A QUELLA NON LA SPOSI!

In contrada Poggio di Macchia Albanese, frazione di San Demetrio Corone, a breve distanza, qualche centinaio di metri, sono situate le case campestri in cui abitano le famiglie di Angelo Lavorato e di Maria Rosa Mangano.

Maria Rosa, nel 1942, ha 17 anni ed è orfana di entrambi i genitori, ma è forte e tira avanti col sudore della propria fronte.

Angelo Lavorato e sua moglie Maria Covello hanno un figlio diciannovenne, Teofilo, e al contrario di Maria Rosa gode di una condizione economica più agiata.

Tra i due ragazzi scocca la scintilla e sboccia l’amore, quello vero, quello che non ti fa vedere differenze di condizione, quello che senti durerà per tutta la vita, quello che ti fa desiderare abbracci e baci senza fine. Teofilo e Maria Rosa, dopo qualche mese non possono più resistere al desiderio di fare l’amore. Che senso ha aspettare di sposarsi per essere una cosa sola? Loro si sentono già marito e moglie ed è così che si chiamano nell’intimità. Però per vivere insieme alla luce del sole bisogna sposarsi per davvero e Teofilo, essendo ancora minorenne, parla con i genitori per ottenerne il consenso, come vuole la legge. Apriti cielo! Non sia mai che uno della sua condizione sposi una morta di fame come quella lì!

– Io la amo, lo capite? – ripete fino alla noia.

– La ami? Ha solo pidocchi! Ma se proprio vuoi sposarla, aspetta di diventare maggiorenne e potrai fare a meno del nostro consenso, oltre che del resto… ci siamo capiti? – ripetono ogni volta i genitori, tra i quali è la madre ad essere la più ostinata nel rifiuto.

Teofilo è sconcertato, non sa spiegarsi il rifiuto dei genitori. Lui ama Maria Rosa ed è questo quello che conta, non i soldi. Anche Maria Rosa è sconcertata e teme che i genitori riescano a convincere suo “marito” a lasciarla:

– Stai tranquilla, tu sei già mia moglie e, costi quel che costi, presto ci sposeremo, te lo giuro! – e Maria Rosa gli sorride, gli butta le braccia al collo e lo bacia fino a togliergli il respiro.

Ma c’è la guerra, la maledetta guerra che vuole nuova carne da macello ogni giorno, e Teofilo deve partire. Lo mandano a Trento e in ogni momento libero scrive alla sua amata “moglie”. Le manda le sue foto in divisa e lettere e cartoline illustrate nelle quali non dimentica mai di scrivere che manterrà la promessa fattale di contrarre con essa matrimonio. Lei, da parte sua, gli scrive che presto avranno un bambino e la risposta di Teofilo è una esplosione di gioia, insieme al rinnovamento della promessa di matrimonio.

Quindi, forte della promessa insistentemente ripetuta in ognuna delle lettere e delle cartoline, Maria Rosa incarica sua zia Nunzia affinché renda edotti i genitori di Teofilo su quanto tra lei ed il loro figlio è avvenuto, cioè che avranno un figlio,  ma la risposta è sempre la stessa: non daranno mai il loro consenso al matrimonio e Teofilo potrà regolarsi come meglio crederà quando avrà raggiunto la maggiore età.

Maria Rosa, sconfortata, scrive a Teofilo dell’ennesimo rifiuto e riceve in risposta l’invito perché al matrimonio si pervenga indipendentemente dall’assenso dei suoi genitori e per far si che ciò accada, Maria Rosa dovrà recarsi dal parroco di Macchia Albanese per chiedere cosa è necessario fare per sposarsi senza il consenso dei genitori, ma dovrà andarci dopo che Teofilo gli scriverà che, avendo già avuto rapporti carnali con la ragazza, intende riparare alla sua colpa.

