso sulla sponda del fiume Merone o vi fu trasportato già cadavere, perché tra le cose che l’accusa addebita a Virginia Reda vi è quella di avere aiutato l’amante a trasportare il cadavere nel punto in cui fu rinvenuto. La Corte risponde: nel processo non vi sono elementi di sorta per ritenere che Rizzuto sia caduto in un punto diverso dal luogo ove fu rinvenuto.
Insomma, nei confronti di Virginia Reda ci sono solo congetture e illazioni e la sua situazione processuale è garantita dalla assoluta mancanza di un movente valido perché i suoi rapporti col marito, nonostante la separazione di fatto, erano normali, lo dicono tutti i testimoni, perfino i parenti del defunto, e la sua tresca con Pulice non era ostacolata dal marito.
Dopo la disamina della posizione di Virginia Reda e la conseguente distruzione dell’impianto accusatorio nei suoi confronti, adesso è il momento di affrontare il punto più critico della causa: se le cose sono come dice la Corte, quali motivi avrebbe avuto Pulice per uccidere Gaetano Rizzuto?
Per sciogliere questo intricato nodo bisogna ricostruire la situazione del delitto e dalla medesima risulterà la risposta che interessa la parte civile nei riguardi di Virginia Reda e che interessa alla difesa di Pulice, per quello che attiene alla legittima difesa invocata per lui, osserva in modo sibillino la Corte. Vediamo dove vuole arrivare.
Gaetano Rizzuto nel giorno del delitto partì dalla sua abitazione verso le ore dodici, armato di fucile e disse alla sua concubina che andava ad uccidere un uccello rapace ed è credibile perché la stessa circostanza fu riferita ai Carabinieri anche dai parenti del morto quando ancora non si era ritrovato il cadavere e non si pensava ad un delitto. La concubina, in un secondo momento tentò di far credere di aver pensato che Gaetano fosse andato ad uccidere un uccello di rapina e che i genitori del morto l’avevano fraintesa, ma già era partita l’orditura contro Pulice, che aveva eccepito la legittima difesa a sua discolpa, onde bisognava contrastargliela e far scomparire il fucile. Ma che questo fu portato da Rizzuto lo comprova il fatto che in casa il fucile non fu rinvenuto. Dunque Rizzuto partì armato di fucile e proclamò che sarebbe andato ad uccidere un uccello rapace. Apparve armato nella località del delitto, lo ammette Pulice e lo conferma Virginia Reda. Questa disse che vide il marito da lontano con il fucile sulla spalla avviarsi in direzione di Pulice, sentì che parlavano. Fulmineamente questi sparò contro Rizzuto che, dolorante ed invocando aiuto si dette alla fuga. Pulice lo inseguì sparandogli contro altri tre colpi. Interrogata come parte lesa precisò che il marito scappò verso il fiume internandosi nel boschetto, inseguito da Pulice e sentì altri tre colpi. E questa versione mantenne sempre. Disse la verità? Virginia Reda non aveva interesse per contrastare a Pulice la legittima difesa. Non aveva più tenerezze per il marito, che aveva tradito e abbandonato e che non credette più seguire malgrado l’invito fattole con la lettera, ma aveva tenerezze per Pulice. Vari testimoni affermarono che la seguiva sempre, altri che li videro insieme mentre la figlioletta cavalcava la giumenta di Pulice, altri che li videro confabulare pochi giorni prima del delitto, altri ancora che li videro mentre si congiungevano in aperta campagna. Dunque la tresca continuava e Virginia era spiritualmente orientata più verso Pulice che verso il marito. Perché, dunque, avrebbe dovuto mentire? Pulice disse che Rizzuto sparò contro di lui un colpo di fucile, Virginia sostenne che il marito continuò a tenere il fucile ad armacollo. Lo strano della versione dell’imputato è che Rizzuto spara a breve distanza e non colpisce né Pulice, né Virginia, che gli era vicino secondo la sua versione. Situazione veramente incredibile perché Rizzuto era un cacciatore ed aveva davanti a sé un bersaglio imponente. Pulice dapprima non pensava all’architettura della legittima difesa, sperando di non essere incolpato. Confidava sull’onestà di Virginia Reda e negò per ben due volte l’uccisione di Rizzuto. Dunque la scusante della legittima difesa non regge.
