L’ASSALTO ALLA CASERMA

Sabato 14 febbraio 1920, sabato di carnevale. È sera quando in una casa di Casal di Basso, frazione di Paterno Calabro, una comitiva di giovanotti si prepara per una mascherata da fare l’indomani. C’è anche qualche curioso che si diverte a guardare le maschere in anteprima ed i giovanotti che suonano e ballano. Tra questi ci sono l’avvocato Luigi Aloe, Francesco Cozza ed il negoziante Luigi Caputo. Intanto si sta facendo tardi e Caputo lascia la compagnia per tornare a casa, praticamente di fronte. È buio pesto quando Caputo sta entrando in casa, qui incontra due Carabinieri, Domenico Pennestrì e Francesco Cesario, che lo fermano e gli chiedono cosa stia accadendo nella casa di fronte da dove proviene tutto quel baccano e Caputo racconta loro della preparazione delle maschere, poi gli chiedono un bicchiere d’acqua e l’uomo entra in casa per soddisfare la richiesta. In questo frattempo escono anche l’avvocato Aloe e Francesco Cozza, seguiti da tutta la comitiva. A loro si avvicina Pennestrì:

Avvisate i giovanotti che è proibito fare la mascherata!

Io sono estraneo alla mascherata, l’avvertimento potete farlo da voi stesso! – gli risponde, mentre si avvicina a loro Francesco Genise, uno dei giovanotti che preparavano le maschere, che ha sentito tutto e si intromette:

Abbiamo il permesso scritto del Sindaco

Il Sindaco non conta un cazzo, comando io! – un attimo di sconcerto tra i giovanotti, poi si fa avanti Francesco Cozza che conosce Pennestrì e gli chiede:

Possono travestirsi senza maschera?

Stai zitto tu che non c’entri e di queste cose non ne capisci! – lo zittisce il militare.

Io, domani, senza mascherarmi mi vestirò di rosso, lo posso fare? – dice Genise.

Le vostre generalità!

– Le mie generalità sono al Municipio – risponde Genise  e questo non va giù a Pennestrì, che lo afferra per le braccia e gli intima:

Venite con me, non fare tanto lo strafottente!

Nell’affacciarsi sulla porta con un orciuolo e due bicchieri in mano, Luigi Caputo vede i due Carabinieri che tengono in mezzo a loro Francesco Genise, seguiti da tutta la comitiva.

– Fateci entrare ché lo dobbiamo perquisire – gli dice uno dei due militari con modi bruschi.

– Non ci penso nemmeno! – gli risponde Caputo chiudendo la porta.

I due Carabinieri perquisiscono Genise in mezzo alla strada senza trovargli niente, poi Pennestrì dice al Carabiniere Aggiunto Cesario:

Dammi i ferri per ammanettarlo.

Il giovanotto nulla ha commesso e perciò non avete alcun diritto di arrestarlo! – protesta l’avvocato Aloe, non potendo tollerare tanta prepotenza, sentendo e sembrandogli che il Carabiniere agisca arbitrariamente.

Badate ai fatti vostri! – gli risponde seccamente Pennestrì.

Ma durante questo battibecco i Carabinieri perdono tempo e non mettono i ferri ai polsi di Genise, che approfitta del momento e se la dà a gambe levate, inseguito da Pennestrì e Cesario, inseguiti a loro volta da tutta la comitiva di giovanotti.

I Carabinieri, non riuscendo a trovare Genise, che non conoscono, di cui non sanno il nome e per giunta nemmeno hanno visto bene al buio, notano un giovanotto appoggiato ad un muro e lo fermano pensando che sia il ricercato, ma in realtà si tratta del diciannovenne Giuseppe Cozza. Lo portano in un locale del Municipio adibito a caserma, lo perquisiscono, chiariscono l’equivoco e gli fanno dire il nome del giovanotto che stanno cercando, poi lo lasciano andare.

È domenica di carnevale e la comitiva di giovanotti, una quindicina in tutto, esce per le strade del paese in maschera, ma sotto lo sguardo attento della Guardia Municipale, mandata apposta dal Sindaco. Tutto si svolge tranquillamente finché arrivano i Carabinieri agli ordini del Maresciallo Capo Francesco Lobrano, che mettono in stato di fermo tutti, li accompagnano nel locale adibito a caserma, li identificano e trattengono in arresto Giuseppe Cozza, Michele Giacinto, Vincenzo Giacinto, Francesco Aragona, Giacinto Benemerito, Salvatore Napolitano e Francesco Genise, con le accuse di violenza, resistenza ed oltraggio a persona rivestita di pubblica autorità.

In base ai fatti raccontati sembra un provvedimento oltremodo eccessivo, ma tutto si spiega perché i Carabinieri ricostruiscono i fatti del 14 febbraio in modo diametralmente opposto a quanto raccontato dai testimoni oculari. Vediamo.

