IL MISTERO DEL CALZOLAIO

È l’alba del 10 maggio 1901 e non piove più da qualche ora quando Francesco De Marco esce dalla sua casa, sita in Via Cappuccini di San Giovanni in Fiore, per andare a zappare come fa ogni santo giorno. Fatti alcuni passi, nella penombra scorge per terra, bocconi, un individuo che dà appena segni di vita. Si china per capire chi sia, ma il viso dell’uomo è completamente ricoperto di fango. Urla per richiamare l’attenzione dei vicini, subito accorrono molte persone e qualcuno va alla vicina fontana a prendere dell’acqua per lavare il viso dello sconosciuto. Qualche esclamazione di sorpresa: è il ventiseienne calzolaio Francesco Saverio Talarico, uomo stimato da tutti, con una ferita al sopracciglio sinistro, probabilmente dovuta alla caduta, dalla quale ancora sgorga del sangue. Ora che la luce del giorno avanza, i presenti notano sotto l’addome di Talarico una pozza di sangue e tutti pensano che sia stato accoltellato, ma quando lo sollevano per portarlo a casa, appare evidente a tutti che sull’addome non c’è alcuna ferita ed è strano perché se non ci sono ferite all’addome, la pozza di sangue si sarebbe dovuta trovare sotto la testa di Talarico, ma probabilmente il ferito, il cui alito puzza ancora di vino, è caduto, ha battuto la testa e poi, nel tentativo di rialzarsi si è trascinato sulla strada ed è rimasto nella posizione in cui è stato trovato.

Quando Talarico è a casa, sempre incosciente, i familiari gli tolgono gli abiti sporchi di sangue e lo rivestono ed è così che lo trova il medico, il quale lo dichiara in imminente pericolo di vita e ha ragione perché Francesco Saverio Talarico morirà alle 19,30.

Durante la mattinata sia i Carabinieri che la delegazione di Pubblica Sicurezza cominciano ad indagare sull’incidente, ma nessuno degli abitanti di Via Cappuccini sa o vuole dare informazioni utili. Nessuno ha sentito rumori strani o ha visto qualcosa durante la notte.

In realtà il Maresciallo Camillo Mancioli qualcosina un paio di giorni dopo riesce a scoprirla. Scopre, per esempio, che il defunto trovavasi in intime relazioni con Maria Rosa Marra, di anni 26, maritata, il cui marito però trovasi per lavoro emigrato in America. Siccome essa Marra abita nella casa circostante alla località ove avvenne il fatto, la interroga insistentemente, finché la donna ammette:

La notte dal 9 al 10, verso le ore 11, ero coricata nel mio letto in compagnia di una mia nipotina quando sentii bussare alla porta di casa. Non volli aprire e dopo pochi istanti intesi un corpo cadere e quindi qualche gemito… ero impaurita e feci alzare mia nipote per assicurare meglio la porta di casa con un catenaccio… la mattina, poi, vidi Talarico dove era stato trovato moribondo

Il Maresciallo interroga anche la bambina che conferma tutto, poi interroga di nuovo Maria Rosa per chiederle come mai la mattina del 10 maggio, quando le aveva chiesto se avesse sentito o visto qualcosa, negò:

Sulle prime ho tenuto celato ciò che ora vi ho detto perché mi vergognavo, dovendo fare brutta figura verso il pubblico