Il parroco, però, vuole saperne di più e va a parlare con la madre del ragazzo, la quale non ne vuole sentire parlare e della faccenda viene investito il Vescovo di Lungro, ovviamente contattato dalla madre di Teofilo, che, altrettanto ovviamente, esprime parere negativo, osservando che il solo fatto dei rapporti carnali avuti non è causa idonea perché si prescinda dall’assenso dei genitori.

Nel frattempo, non immaginando un tale accanimento, Teofilo chiede una licenza per contrarre matrimonio. Il Comando da cui dipende scrive al parroco del paese conferma sulla veridicità del motivo ed il parroco non può che rispondere che il matrimonio non può essere celebrato perché i genitori del promesso sposo non intendono consentire al matrimonio del figlio e che il Vescovo di Lungro ha risposto negativamente alla richiesta fatta di celebrare le nozze prescindendo dall’assenso dei genitori.

Tutte queste traversie, però, non fanno che stringere il legame tra Teofilo e Maria Rosa, tanto che, invece di chiedere soldi e pacchi alla famiglia, li chiede alla “mia sposa”, come la definisce affettuosamente nelle lettere. Non solo: le scrive, per dimostrarle una volta di più il suo amore, che quando tornerà in licenza non andrà dai genitori, ma a casa sua, perché lei, che viene prima di tutti gli altri, sta per renderlo padre.

Ma prima che Teofilo torni in licenza, Maria Rosa deve dargli una brutta notizia: ha abortito. E Teofilo le scrive il suo dolore per non poter essere chiamato papà.

In questo contesto i rapporti tra Maria Rosa e i genitori di Teofilo si fanno sempre più tesi, tanto da provocare un esposto del padre al Procuratore del re di Rossano per chiederne l’intervento presso i parenti della Mangano per farli desistere dall’idea del matrimonio fino a quando il figlio non avesse raggiunto la maggiore età, denunciando che gli stessi parenti non avrebbero fatto arrivare fino alla casa paterna il Teofilo, quando questi fosse andato in licenza.

A questo esposto Maria Rosa risponde con un esposto, datato 30 ottobre 1942, col quale chiede al Procuratore del re di indurre in genitori di Teofilo a consentire al matrimonio. Investiti della cosa, i Carabinieri di San Demetrio Corone interrogano la madre del ragazzo e ottengono sempre la stessa risposta: niente da fare, nessun consenso. Allora a Teofilo, per superare gli ostacoli, viene in mente di consigliare a Maria Rosa di denunciarlo per violenza carnale e così i suoi genitori, per evitargli la galera, saranno costretti a cedere e dare il consenso alle nozze. Maria Rosa però di questo non vuole sentire parlare e la situazione resta tesa.

Si arriva così alle ore pomeridiane del 9 marzo 1943, quando a Macchia Albanese arriva in licenza Teofilo Lavorato il quale, come promesso, va direttamente a casa di Maria Rosa e le esprime tutto il suo dispiacere per la situazione che si è creata. Poi riprende la valigia e si avvia verso la casa paterna ove, poco dopo, si presenta Maria Rosa che lo chiama a gran voce. Teofilo non esce, ma esce suo padre:

– Lo hai già visto e salutato, che vuoi ancora?

– Gli devo parlare.

– Adesso non può venire, è in compagnia di amici, torna domani – gira sui tacchi, rientra in casa e chiude la porta. Maria Rosa se ne va e torna il giorno dopo. Teofilo non c’è, è andato col padre a San Demetrio per far vistare la licenza dai Carabinieri. Stranamente, la madre del ragazzo la fa entrare e le chiede di aiutarla a preparare la festicciola che faranno la sera. Maria Rosa è felice, forse le cose stanno cambiando, ma la donna le fa uno strano discorso:

– Ti sei accorta che Teofilo con te è freddo? Ieri sera è stato lui a far dire che non poteva lasciare gli amici per parlare con te… io, da mamma, ti consiglio di lasciar perdere…

Maria Rosa è sconcertata, non sa cosa pensare e piange in silenzio. Poi, come presa da un moto di rabbia, dice:

– Se davvero non mi vuole, mi faccio monaca!

