QUESTIONE DI DONNE

Sono le 19,00 di domenica 22 giugno 1902 quando un gruppo di giovanotti sta chiacchierando nella piazzetta Cimalonga a Scalea, uno spiazzo antistante all’edificio adibito a Carcere Mandamentale. Tra gli altri ci sono i calzolai diciottenni Carmine Fortunato e Vincenzo Calvano, il loro coetaneo Antonino Scarfone, muratore, e il custode del carcere Bartolomeo Dal Pra. Con andatura ciondolante, forse ha bevuto qualche bicchiere di vino, si avvicina il ventenne falegname Carmine Amato, un tipo gioviale a cui piace scherzare con tutti e ben presto richiama su di sé l’attenzione dei presenti, che cominciano a sfotterlo a causa di una relazione amorosa con certa Giovannina Rondinelli abitante in quei pressi.

Scarfone gli dà un buffetto in fronte e Amato lo prende scherzosamente per il petto; Pietro Guido gli sventola sul muso dei fiammiferi, mentre Carmine Fortunato gli mette in bocca la propria sigaretta accesa, prontamente accettata. Scarfone gli toglie il cappello e lo butta a terra; Amato fa altrettanto con Vincenzo Calvano che, a sua volta, lo toglie a Carmine Fortunato ed è un piacere vedere questa sarabanda di cappelli che volano in aria, giovanotti che corrono di qua e di là spingendosi tra urla e risate. Ma, si sa, il gioco è bello se dura poco e ben presto lo scherzo degenera in quistione seria tra Calvano e Fortunato da una parte e Amato dall’altra. Nella colluttazione che ne segue tutti e tre riportano graffi e lividi e per evitare il peggio si mette in mezzo tal Nicola Ciffone che riesce a dividere i contendenti, al che Amato, rivolto a Fortunato, dice:

Credi tu che io mi metta paura del tuo trincetto? – alludendo all’affilatissimo attrezzo usato dai calzolai per tagliare la suola e troppo spesso usato per ferire ed uccidere.

Se avessi avuto il trincetto, a quest’ora ti avrei già menato! – gli risponde Fortunato.

A questo punto, incalzati dagli amici, i tre si allontanano dalla piazzetta prendendo direzioni diverse: Amato va a casa, Calvano va in direzione del Municipio e Fortunato nella bottega del suo maestro e, con la scusa di doversi pulire le unghie, si fa prestare un trincetto, poi va anch’egli verso il Municipio. Arrivato in Via Gravina trova Calvano e Scarfone e i tre si fermano a parlare. Poco dopo sopraggiunge anche Carmine Amato con un piccolo bastone da passeggio fra le mani ed è inevitabile che, appena vicini, il diverbio si rianimi con reciproche espressioni di nuove sfide da parte di Amato e Fortunato:

Non ho paura, vieni dietro il carcere, se ci vai stasera o la mia o la tua! – dice Amato.

Ci sono andato, ci vado e ti piscio in culo! – gli risponde Fortunato.

Carmine Amato, ripensando a tutte le volte che Calvano e Fortunato lo avevano messo in derisione per la relazione amorosa colla Giovannina al punto da suscitargli l’odio di altro pretendente e ripensando anche alla rivalità per certa Annunziata Rotondaro, donna di facili costumi, a questa offesa sta per lanciarsi addosso a Fortunato ma, per il sopraggiungere dell’Arciprete De Patta che li esorta ad andarsene, anche questa volta il peggio è scongiurato. Amato gira le spalle e fa per andarsene, quando Fortunato e Calvano, in tuono di dileggio, gli dicono:

Ora te ne vai? Hai paura?