Beh, se le cose stanno così, il Maresciallo Mancioli pensa bene essere in grado di ricostruire i fatti: Talarico era andato come di consueto a trovare Maria Rosa Marra, che in quella notte per combinazione aveva con sé la nipote e non aprì. Egli, ubriaco, nello scendere la stretta scala esterna, scura e senza parapetto, per riprendere l’attigua via pubblica, pure scabrosa, scivolò e cadde andando a battere la testa sopra il selciato dove fu trovato agonizzante. E che il fatto siasi svolto in tal modo si rileva anche perché dalla molte indagini praticate fin dal primo momento ad oggi, nulla abbiamo trovato che lasci ritenere trattarsi di delitto e cioè che Talarico potesse essere stato gettato in quella località da qualche persona, perché tanto sul posto, quanto nelle vicinanze non riscontrammo traccia di lotta alcuno. Non farebbe una piega se dai molti sopralluoghi svolti non fosse emerso che, anche cadendo dalla scala, sarebbe stato impossibile a chiunque prodursi la frattura dell’osso frontale perché sulla strada non ci sono pietre, ma solo terra e fango. No, la ferita fu causata da un colpo vibrato con un corpo contundente da braccia umane, vigoroso e secco, assicura il dottor Pasquale Caligiuri dopo aver effettuato l’autopsia. Ma c’è anche un’altra circostanza che contrasta con la ricostruzione del Maresciallo: la posizione in cui fu trovato Talarico: secondo i periti, se fosse caduto dalla scala, alta 3,50 metri dal livello della strada, non avrebbe potuto trovarsi lungo e disteso per terra, mentre è risaputo che avrebbe assolutamente dovuto descrivere almeno un quarto di semicerchio e quindi altra sarebbe stata la parte colpita. Il corpo, quindi, non sarebbe stato trovato bocconi e ad una distanza di due metri e mezzo dalla scala.

Appena in paese comincia a girare questa notizia, il popolino, specie quello che, pur conoscendo i protagonisti del dramma, per quieto vivere mantenevasi estraneo all’affare, conviene col parere del medico ed impreca agli assassini. A questo punto si fa avanti Gugliemo Adamo che giura di avere accompagnato Talarico fino ai pressi di casa, distante un chilometro e mezzo dalla casa di Maria Rosa Marra ed è chiaro che non poteva essere ubriaco, perché se lo fosse stato non avrebbe potuto percorrere quella via assai difficile, specie di notte, né avrebbe potuto allegramente canticchiare, come ebbe ad udirlo Giovanni Granata verso le 22,00 del 9 maggio.

Ipotesi sul o sui colpevoli? No, la ricerca dei colpevoli riesce difficile per un cumulo di circostanze e soltanto dalla voce pubblica, che non sempre è veritiera, si sono potuti raccogliere degli indizi su alcuni individui, scrive il Delegato di P.S. Giacinto D’Ippolito il quale, dopo quasi quattro mesi dal fatto, continuando ad indagare, apprende qualcosa che, se da un lato potrebbe rappresentare la soluzione del caso, dall’altro potrebbe ingarbugliarlo del tutto: La voce pubblica incomincia vagamente ad accennare a certe pratiche segrete del giovane con le sorelle Maria Rosa e Maria Teresa Marra! Cosa cosa cosa? D’Ippolito approfondisce e scopre che le sorelle Maria Rosa e Maria Teresa di anni 30, maritata a Fortunato Talarico alias Mascarione, avevano i rispettivi mariti nelle Americhe e si servivano dell’opera di Francesco Saverio Talarico sia per tenere loro la corrispondenza epistolare, sia per la confezione delle scarpe. Pare che, però, le relazioni primitive divenissero più intime, tanto da diventare l’amante delle sorelle. La tresca, per quanto occulta, cominciò a trapelare e venne alle orecchie dei mariti offesi, i quali anche nelle lontane Americhe ebbero a proferire parole di vendetta. Ritornato in paese, Mascarione mostrò un contegno freddo verso la moglie e, sospettando che questa avesse avuto in dono dal calzolaio un paio di scarpe, non le permise calzarle, sebbene avesse finto di averle avute cedute da sua sorella Maria Rosa. Troncata, pertanto, la relazione con Maria Teresa, il calzolaio fu più assiduo a continuare con Maria Rosa. Così operando suscitò anche il risentimento di un fratello delle Marra a nome Biagio, il quale ebbe ad esprimere propositi di vendetta. Stando così le cose, è chiaro che Fortunato Talarico Mascarione non più bene vedeva il calzolaio e rimane così stabilito un principio di inimicizia, consigliatrice di vendetta.