Verso le 20,00 Pennestrì e Cesario stavano eseguendo il servizio di pattuglia a Casal di Basso quando fecero incontro con una comitiva di oltre 15 persone che suonavano e cantavano. Per evitare che commettessero disordini li invitarono a non disturbare i pacifici cittadini, ma uno di essi, il più prepotente e dedito ai disordini, si fece avanti ed in modo arrogante rispose: “noi facciamo quello che vogliamo, anzi dobbiamo farci una mascherata perché il Sindaco ci diede il permesso e voi mi fate un cazzo!”. Chiestogli le generalità si rifiutò e allora i Carabinieri gli si avvicinarono per fermarlo e, siccome lo stesso è solito andare armato, si accinsero a perquisirlo, ma questi si oppose usando violenza e si diede alla fuga dicendo: “sbirri mi fate un cazzo, pigliatela in culo!”. Pennestrì e Cesario riconobbero nel fuggitivo certo Genise Francesco e si mossero per raggiungerlo ma, in quel mentre, il rimanente della comitiva si diede a lanciare sassi contro i Carabinieri, uno dei quali andò a colpire al piede sinistro il Carabiniere Pennestrì, senza alcuna conseguenza. Pertanto il Genise si dileguava, ma poco dopo veniva di corsa verso di noi uno dei compagni, certo Cozza Peppino, che fermammo, accompagnandolo nell’alloggio del Comune uso caserma.

Fermi un attimo, ci siamo persi qualcosa. Se Peppino Cozza è stato fermato la sera prima e rimesso subito in libertà e poi di nuovo arrestato, deve essere accaduta qualche altra cosa nella notte. Si, è accaduta qualcosa, ma anche qui esistono due versioni completamente divergenti. Partiamo da ciò che hanno verbalizzato i Carabinieri:

Non appena giunti in caserma, il rimanente della comitiva, compreso il Genise, si trincerò vicino alla caserma, minacciando di assalire la caserma stessa e gridando “Vogliamo libero Peppino Cozza altrimenti vi uccidiamo anche col coltello! Carne venduta, vigliacchi sbirri uscite fuori!”. Abbiamo conosciuto benissimo la voce di Genise che diceva: “Vigliacchi che siete mi avete infamato, ero nelle vostre mani ma sono fuggito! Se avete coraggio uscite a questo piano che vi tiro col coltello!”. Noi Pennestrì Domenico e Cesario Francesco, per evitare un conflitto abbiamo creduto prudente rilasciare Peppino Cozza. Da noi interrogata Fiore Rosaria, che abita a breve distanza dall’alloggio dell’Arma, ha dichiarato di avere udito tutti gli insulti fatti ai carabinieri da parte della comitiva, anzi senza dubbio alcuno riconobbe la voce di Genise Francesco.

Secondo questa ricostruzione, quindi, il provvedimento sembra giustificato.

Ma Rosaria Viola davanti al Magistrato racconta cose abbastanza diverse:

Mentre mi accingevo ad andare a letto, sentii nei pressi della caserma un gran clamore di numerose persone che gridavano, sbraitavano e cantavano. Distinsi qualche voce che diceva: “uscite fuori sbirri, a noi che ci dovete fare, adesso andiamo dove il vostro comandante!”. Sentii pure la voce del Carabiniere Pennestrì che diceva: “andate, andate!”. Tra le voci mi è sembrato di riconoscere la voce di Francesco Genise. Dopo poco la comitiva si sciolse ed io non sentii più nulla.

Qual è l’altra versione dei fatti? Non ci fu nessun assalto alla caserma perché ognuno se ne andò a casa in compagnia di uno o due amici, fornendo quindi alibi incrociati.

Gli arrestati respingono le accuse, che d’altra parte sembrano non avere solide basi, tranne, forse per Francesco Genise e Peppino Cozza.

Dopo avermi perquisito, i Carabinieri mi presero nuovamente per un braccio per condurmi con loro in caserma; ad un certo punto io, profittando che i Carabinieri mi avevano per un momento lasciato, mi sottrassi dalle loro mani e mi allontanai andandomene a casa. Nessun oltraggio quindi, né alcuna violenza o resistenza ho commesso contro i Carabinieri. Il giorno seguente, mentre camminavo pacificamente, mi si avvicinarono i Carabinieri e m’invitarono a seguirli in caserma e, nel dire ciò si accinsero a mettermi i ferri. Io, pur non rifiutandomi di seguirli, senza fare resistenza alcuna mi rifiutai di farmi mettere i ferri e li seguii a mani sciolte – così si difende Francesco Genise, che non accenna, nemmeno per sentito dire, all’assalto alla caserma.

Peppino Cozza ricostruisce il suo arresto e ciò che ne seguì:

Mentre Genise veniva condotto dai Carabinieri, ad un certo punto riuscì a sottrarsi agli stessi, che lo tenevano leggermente e si confuse nella folla. Allora i Carabinieri, non riuscendo più a trovare Genise, che non conoscevano, videro me che ero tranquillamente appoggiato ad un muro e mi condussero in caserma dove, dopo avermi perquisito, m’impugnarono la rivoltella e m’ingiunsero di dire quel che volevano loro, qualora fossi stato interrogato dal Maresciallo. Io mi rifiutai dicendo che avrei detto la verità e dopo poco mi lasciarono libero, facendomi prima dire chi fosse la persona che era loro sfuggita di mano e che io non ebbi difficoltà alcuna a dir loro che era Francesco Genise.