È troppo. Carmine Amato si gira di scatto e assesta una bastonata a Fortunato che, insieme a Calvano, si scaglia contro l’avversario. Calvano lo spinge contro un muro, gli mette una mano alla gola e con l’altra comincia a tirargli dei pugni in faccia; Fortunato, approfittando di questo momento, tira fuori il trincetto e gli vibra un tremendo colpo alla coscia destra. In questo momento, attirate dalle urla, arrivano le sorelle di Calvano, che afferrano il fratello per le spalle e lo portano via; Amato, libero dalla morsa alla gola, comincia a scappare, mentre il sangue schizza fuori a spruzzi dalla ferita; Fortunato lo insegue urlando:

Perlamadonna ce ne debbo dare un altro!

Ma, mentre sta per raggiungere Amato, viene afferrato dal dottor Giovanni Ricci, anch’egli accorso sul posto attirato dalle urla, che lo blocca.

Carmine Amato corre per una ventina di metri, poi si ferma sulla porta della farmacia di Domenico Caputo, si accascia a terra e indica con la mano la ferita. In questo momento arriva sua madre che gli si butta addosso pensando di poterlo soccorrere, lo bacia e proprio in questo momento Carmine Amato muore per l’emorragia causata dalla completa recisione dell’arteria femorale, dovuta al colpo di trincetto, penetrato per dieci centimetri nella coscia.

Mi ha detto che lo hanno ammazzato Nigorello e Piccioleo… – i soprannomi di Fortunato e Calvano, dice la donna piangendo.

Fortunato e Calvano si dileguano, ma il primo, l’accoltellatore, la sera stessa si presenta ai Carabinieri e dice:

Ho avuto questioni con Carmine Amato davanti alle carceri e ci siamo scambiati delle percosse. Egli era alquanto brillo e cominciò a scherzare con altri giovani facendosi cadere reciprocamente i berretti dal capo. Lo fece pure cadere a Calvano col quale venne a colluttazione e lo graffiò alla fronte. Io mi posi in mezzo per dividerli e Amato inveì contro di me e perciò ci scambiammo le percosse, poi ci divisero e fecero allontanare Amato. Poco dopo venne la di lui madre e lo rimproverò ed egli disse a me: “Credi che io mi metta paura del tuo coltello da scarparo?”. Io risposi: “Se lo avessi avuto ti avrei già menato”. Mi allontanai verso la Piazza Municipio e non vidi dove andò Amato. Vidi fermati Vincenzo Calvano e Antonio Scarfone e andai da quella parte; sentii che Calvano gli raccontava che Amato si era vantato, poco prima della quistione, alludendo a Scarfone che se avesse parlato altro poco, lo avrebbe buttato nell’orto sottostante. Scarfone si disturbò e voleva andare in cerca di Amato, ma proprio in questo momento Amato arrivò col piccolo bastone ed avvicinatosi a me, mi afferrò per il petto dicendo: “Vieni per la via di Cimalonga che ce la vedremo”. Si intromise l’Arciprete De Patto e cercò indurlo ad andarsene. L’Arciprete se ne andò e Amato venne di nuovo contro a me vibrandomi due colpi di bastone. Io lo esortai ad andarsene e lasciarmi stare. Calvano e gli altri presenti cercavano di trattenerlo ed io, in tale circostanza, gli diedi il colpo di trincetto. Fui trattenuto non so da chi e Amato fuggì verso la farmacia Cupido. Appena liberatomi corsi dietro a lui non già per ferirlo, bensì per andarmene a casa

– Qualcosa non quadra… hai detto che durante prima lite non avevi il trincetto e nella seconda invece lo avevi, quindi o sei andato ad armarti o qualcuno te lo ha dato durante la seconda lite. Un uccellino ci ha detto che sei andato nella bottega del tuo maestro e lì trincetti ce ne sono a volontà!

Non è vero che andai ad armarmi di trincetto nella bottega del mio maestro Salvatore Didona dopo avuta la prima quistione; io invece avevo preso il trincetto verso le ore sedici e mezzo o diciassette per aggiustarmi le unghie e poi l’avevo messo in tasca come solevo fare da parecchi giorni perché temevo che un certo Raffaele Riccetti, col quale ero in urto per rivalità amorose, avendo egli avanzato pretese sulla ragazza Angela Russo con la quale pure io amoreggiavo. Lo stesso Amato mi aveva avvertito che Riccetti l’aveva con me

– L’uccellino ci ha detto pure che tu e Calvano sfottevate Amato per via di una ragazza, ne sai qualcosa?