Ma i sospetti non si fermano al marito di Maria Teresa, perché il marito di Maria Rosa Marra è il figlio di certo Tommaso Iaquinta d’anni 53, detto mastro Paolo Pino (qualificato dal pubblico anche col nomignolo assai poco onorevole di “micidiante” cioè persona dedita agli omicidi). Fra costui ed il defunto Francesco Saverio Talarico correvano i migliori rapporti d’amicizia, ma vennero ad affievolirsi pel mancato matrimonio delle figlie di mastro Paolo Pino ed eccone la versione corroborata da pruove. In Rocca di Neto esiste la famiglia Serrao, composta da buoni elementi. Detta famiglia, o per meglio dire i giovani Giovanni, d’anni 26, e Antonio, d’anni 24, a mezzo di uno zio del calzolaio defunto, a nome Antonio Lopez, strinsero legami di amicizia con mastro Paolo Pino e fra Giovanni ed una delle di costui figlie corsero delle promesse di matrimonio, effettuato il quale avrebbe dovuto seguire un altro tra Antonio ed altra figlia di Iaquinta. Nell’aprile ultimo decedevano, in Rocca di Neto, i genitori dei fratelli Serrao, onde il Iaquinta credette doverosa una visita di condoglianza. Colà, però, trovò che i Serrao avevano cambiato avviso e che di matrimoni non ne volevano più sapere. Sconfortato, mastro Paolo Pino se ne tornò a San Giovanni ed il suo primo pensiero fu quello di scoprire il perché dell’improvviso voltafaccia dei Serrao e ritenne che, siccome erano cominciate a girare in paese delle dicerie ledenti l’onore della figlia promessa sposa di Giovanni Serrao, pensò che qualcuno potesse aver riferito le maldicenze al promesso sposo, causando così la rottura. Ovviamente per mastro Paolo Pino la priorità divenne scoprire chi potesse essere stato a riferire la cosa a Giovanni Serrao e ritenne che non potesse essere stato altri che Francesco Saverio Talarico il quale aveva confidato tutto allo zio Antonio Lopez, che a sua volta raccontò tutto ai fratelli Serrao.

Da questo momento in poi mastro Paolo Pino cominciò mostrarsi assai freddo col calzolaio, e soltanto il 9 maggio furono visti insieme. Quindi Tommaso Iaquinta, alias mastro Paolo Pino, entra nel novero dei sospettati perché avrebbe benissimo potuto pensare ad una doppia vendetta per i mancati matrimoni e per l’onore del figlio caduto nel fango a causa della relazione tra il morto e la nuora Maria Rosa Marra.

Possono bastare due sospetti con motivi d’onore alla base della loro possibile vendetta? Secondo il Delegato D’Ippolito, no. Superata l’iniziale ritrosia, adesso molte persone che abitano nei pressi dove fu trovato agonizzante il calzolaio cominciano a parlare, qualcuno forse a sproposito, ed il Delegato scopre che Maria Rosa Marra, appena fu trovato il calzolaio, cercò di mostrarsi indifferente, tanto che neppure accorse a vedere l’infelice che giaceva sotto la sua abitazione. Interrogata informalmente da un Carabiniere negò di aver sentito alcunché, durante la notte, affermando anche di non conoscere Francesco Saverio Talarico. Perché questo comportamento? Anche Maria Rosa è sotto osservazione.

Poi il Delegato D’Ippolito, che ormai ha preso in mano la conduzione delle indagini, ottiene informazioni da altri testimoni e si ingegna, anche lui, a ricostruire l’aggressione al calzolaio, in base al racconto che gli ha narrato la quarantenne Angela Maria De Marco, unica testimone oculare dei fatti, così dice. Ma il Delegato sente la necessità di fare una premessa: costei è ritenuta per epilettica, è una libera pensatrice e per tali qualità sortite dalla natura (mentre si protesta spettatrice della tragedia) le si vorrebbe negar credito in quanto una prostituta e per di più epilettica, rotta ai vizi ed irresponsabile dei suoi atti non può meritare fede. Il Delegato assicura di aver attentamente indagato sulle ragioni che avrebbero potuto spingere la disgraziata donna a raccontare una favoletta ma nulla è risultato e quindi Angela Maria De Marco merita fede: chi osa poi negare che nel cuore di una prostituta non alberghino, come in quello degli altri esseri, affetti vivissimi di amore e di odio?