– Ecco, brava! Adesso cominci a ragionare! Anzi, sai che facciamo? Lasciamo stare le faccende di casa e andiamo al convento a San Demetrio e chiediamo alla Superiora cosa bisogna fare per farsi monaca.

La ragazza è come istupidita e, docilmente, segue la donna.

– Ecco, vedete, la ragazza, Maria Rosa, vorrebbe entrare in convento, non è vero? – attacca Maria Covello rivolgendosi alla Superiora, ma dando di gomito a Maria Rosa per sollecitare una risposta positiva.

– Io… io…

– E dillo che ti vuoi fare monaca! Vedete, madre, la ragazza è timida, ma vi assicuro della sua volontà!

– Serve una relazione del parroco di Macchia – dice la Superiora con tono austero, infastidita per l’insistenza di Maria Covello.

– Ci andremo domani pomeriggio! – risponde immediatamente la donna, senza dare il tempo alla ragazza di aprire bocca, poi quasi la trascina via.

La sera a casa Lavorato si beve e si balla. Teofilo suona l’organetto e Maria Rosa balla felice con il futuro suocero e le sembra così strana questa situazione che vede da una parte la suocera insistere per troncare la relazione e farla fare monaca prendendo spunto da una semplice battuta, e dall’altra il suocero che sembra finalmente accettarla. Poi i due ragazzi, finalmente, hanno la possibilità di restare un po’ da soli e parlare:

Finora abbiamo comunicato con le lettere, ora è tempo di parlare apertamente: i tuoi genitori hanno cambiato idea? Tua madre credo proprio di no. Tu da che parte stai? Mi vuoi ancora?

– Ti voglio… ma non posso fare nulla perché, lo sai, dipende tutto dalla loro volontà. Mio padre è più possibilista, ma un po’ dice che adesso c’è la guerra e un po’ che prima di me si deve sposare mio fratello… mia madre non vuole sapere e io ho la testa confusa…

Maria Rosa torna a casa delusa, chiedendosi il perché dell’accoglienza in casa, dei balli, se non vogliono che lei sposi il figlio. Comunque, la mattina dopo si presenta ancora dai Lavorato perché la licenza di tre giorni è finita e Teofilo deve ripartire. L’accoglienza è la stessa del giorno prima e la madre di Teofilo le permette, addirittura, di aiutarla a preparare la valigia con la roba pulita. Al momento della partenza, però, Teofilo si limita freddamente a stringerle la mano come ha fatto con tutti quelli che sono andati a salutarlo. Strano.

– Te l’ho detto ieri che mio figlio non ti vuole più, adesso ti sei convinta? Hai visto che non ti ha nemmeno guardata quando ti ha dato la mano per salutarti? È così che si saluta la propria donna?

Maria Rosa piange in silenzio, poi sbotta:

– Accompagnatemi dal parroco, ora!

Maria Covello è raggiante, ha vinto e non vuole perdere tempo, ma proprio in questo momento rientra suo marito il quale, alla notizia che le due donne stanno andando in paese per parlare col parroco, le dissuade perché è quasi buio ed è meglio che ci vadano l’indomani mattina.

È la mattina del 14 marzo 1938. Maria Rosa, di buon’ora va a chiamare la madre di Teofilo perché, come d’accordo, l’accompagni dal parroco.  La donna sa che Maria Rosa porta sempre con sé le fotografie dell’innamorato e le cartoline illustrate e gliele chiede, tanto a lei non serviranno più, visto che si farà monaca. A malincuore, Maria Rosa gliele dà e la donna se le conserva nel petto facendo un segno di giubilo al marito. Poi si incamminano.

Dopo un paio di ore una ragazza bussa alla porta della caserma dei Carabinieri di San Demetrio Corone. È sporca di sangue e chiede di parlare col Maresciallo:

– Che ci fai qui? Che è successo?

– Ho ammazzato Maria Covello per difendermi – risponde Maria Rosaria, ancora sconvolta.

– Come è andata?