È vero che Carmine Amato amoreggiava con Giovannina, che abita vicino al carcere, con la quale pure amoreggiava Matteo Marsiglia. Circa otto giorni addietro, una sera camminando assieme a Calvano e Emanuele Covelli, incontrato Marsiglia, gli dissi per scherzo: “Non andare da questa parte perché c’è Amato” e, per colorire lo scherzo, a certo punto, mentre Marsiglia si era allontanato gli lanciai una pietra. L’indomani Marsiglia chiese spiegazioni ad Amato, facendo anche quistioni a parole, ma intervenni e spiegai la cosa. Parecchie volte alcuni giovanotti scherzavano Amato per la sua relazione amorosa ed egli specialmente l’aveva con Marsiglia.

– Perché lo hai colpito? Avevi rancore?

Non nutrivo rancore verso di lui, la mattina avevamo mangiato ciliegie insieme e gli avevo rasa la barba

– Non nutrivi rancore però sei andato ad armarti altrimenti lo avresti usato prima, come hai ammesso tu stesso…

Non è vero! Se non lo usai nella prima quistione fu perché non volevo trascendere; lo adoperai nel secondo incontro, ma non ebbi intenzione di ucciderlo!

– E il trincetto dove lo hai messo?

Nel fuggire in mezzo alla campagna gittai il trincetto in mezzo alle messi

Due giorni dopo i Carabinieri sorprendono Calvano nella bottega del suo maestro e lo arrestano.

Mi protesto innocente per non aver partecipato in alcun modo al delitto commesso da Carmine Fortunato.

– Però sappiamo che lo tenevi per il collo e gli tiravi pugni mentre Fortunato gli vibrava il colpo di trincetto…

Non è vero che gli tirassi pugni e lo tenessi per la gola; io invece cercai afferrare e trattenere Fortunato quando vidi che si avventava contro Amato. Allora mia sorella Carmela e Gennaro Serra mi afferrarono e mi condussero via.

Ma le cose sono andate veramente così? Secondo molti testimoni, compreso il fratello della vittima, Calvano afferrò Carmine Amato dopo aver ricevuto delle bastonate; altri raccontano che non avrebbe preso per la gola la vittima e non gli avrebbe dato pugni perché trattenuto dalle sorelle; altri ancora dicono che, al contrario, Calvano si adoperò per mettere pace tra Fortunato e Amato. Solo Biagio Riccetti dice di aver visto Calvano aggredire Amato nello stesso istante in cui Fortunato stava estraendo il trincetto dalla tasca; Quello su cui tutti sembrano essere d’accordo è la circostanza riferita dalla madre della vittima sui nomi fatti da Amato prima di morire: nessuno ha sentito niente.

Per il Pretore di Scalea, delegato alle indagini, il movente della rissa dovuto agli sfottò per la relazione amorosa di Amato sembra una sciocchezza ed ordinano ai Carabinieri di approfondire le indagini. Ci sono dei dubbi anche sulla effettiva partecipazione di Calvano al fatto e bisogna approfondire anche questo aspetto. Il 21 luglio 1902 il Brigadiere Fortunato Bernardi risponde: dalle indagini praticate non ho potuto stabilire se vi sia stata altra causa che abbia spinto Fortunato Carmine a commettere il delitto, se non quella già fatta nota. Circa la partecipazione di Calvano Vincenzo nell’omicidio, mi risulta che egli, nel momento del fatto, vi prese parte percuotendo con pugni il disgraziato Amato e cioè, quando quest’ultimo era entrato in quistione col Fortunato, Calvano gli si avventò addosso pel primo dando campo all’uccisore di vibrargli il colpo di trincetto. Dopo commesso il delitto, Calvano non si fece vedere in sulle prime, ciò che è da sospettare che egli stesso si accusava reo e quindi temeva di essere arrestato. In fine, la voce pubblica, benché non si pronunzi nessuno pel timore che quelli di sua famiglia vanno dicendo, accusa Calvano come principale autore della quistione, senza la cooperazione del quale, l’omicidio si sarebbe scongiurato.