Terminata la premessa, D’Ippolito passa alla ricostruzione dei fatti: la sera della tragedia, Angela Maria vide il calzolaio insieme alle sorelle Marra che parlavano fra loro nei pressi della casa della madre delle Marra. Più tardi, tra le 22 e 23, la De Marco usciva senza luce da casa, diretta a casa di altri per acquistare delle patate. Al ritorno vidde Tommaso Iaquinta, le sorelle Marra e Talarico Mascarione, che in quell’ora insolita confabulavano fra loro, ma non ci fece caso più di tanto. Poi, deposte le patate, accese un legno resinoso e si diresse alla vicina fontana per attingere acqua, ma alla svolta della cantonata trovò Tommaso Iaquinta che le spense la torcia e la maltrattò. Impaurita rientrò subito in casa ma, avendo poco dopo sentito dei lamenti, fu altra volta sulla strada e vide Tommaso Iaquinta e Maria Rosa Marra provenienti dalla casa della madre delle Marra, l’uno sorreggendo la testa e l’altra i piedi di una persona che depositarono nel punto dove fu rinvenuto agonizzante il calzolaio.

Altri testimoni gli riferiscono di sensazioni, parole, frasi, ammissioni che gli indagati avrebbero fatto, ma è un ginepraio. La sostanza è che, vuoi per la dichiarazione di Angela Maria De Marco, vuoi per tutte le altre parole ascoltate che tirano pesantemente in ballo anche Maria Teresa Marra e suo marito Mascarione, il Delegato conclude: da tutto quanto è sopra detto e dalle voci che corrono, io mi son convinto che l’assassinio è da attribuirsi a Tommaso Iaquinta, alla di lui nuora Maria Rosa Marra, alla sorella di questa Maria Teresa ed al marito di quest’ultima, Talarico Mascarione. Non è improbabile che i quattro presunti rei abbiano ecceduto nel fine propostosi perché si parla che il calzolaio venne attirato nella casa di Maria Teresa Marra per dargli una lezione, ma male finì, sia per disgrazia, sia per paura di rappresaglia, con la morte di Talarico e consiglia al Pretore di emettere i mandati di cattura per i quattro, cosa che avviene nel giro di poche ore dalla lettura dell’informativa.

Potrebbe essere e potrebbe non essere andata così, ma la cosa più sconvolgente che si legge nella relazione del Delegato è che ammette tranquillamente di avere affidato allo zio della vittima, Antonio Lopez, anziché ai Carabineri lo svolgimento di alcuni accertamenti a Rocca di Neto e allega la lettera con i risultati delle indagini! E siccome in paese queste cose si sanno, tutti si sentono autorizzati a raccontare qualunque cosa ed ogni cosa, vera, verosimile o addirittura inverosimile entra nel fascicolo processuale. Che, poi, i quattro indagati, interrogati, riempiano pagine e pagine per negare, fornire chiarimenti, veri o falsi che siano, è del tutto superfluo, essendo chiaro a tutti che il loro destino è ormai segnato.

Ma poi il Delegato D’Ippolito deve, forse, aver sentore che qualcosa sta cambiando e scrive al Giudice Istruttore, prima che questi invii il fascicolo alla Camera di Consiglio con gli esiti delle indagini e le richieste: Da circa quattro mesi data la cattura dei prevenuti, autori dell’assassinio di Francesco Saverio Talarico e l’opinione pubblica, in sulle prime alquanto titubante,ora dà ragione completa ai provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria la quale, nel fatto in esame, si è mostrata come sempre all’altezza del suo mandato, strenua difenditrice dei deboli e degli oppressi e vendicatrice implacabile del diritto offeso. Chi oserebbe più parlare di disgrazia? E chi non sa le ragioni del delitto? E chi invocherebbe clemenza per gli assassini?

In un piccolo tugurio di via Pietragrande la miseria e lo squallore regnano sovrani. Cotesto tugurio vide nascere e morire il povero Talarico ed ora dà l’ultimo asilo ad una infelice madre, vecchia paralitica distrutta dall’immane dolore ed alberga altresì la nonna dell’ucciso, una vecchia dei passati tempi, uniformata (come dice) alla volontà di Dio. Allorché la morte avrà mietuto quest’altre due grame esistenze, rimane chi ricorderà l’infelice assassinato, resta la sorella, esposta all’ira dei parenti degli accusati. È lecito perciò affermare che con la morte di Talarico è stata distrutta una intera famiglia ed io, per questo, mi domandavo se si potesse invocare clemenza per gli assassini: no, sarebbe un delitto!

