L’ASINO

È il 26 agosto 1873, in Sila, contrada Righijo Soprano, sul declivio di una piccola collina vicino alla valle vi sono due aie con due covoni di grano germano. Sulla prima aia, più vicina al lato di oriente, vi è una pagliaia che appartiene ad alcuni di Pietrafitta, capitanati da Antonio De Vuono. Alla distanza di circa 120 metri vi è l’altra aia dove vi sono costruiti altri quattro pagliai che si appartengono a Giovanni Cava da Pedace. È pomeriggio e, come capita di frequente, il cielo si rannuvola velocemente. Preceduto da potenti rombi di tuono e terrificanti fulmini, scoppia un violento temporale. I contadini di Pietrafitta abbandonano frettolosamente il lavoro e si riparano nel loro pagliaio, lasciando però incustoditi per la fretta due asini che, incuranti della pioggia, si allontanano dall’aia e vanno in quella dei vicini. Mentre uno comincia a mangiare delle stoppie, l’altro comincia a mangiare le spighe di grano accatastate in un covone.

Giovanni Cava ed il suo socio Battista Rota sono stati sorpresi dal temporale ad una certa distanza dai loro pagliai e si sono riparati alla meglio sotto un pino. Ad un certo punto Cava vede l’asino che comincia a mangiare il grano dal covone e si mette a correre urlando per farlo allontanare. Rota gli va dietro camminando e pensa che non sia il caso di fare tanto chiasso per poche spighe.

Forse per i tuoni, forse perché i pietrafittesi non hanno voglia di bagnarsi, le urla di richiamo di Cava non sortiscono alcun effetto e l’asino continua a mangiare indisturbato fino a che Cava arriva sul posto, lo prende per la cavezza e lo trascina fino al pagliaio del padrone.

– Ehi! L’asino si stava mangiando il mio grano! Vi ho chiamato più volte e non avete voluto impedire il danno!

– Non abbiamo sentito…

Curnuti fricati! Mò sequestro l’asino e lo espongo alla giustizia per farmi pagare il danno patito!

E così dicendo strattona l’asino per allontanarsi verso la mulattiera che porta a Spezzano Grande dove c’è la Pretura. A tal vista, De Vuono lo segue e gli dice:

Non farlo, per pochi centesimi non occorre fare una causa, ti pago il danno

– No, se ne deve occupare la Giustizia! – continua Cava con ostinazione.

Vedendo che con le buone non ottiene il risultato sperato, De Vuono cerca di togliergli il suo asino dalle mani e ne nasce una colluttazione. Ad un certo punto, Cava impugna la scure che tiene appesa alla cintola, la inalbera e vibra all’avversario un violento colpo al petto, così violento da procurargli una ferita lunga dodici centimetri tra la quarta e la quinta costola della regione mammaria sinistra. Così violento che la lama, penetrando nel torace, gli taglia quasi in due il cuore.

Aiutami, sono morto! – ha appena il tempo di dire rivolto ad uno dei suoi contadini, poi cade a terra e non si rialza più.

Mentre tutti sono rimasti impietriti, Giovanni Cava si allontana e di lui si perdono le tracce.

I Carabinieri di Spezzano Grande arrivano la mattina dopo ed il Vice Brigadiere Giuseppe Borsellini comincia le indagini, mentre i suoi uomini si mettono sulle tracce di Cava, che si presenta spontaneamente al Pretore di Spezzano la mattina del primo settembre:

Vinto dalle persuasive da voi fatte a mia moglie, mi presento spontaneamente dichiarandovi che io non sono abituato al delitto, che ho sempre serbato una condotta irreprensibile sotto tutti i rapporti. Epperò che la morte di De Vuono deve attribuirsi piuttosto ad una disgrazia che a mia volontà. Infatti, nel vedere che alcuni asini si mangiavano i covoni di germano appartenenti a me ed al mio socio, cominciai a chiamare i padroni che stavano dentro una pagliaia vicina e perché vedevo che nessuno mi rispondeva, mi mossi a quella volta per avvertirli. In seguito di ciò mi sono diretto dove erano gli asini per attaccarli ed impedire che mi facessero altri danni, ma ne fui impedito da De Vuono e da un altro suo compagno, che io credetti suo fratello. Costoro m’ingiuriarono “ciecato”. Mentre De Vuono mi teneva stretto per la gola e mi stava soffocando, l’altro con un palo mi ferì alla testa e allora io, vedendomi così alle strette ed in pericolo di perdere la vita, m’impossessai sollecitamente della scure di De Vuono e nell’atto che entrambi ci strascinavamo, senza quasi accorgermene gli tirai un colpo con quell’arma, per effetto di che immantinenti cessò di vivere

Poi mostra al Pretore gli effetti della presunta bastonata e della colluttazione, refertati dal medico legale: una scalfitura sotto l’orecchio destro per strappo di unghia e due contusioni nella regione parietale sinistra, tutte di nessuna importanza, prodotte per urto di corpo contundente. Probabilmente troppo poco per avvalorare la tesi della legittima difesa.

Il problema principale per Giovanni Cava, però, non è la nessuna importanza delle lesioni riportate, ma il fatto che più testimoni di veduta assicurano che De Vuono era senz’armi e che, trovandosi presente l’altro suo compaesano Raffaele Tarsitano, per impedire ulteriori violenze e per soccorrere De Vuono, che non credeva estinto, tirò un colpo di palo a Cava. Quindi la bastonata gli è stata data per davvero, ma sarebbe stata tirata dopo e non durante la colluttazione, anche se le conseguenze sono state dichiarate insignificanti.

Viene interrogato Battista Rota, il socio di Cava:

Io e il mio socio ci trovavamo a distanza di circa un miglio da dove avvenne la uccisione e vidimo due asini che erano vicino le biche di germano e non so, per la distanza, se mangiavano spighe o paglia. Cava, nel vedere i due asini, accorse prima di me ed io gli tenni dietro però, giunto sul luogo, trovai De Vuono con la ferita grondante sangue, Cava fuggito e di danno trovai tanto che benissimo si avrebbe potuto passar sopra

– Ma Cava è un tipo che si altera facilmente?

Cava, per quanto consta alla mia coscienza, è una persona che non si è data mai a sentire.

– Ma voi, dopo il fatto, lo avete visto? Sapete dove si nasconde?

Dal giorno in cui venne ucciso De Vuono, Cava non si è fatto più vedere e quando si doveva trebbiare il germano, la moglie sua mandò i suoi nipoti

Poi, il 16 settembre, si presenta dal Pretore Santo Berardi, pecoraio diciottenne, e racconta ciò che ha visto e sentito dopo il delitto:

Verso le ore vespertine, mentre custodivo al pascolo taluni animali pecorini, vidi venire alla mia volta, correndo, e con la scure in mano, un pedacese, che non so di nome, e quando si era a me approssimato vidi ch’era tutto insanguinato ed andava dicendo questa parole: “Perlamadonna l’ho fatto, l’ho fatto!”. Io non lo domandai affatto ed egli, come si vide libero dai miei cani di mandria, continuò a fuggire e più non lo vidi. Dopo circa un quarto d’ora, vedendo altre persone che si raccoglievano in un punto a non molta distanza dal luogo in cui ero, spinto dalla curiosità accorsi e trovai morto Antonio De Vuono

Ma se Giovanni Cava ha mentito su diversi aspetti, cosa peraltro consentita agli imputati, ha certamente detto la verità sulla sua indole calma e tranquilla di onesto lavoratore, tant’è che il Sindaco di Pedace si affretta a metterlo nero su bianco. Ma secondo il padre del povero Antonio De Vuono l’attestazione del Sindaco non sarebbe vera e, il 20 ottobre successivo, va dal Pretore a riferire che la moglie dell’imputato ha pubblicamente dichiarato il figlio è morto innocente a causa del di lei marito, ch’era stato sempre di mala condotta e manesco. La verità è che Giovanni Cava, fino al momento dell’omicidio, con la giustizia non ha mai avuto a che fare e ad attestarlo non sono le parole, ma il suo certificato penale.