Ecco, adesso sembra essere tutto chiaro ed il Pretore invia gli atti alla Procura del re indicando Fortunato e Calvano come responsabili di omicidio in correità, ma il Pubblico Ministero, assodata la responsabilità di Carmine Fortunato, non la pensa allo stesso modo nei riguardi di Calvano perché, se egli tutto al più  può e deve rispondere di quel concorso generico che, nei reati di sangue avvenuti in rissa, la legge giustamente presume in tutti quelli che posero la mano sull’offeso e prevede e punisce, non può e non deve affatto rispondere, esso Calvano, del vero, specifico e determinato concorso e molto meno di correità. Infatti, a meno che non si voglia seguire il deplorevole sistema tenuto dal Pretore nel suo sunto storico e cioè quello della gratuita asserzione; a meno che non si voglia seguire l’altro anche più deplorevole della smania di ingrossare i processi e di sostituire il principio della vendetta delle parti a quello della giustizia, sfidasi chiunque a trovare nelle tavole processuali, lette con occhio imparziale e giuridico, le prove vere in fatto e in diritto della voluta correità di Calvano. Tutti i testimoni, e furono molti, e primo tra essi il fratello dell’ucciso, furono concordi nello ammettere che Calvano si avventò contro Amato solo dopo che costui aveva cominciato a percuotere lui e Fortunato di bastone. Alcuni dicono che non giunse ad afferrare Amato; qualcuno anzi afferma ch’egli si slanciò per mettere pace e per trattenere non Amato ma Fortunato. Ma anche a volere ammettere che siano vere dichiarazioni del teste Riccetti e quelle di Carmine Fortunato, i quali dichiararono che nonostante l’intervento delle sorelle di Calvano per trattenerlo questi afferrò Amato per la gola e gli tirò dei pugni e che in quel momento Fortunato vibrò il colpo fatale, che prova mai è ciò? Prova forse che Calvano conosceva le intenzioni omicide di Fortunato e che perciò afferrò Amato per determinare o aiutare Fortunato a colpirlo? Nessuno, nemmeno il Pretore ha osato affermare che Calvano sapeva che Fortunato era andato ad armarsi e, d’altronde, chi avrebbe potuto prevedere il nuovo incontro?

Va bene, ma pesano sempre come un macigno le ultime parole pronunciate da Amato prima di morire: “Mi hanno ammazzato Nigorello e Piccioleo”. Per il Pubblico Ministero quelle parole non proverebbero nulla, non fosse altro che nessun testimone afferma di averle udite, tranne la madre di Amato. Per queste ragioni il Pubblico Ministero chiede alla Sezione d’Accusa che Calvano non debba essere chiamato a rispondere di correità in omicidio, ma di partecipazione in rissa e di lesioni lievi prodotte alla vittima nella prima fase della rissa e ne chiede la scarcerazione.

L’11 ottobre 1902 la Camera di Consiglio, accoglie la richiesta del Pubblico ministero e ad occuparsi del caso sarà la Corte d’Assise di Cosenza.

Il 23 novembre 1903 si tiene il dibattimento, che viene però spostato a Castrovillari, e la Corte, ascoltati i testimoni e letti gli atti, ritiene che il reato di omicidio volontario contestato a Carmine Fortunato debba essere derubricato in omicidio preterintenzionale e condannato, con la concessione delle attenuanti, ad anni 5 e mesi 7 di reclusione. Vincenzo Calvano è ritenuto responsabile dei reati ascritti e condannato a giorni 41 di reclusione.

La suddetta sentenza, per non avvenuto ricorso in Cassazione, è divenuta esecutiva.[1]

[1] ASCS, Processi Penali.