Ma cosa fece Gaetano Rizzuto? Enunciò propositi di minaccia, pronunciò parole di risentimento? Ogni ricostruzione sarebbe arbitraria, sicché niente vi è in processo che possa far ritenere giustificato il ragionevole motivo da parte di Pulice che Rizzuto aveva reagito con l’arma di cui andava armato. Si potrà obiettare che la sorpresa degli amanti era elemento per dover far ritenere a Pulice la violenta reazione di Rizzuto. Ma Pulice e Reda, nel momento in cui comparve Rizzuto, erano l’uno accanto all’altro? Lo disse Pulice, lo negò Reda. Rizzuto vide la moglie? Mistero! Il processo è muto al riguardo. E se queste lacune processuali incidono sulla supposizione che Pulice abbia potuto ragionevolmente pensare ad una situazione di pericolo attuale, l’ipotesi di una legittima difesa putativa resta senza base di sostegno. In questa incertezza di situazioni, già bastante per togliere colore e vigore alla discriminante della legittima difesa putativa, vi è la posizione certa, conclamata nel processo, che Gaetano Rizzuto non aveva mai reagito per l’onta subita e che si era acquietato alla dolorosa realtà con la confortevole compagnia di una concubina. Il fortuito incontro del marito tradito e dell’amante della moglie non è bastevole per infondere nel Pulice il ragionevole convincimento di un attuale pericolo nella vita.
Ma allora perché Pulice sparò?
Bella domanda alla quale è molto difficile rispondere. Quando niente vi è di preciso che possa dare ai fatti una spiegazione certa, gli avvenimenti vanno presi e valutati nella loro nuda entità. È certo che Pulice sparò e sta a lui dimostrare che sparò per difendersi, ma è stato già smentito, onde resta il suo un delitto senza alcuna discriminante. Si potrebbero fare molte ipotesi, ma resterebbero solo ipotesi. Adesso la Corte si avventura in un campo minato: se forzando le risultanze del processo si potesse accedere al concetto della legittima difesa putativa allorquando Pulice sparò il primo colpo, l’inseguimento della vittima, il successivo reiterare dei colpi e poi ancora l’ultimo colpo a bruciapelo, quello mortale secondo la difesa degli imputati e secondo il parere del consulente tecnico, avrebbe annullato quello stato iniziale di legittima difesa e si concretizza il delitto di omicidio volontario.
Il comportamento di Pulice in rapporto all’ultimo momento dell’uccisione, dimostra quanto grande era il suo odio nei confronti di colui al quale aveva sottratto con l’onore la pace della famiglia. L’uccise prima moralmente, gli tolse poi la vita e lo spense brutalmente con un ultimo colpo, quando non era più in condizione di reagire per le molteplici ferite riportate al capo, al dorso, al braccio sinistro, al tergo. Questa persistenza tenace nel volere la fine del suo avversario determina la Corte, escluse le aggravanti, ad irrogare il massimo della pena: anni 24 di reclusione, più pene accessorie, spese e danni. Nonostante tutto Michele Pulice rientra nelle condizioni di legge per usufruire del condono di 3 anni.
La Corte assolve Virginia Reda per non aver commesso il fatto e ordina la sua immediata scarcerazione.
È il 3 aprile 1943.
La Corte d’Appello di Catanzaro, ai sensi del D.P. 19/12/1953 n. 722, il 25 marzo 1954 dichiara condonati anni 3 della pena.
La Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, ai sensi del D.P. 24/01/1963 n. 134, il 23 ottobre 1963 dichiara condomati mesi 6 della pena.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.