– Stavamo andando dal parroco di Macchia per un certificato… volevo entrare in convento… Maria mi ha detto di tacere i rapporti carnali tra me e suo figlio, altrimenti il parroco non avrebbe fatto il certificato; io le ho risposto che prima di esprimere la mia opinione per la monacazione mi sarei confessata e avrei detto tutta la verità e lei mi ha investito con queste parole: “puttana tu e tutta la tua razza, se intendi confessare tutto, che andiamo a fare dal parroco?”, poi mi afferrò per le spalle facendomi cadere per terra e mentre mi era di sopra cacciò un coltello e mi voleva ammazzare. Io sono riuscita a disarmarla e riuscii a vibrare un primo colpo e quindi, messa sotto la Covello, vibrai gli altri colpi

Arrivati sul posto, il cadavere della donna, che giace in un punto della strada incassato tra una scarpata e un fitto roveto, presenta una lesione alla nuca; una ferita da punta e taglio all’emitorace sinistro che ha perforato l’orecchietta cardiaca; una ferita dello stesso tipo che ha perforato il cuore; due ferite all’emitorace destro che hanno perforato il polmone; una ferita che ha perforato il fegato; una ferita lacero contusa alla fronte. È subito chiaro che le cose non possono essere andate come ha raccontato Maria Rosa. Secondo la ricostruzione fatta in base alla dislocazione delle ferite, le cose sarebbero andate così: qualcosa o qualche parola, poi si cercherà di scoprire cosa, accadde tra le due donne e Maria Rosa, stando alle spalle dell’altra, la colpì alla nuca facendola stramazzare a terra. Quindi prima lesione alla nuca. Nella caduta, Maria batté con la fronte a terra, seconda lesione. A questo punto Maria Rosa la colpisce alle spalle perforandole il cuore per due volte, quindi il polmone per due volte e poi il fegato. Ma secondo i periti, tranne le prime due lesioni, tutte le altre sono ugualmente mortali, quindi non farebbe differenza quale sia stata la prima.

Il 29 gennaio 1944 Maria Rosa Mangano viene rinviata al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio doppiamente aggravato dalla premeditazione e dalla crudeltà. Potrebbe scapparci la pena di morte.

Il dibattimento si tiene il 22 maggio 1944 e la difesa chiede che l’imputata sia prosciolta per avere agito in stato di legittima difesa o, in subordine, che venga riconosciuta la semi infermità di mente al momento del delitto. La Corte rigetta entrambe le richieste, manifestamente infondate, secondo le risultanze processuali, e, piuttosto, si impegna a demolire le aggravanti contestate. Si, perché per la Corte non sussistono. La crudeltà non sussiste perché si tratta di un’erronea indicazione di norma giuridica in quanto, essendo chiaramente emerso dai risultati dell’autopsia che le lesioni inflitte col coltello erano tutte ugualmente mortali, a nessuna inutile sofferenza fu sottoposta la vittima. La premeditazione non sussiste perché dagli atti processuali non si hanno elementi sufficienti per affermare che il delitto consumato da Maria Rosa Mangano fu premeditato.

Piuttosto, a giudizio della Corte, il delitto fu deciso quando la Covello e la Mangano andavano dal parroco. Induce a questa conclusione un fatto affermato dalla Mangano e che trova conferma nella descrizione che del cadavere fu fatta dal Maresciallo dei Carabinieri ed in una affermazione di Angelo Lavorato. Dice la Mangano che la Covello, quella mattina, chiese fossero ad essa restituite le fotografie del figlio e delle cartoline illustrate da costui mandatele; essa consegnò le une e le altre, che la donna nascose nel petto. Il Maresciallo trovò che la Covello aveva l’abito sbottonato in corrispondenza del petto; affermò Angelo Lavorato che egli, quando giunse accanto al cadavere si accorse che nel petto  non vi erano delle carte e non poté dire da chi furono tolte. La richiesta delle fotografie e delle cartoline, che potevano rappresentare per la Mangano ancora una speranza perché Teofilo mantenesse la promessa tante volte ripetuta, costituì in quel momento il fatto decisivo che la convinse che oramai ogni speranza di matrimonio era finita. Fu così deciso il delitto e poco dopo, nel luogo in cui la mulattiera è incassata, fu eseguito.