Comunque, di buona o cattiva condotta, ha commesso un omicidio e va perseguito secondo la legge.

Ma prima di chiudere l’istruttoria bisogna ascoltare altri due testimoni che, pare, possono aggiungere qualche particolare importante ai fini delle indagini.

Verso le ore tre pomeridiane del 26 agosto, io mi trovavo dietro la torre denominata Righijo Soprano per un atto corporale – racconta Santo Calabrese di Donnici –. Giovanni Cava, a voce alta, questionava con Gaetano Muto perché l’asino di Francesco De Vuono, padre di Antonio, aveagli danneggiato la sua bica di germano, posta nella vicina aia. Cava, tenendo l’asino per cavezzo, diceva che lo avrebbe presentato a Spezzano Grande. Muto, con belle maniere, rispondeva che non occorreva fare strepiti perché lo avrebbero risanato di ogni danno patito. Cava lasciava in quel luogo Muto e conducendo seco l’asino si portava verso la sua aia. Immediatamente dopo vidi Antonio De Vuono a passo regolare recarsi verso l’aia e quindi si verificò l’omicidio. Io non posso narrare le circostanze che accompagnarono l’omicidio perché dal luogo ove mi trovavo, l’aia non si vedeva perché, frapponevasi alla visuale una pianta di faggio

Ero nella mia torre – ricorda Eugenio Infelise – quando intesi la voce di Giovanni Cava che diceva: “Lasciate gli animali in balia di loro stessi e commettono danni!”. A queste parole uscii e vidi che Cava teneva per la cavezza un asino continuava a dire: “io conduco a Spezzano l’animale e darò querela”. In questo mentre uscì dal pagliaio Antonio De Vuono, inerme, e si avviò al punto ov’era Cava e, non appena si avvicinò a costui, gli diè una spinta volendo togliergli la cavezza ed un altro individuo, per fare lasciare la cavezza a Cava, gli diè un colpo di palo, ma non vidi dove lo colpì

– A che distanza vi trovavate?

Io vidi tutto ciò alla distanza di un centocinquanta metri e quando fui vicino ad essi, fatta una scesa ed una salita, trovai ferito De Vuono e vidi che Cava fuggiva, mentre l’individuo che gli dette la bastonata soccorreva De Vuono.

– Ne siete certo?

– Si, Cava ricevette il colpo di palo nel momento che De Vuono voleva togliere l’asino a Cava e non dopo che De Vuono fu ferito da Cava. Se fosse stato così io avrei dovuto al certo vedere l’atto del ferimento, che non vidi come ho già detto.

Infelise è un testimone indifferente, come suole dirsi quando non appartiene a nessuna delle due parti in causa, e smentisce categoricamente tutti gli altri, ma la sua deposizione non viene ritenuta significativa e, il 21 gennaio 1884, Giovanni Cava viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario.

Ma cosa ha potuto davvero spingere Giovanni Cava, un uomo che non si è fatto mai sentire, ad uccidere? Poche spighe di grano sembrano davvero un movente troppo labile. La paura di vedere compromessa la sua fatica? La rabbia per non avere ottenuto risposta ai suoi richiami? Difficile capirlo, forse non lo ha capito nemmeno lui il perché.

Il dibattimento è fissato per il 5 marzo successivo e non ci sono grosse sorprese. Per la Corte, certamente non si trattò di legittima difesa come richiesto dal difensore, ma a Cava viene riconosciuta l’attenuante della provocazione lieve, che porta la Corte a comminargli la condanna ad anni 10 di reclusione, oltre alle pene accessorie, spese e danni.

Il 18 aprile 1884, la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso di Giovanni Cava e la pena diventa definitiva.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.