– Ci risulta, invece, che sei stato liberato per evitare che i tuoi amici assaltassero la caserma, che dici in proposito?

I Carabinieri mi rilasciarono spontaneamente e non è affatto vero che i miei compagni abbiano assediato la caserma ingiuriandoli e minacciandoli. I miei compagni nulla hanno fatto e quel che dicono i Carabinieri è invenzione loro.

– E allora, se ti hanno rilasciato spontaneamente, perché il giorno dopo ti hanno arrestato di nuovo?

– Non lo so. L’indomani nel pomeriggio, mentre eravamo vestiti in maschera col permesso del Sindaco ed accompagnati dalla Guardia Municipale, vennero i Carabinieri e c’invitarono a seguirli in caserma e quivi giunti in numero di quattordici, fummo perquisiti e trattenuti in arresto solo in cinque.

Ormai è un muro contro muro e sarà difficile che a crollare sarà il muro dei Carabinieri, nonostante tutto il paese, esclusa Rosaria Viola, giuri che quella notte non è successo niente di niente. E per dimostrare che invece l’assalto ci fu, viene chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio per 12 dei 14 identificati, con le accuse di oltraggio e minaccia a pubblico ufficiale, violenza ai Carabinieri, rifiuto di declinare le proprie generalità: Francesco Genise, Peppino Cozza, Michele Giacinto, Vincenzo Giacinto, Francesco Aragona, Giacinto Benemerito, Salvatore Napolitano, Francesco Cozza, Alessandro Napolitano, Luigi Greco, Donato Casale, Raffaele Cozza, tutti di età compresa tra i 14 ed i 26 anni. È il 31 marzo 1920.

Il 7 giugno successivo la causa viene discussa davanti al Tribunale Penale e il Maresciallo Lobrano rischia di inguaiare sé stesso ed i Carabinieri Pennestrì e Cesario perché ammette di avere appreso i fatti non per conoscenza diretta ma dal racconto dei suoi due uomini e di avere identificato personalmente i presunti partecipanti all’assalto, sebbene non fosse stato presente ai fatti. Lobrano ammette anche che era vera la circostanza che il Sindaco aveva autorizzato la mascherata. Ovviamente in udienza emerge anche la discrepanza tra quanto verbalizzato da Pennestrì e Cesario e quanto dichiarato dalla testimone Rosaria Viola che, chiamata a deporre sotto giuramento in udienza, dice:

Non ho mai inteso altre parole oltre quelle dette nella mia deposizione.

Ahi! Il muro sembra crollare. Ma è il momento, per il collegio giudicante, di tirare le somme: la versione dei fatti accettata dai tre giudicanti è quella fornita dai Carabinieri nel verbale del Maresciallo Lobrano, verbale che resiste a tutte le critiche abilmente prospettate dalla difesa per la semplicissima ragione che nelle stesse testimonianze trova riscontro quanto i Carabinieri, verbalizzanti o che furono presenti ai fatti, hanno denunciato, onde per cui in virtù del cumulo la pena per Genise Francesco si concretizza in mesi 7 di reclusione, oltre lire 12 di ammenda. Per Cozza Peppino si deve tenere conto del solo reato di resistenza, cioè del lancio delle pietre e non dell’altro reato (il forzato rilascio. NdA) che è stato commesso dagli altri mentre si trovava nella caserma ed in conseguenza, per lui, si debbono comminare solo mesi 4 di reclusione. Occorre poi fare le necessarie diminuzioni per l’età di ciascun imputato minorenne, meno che per Alessandro Napolitano, Francesco Cozza e Donato Casole che sono maggiorenni e la pena resta di mesi 6 di reclusione. Per Genise, per la diminuzione di un sesto, la pena si riduce a mesi 5,  giorni 25 e lire 10 di ammenda; per Giacinto Benvenuto, Salvatore Napolitano e Raffaele Cozza la pena si riduce a mesi 5; per Peppino Cozza a mesi 3 e giorni 10; per gli altri (Michele Giacinto, Vincenzo Giacinto, Francesco Aragona e Luigi Greco) a mesi 3 di reclusione.

Il 26 novembre 1920, la Corte d’Appello di Catanzaro riforma la sentenza del Tribunale Penale di Cosenza ed assolve tutti gli imputati in virtù dei Regi Decreti di amnistia del 5 ottobre 1920 N. 1414 e 2 settembre 1919 N. 1501. Rigetta il ricorso di Francesco Genise relativo all’ammenda di 10 lire.

Ma è solo questione di tempo: esattamente tre anni dopo, il 26 novembre 1923, il Tribunale Penale di Cosenza dichiara cessati tutti gli effetti penali della condanna all’ammenda di lire 10 in virtù del regio decreto 9 aprile 1923, N. 719.[1]

Alla fine tutto finisce in farsa. Di carnevale.

[1] ASCS, Processi Penali.