Partendo da questa ricostruzione del movente, la Corte ritiene che il delitto sia stato la rappresentazione dello stato d’animo in cui trovavasi la Mangano quando uccise: stato di grande ira per quanto la Covello aveva nei suoi confronti fatto. E che la Mangano abbia ucciso la Covello in stato d’ira, reagendo contro un fatto ingiusto dell’uccisa, non può contestarsi. Da tutte le pagine del processo appare chiara ed insopprimibile una verità: Teofilo Lavorato aveva avuto rapporti carnali con la Mangano, l’aveva resa madre, voleva mantenere la promessa insistentemente fatta alla donna che aveva fatta sua, sposandola. Aveva tentato ogni via d’accordo con la Mangano perché alle nozze si pervenisse. Fu la Covello colei che espresse decisamente la propria opposizione alle nozze. Lo dicono il Maresciallo, il parroco e la Superiore del convento. Questa insistenza, malgrado la Covello fosse a conoscenza di quanto tra Teofilo e la Mangano era corso, costituisce certamente quel fatto ingiusto che determinò lo stato d’ira per cui l’imputata reagì. E questo vuol dire che la Corte concede a Maria Rosa l’attenuante dello stato d’ira per fatto ingiusto altrui.

Poi Maria Rosa chiede di rilasciare una dichiarazione spontanea e rivela una circostanza di una gravità inaudita, finora sconosciuta a tutti e per questo bisognevole di riscontri, se mai possibili:

– Quando ero incinta lo confessai a Maria Covello e fu lei, somministrandomi grandi quantità di purganti a farmi abortire

Vallo a provare! La Corte, però, trova nei meandri delle carte processuali una dichiarazione di Angelo Lavorato, il marito della vittima, che in una deposizione rivelò un particolare, allora ritenuto incomprensibile e irrilevante, ma che ora, alla luce della dichiarazione di Maria Rosa, fa apparire vera la affermazione dell’imputata:

Ritornato dopo vari giorni di assenza per ragione di lavoro, trovai in casa Maria Rosa Mangano. Alle osservazioni fatte a mia moglie, mi rispose che la dovette accogliere in casa perché temeva che nostro figlio andava a finire male e che il desiderato matrimonio non fosse stato celebrato.

Se la Corte si è presa questa briga, probabilmente la situazione di Maria Rosa si alleggerirà ulteriormente. E infatti la Corte continua: ma anche altra attenuante concorre a favore dell’imputata. Precisamente quella dei motivi di particolare valore morale. Affermò Maria Rosa Mangano di essersi abortita in conseguenza di ingestione di purganti somministrati dalla Covello e di essersi abortita in casa di costei e la dichiarazione del marito lo conferma. Da qui prese le movenze l’attività, che può essere qualificata fredda, della Covello onde fare svanire il matrimonio. Essa non si accontenta delle insistenze fatte al parroco ed al Vescovo, ma il fatto più rilevante è quello di avere insistito presso la Mangano perché costei rinunciasse alle gioie della vita e si rinchiudesse in un convento. Era questo il mezzo più adatto perché Teofilo riacquistasse la propria libertà nei confronti della Mangano. In tutti questi fatti compiuti dalla Covello nei confronti della Mangano non può non ritrovarsi il fondamento dei motivi di particolare valore morale per i quali ha agito la Mangano.

È il momento di tirare le somme. Valutate le modalità del fatto, i motivi che spinsero la Mangano alla consumazione dell’omicidio, l’età dell’imputata, i suoi precedenti penali, stima la Corte di fissare la pena in anni 9 e mesi 4, oltre le pene accessorie, le spese e i danni.

Il 15 gennaio 1948, il Presidente della Repubblica Enrico De Nicola, con proprio Decreto, condona a Maria Rosa Mangano il residuo della pena inflittale.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.