Il mattino del 10 maggio 1901, saputosi che in pubblica via eravi una persona boccheggiante, molti accorsero a curiosare e nessuno riconobbe sulle prime chi si fosse, solo la Maria Rosa Marra, che la faceva da spettatrice, ebbe l’imprudenza di dire: “Quel giovane là è il figlio di Forella” (soprannome dell’assassinato). Tale dichiarazione che in sulle prime non venne rilevata, confermò, allorché venne riconosciuto Talarico, i sospetti corsi, onde tutti dicevano: “Hanno ammazzato il figlio di Forella!” e nessuno credette più alla versione della disgrazia.

Nei precedenti miei rapporti dissi le ragioni per le quali conformi al vero dovevansi ritenere le dichiarazioni della De Marco Angela Maria. Sfido chiunque trovare una plausibile ragione che avessela potuta consigliare ad accusare di assassinio persone che nulla le aveano fatto di male. Ed in vero, non appena fattasi la lugubre scoperta, la De Marco scendeva dalla via ove fu consumato il reato e, come invasa, andava ripetendo: “Si, si, è una disgrazia, altro che disgrazia, vorrei poter parlare…”, anzi a qualcuno disse il fatto, che poi confermò innanzi all’Autorità Giudiziaria.

È il 30 aprile 1902 quando la camera di Consiglio presso il Tribunale di Cosenza esamina le carte processuali che vedono i quattro imputati accusati di omicidio volontario premeditato. I tre Magistrati che compongono il Collegio non sono d’accordo con le conclusioni della Procura del re: secondo il Collegio per le sorelle Marra non emergono sufficienti indizi di reità e vanno prosciolte, con il parere positivo del Pubblico Ministero; per Tommaso Iaquinta e Fortunato Talarico il discorso è diverso: parecchie circostanze emergenti dagli atti prospettano evidentemente l’azione delittuosa dei prevenuti, la quale si è esplicata nel momento in cui Francesco Saverio Talarico confabulava con le sorelle Marra. L’unicità della lesione, il mezzo adoperato ed il difetto di reiterazione dei colpi stanno a dimostrare che l’azione dei prevenuti era diretta ad arrecare soltanto una lesione personale e mancava in essi la volontà omicida. Non è rimasto, infine, stabilito se il disegno fosse stato formato precedentemente all’esecuzione ed ignorandosi chi dei due abbia concorso con l’opera manuale e con l’assistenza, la responsabilità dei prevenuti dev’essere circoscritta nei limiti della semplice cooperazione immediata nel delitto di lesione personale volontaria seguita da morte. Gli atti adesso passano alla Procura Generale del re per le ulteriori richieste da fare alla Sezione d’Accusa.

Sezione d’Accusa che, il 18 dicembre 1902 emette la sentenza di rinvio a giudizio dei due imputati davanti alla Corte d’Assise di Cosenza con l’accusa di lesione personale volontaria seguita da morte.

È a questo punto che la difesa gioca la sua ultima carta chiedendo che sia acquisito agli atti un procedimento penale subito, un paio di mesi prima della morte di Talarico, da Angela Maria De Marco per oltraggio al pudore mediante il volontario alzarsi delle vesti e mostrare pubblicamente le parti pudende, esclamando: “Tutti vengono da me perché il mio è bello!”, tendente, ovviamente a minarne la credibilità, visto che è stata condannata a tre mesi di reclusione e non ci sono, al momento, documenti che attestino la sua scarcerazione prima del 9 e 10 maggio, giorni in cui avrebbe visto gli imputati colpire Talarico.

Il fascicolo viene acquisito e farà parte degli atti da esaminare nel dibattimento, che inizia il 24 novembre 1903. Alla fine delle udienze, il 6 dicembre successivo, il Presidente della Corte legge la sentenza: assoluzione per entrambi gli imputati.[1]

Si poteva e si doveva fare meglio, magari senza correre troppo dietro alla voce pubblica che, come aveva ammesso il Delegato D’Ippolito, non sempre è veritiera. Ma, tra le tante sbagliate, una cosa giusta il Delegato D’Ippolito l’ha fatta, affermando coraggiosamente, nel 1901, che anche una prostituta, per giunta epilettica, ha dignità umana.

[1] ASCS, Processi penali.