I MARINAI IN CAMPEGGIO E LA PUTTANA

Nell’estate del 1938 viene istituito a Moccone, in Sila, un campeggio (accampamento di villeggiatura) per marinai dei nostri reali equipaggi.

Tra questi ci sono anche il ventiduenne messinese Giuseppe Cardile, marinaio della regia nave “Giulio Cesare”, nonché Annunziato Zampaglione, silurista della medesima nave.

Zampaglione, lascivo e libidinoso al punto che si compiaceva di portare addosso stampe e cartoline pornografiche, la sera del 19 agosto, insieme al marinaio Consolato Imbalzano, si allontana abusivamente dal campeggio per andare a Cosenza in cerca di prostitute.

Qui il caso vuole che si imbatta in Gemma Funari, sua vecchia conoscenza, avendola trovata  tre anni prima in una casa di tolleranza di Reggio Calabria e poscia tenutala per suo conto in una casa mobiliata nella stessa città per circa quattro mesi.

– Perché non vieni a trovarci al campeggio? Ci sono molti marinai e potremmo fare buoni affari – le propone Zampaglione.

– Va bene, tanto qui fa caldo e in città non gira quasi nessuno – acconsente.

– Allora siamo d’accordo. Domani ti vengo a prendere alla stazione di Moccone.

La Littorina è puntuale e Gemma, quando scende, trova Zampaglione ed Imbalzano ad attenderla per portarla nel salone di Gervasi, dove restano alcune ore. Quando escono è ormai tardi per tornare al campeggio, così i tre decidono di dormire nel bosco circostante. È una notte di fuoco per Gemma e Zampaglione il quale, senza praticamente aver chiuso occhio, di buon mattino rientra al campeggio per far girare subito la notizia dell’arrivo di Gemma. Il risultato è quello sperato: due marinai non perdono tempo e vanno subito a trovarla ed a congiungerlesi.

Verso il tocco, poco dopo il rancio, mentre Gemma sta parlando con Zampaglione ed Imbalzano, arrivano altri tre clienti, il fuochista Pasquale De Felice ed i marinai Francesco D’Ascola e Giuseppe Cardile, i quali le portano il pranzo, costituito da un pezzo di carne, pane, vino, dolce e frutta.

Zampaglione, non appena vede Giuseppe Cardile si turba, sia perché fra loro c’erano state precedenti questioni, sia perché Cardile, abituale sfruttatore di donne, volendogli fare cosa astiosa, dice con tono che sa di imposizione:

Me la fotto senza pagarla, ed anche contro la tua volontà!

Tu non sei buono a far tanto – gli risponde Zampaglione.

A questo punto Cardile, in segno di disprezzo, gli da uno spintone e subito partono parole di sfida.

Gemma, che è poco distante e sta parlando con Imbalzano, vede la baruffa e intuisce che stanno litigando a causa sua, così si avvicina.

Di cosa parlate?

Non ti riguarda, sono affari nostri! – la zittisce Zampaglione.

Ma a Gemma quella risposta ha detto tutto e, preoccupata che questionassero per il di lei possesso, si affretta a dire:

– Non litigate, sono pronta ad accontentarli senza compenso.

Imbalzano, volendo impedire che l’iniziato contrasto avesse un seguito, si intromette e dice:

Se la volete, potete ben prendervela!

Ma Giuseppe Cardile, sempre più protervo, arrogantemente gli risponde:

Quando io debbo prendere qualche cosa la prendo, non ho bisogno del permesso di alcuno. Del resto non ne ho voglia ed io le donne non le ho mai pagate!

Guai in vista, così Imbalzano, rivolgendosi a Gemma nella speranza che, eliminata la causa della discordia, gli animi si possano calmare, dice:

Meglio che parti immediatamente

Gemma è d’accordo e, raccolte le sue cose dall’improvvisato bordello nel bosco, si avvia verso la stazione di Moccone, accompagnata da Zampaglione. Imbalzano li segue accelerando il passo per raggiungerli e invita Cardile e gli altri due a seguirlo, ma Cardile, al quale preme fare una bravata, mal sopportando che, con la partenza di Gemma cada nel vuoto il vanto di “prender la donna senza pagarla”, gli risponde con un sorriso beffardo:

Andate… io qua v’aspetto!

Certo, se Imbalzano avesse letto il certificato penale di Giuseppe Cardile, tipo da non temere la quistione o la galera, non gli avrebbe sorriso bonariamente, ma gli si sarebbe gelato il sangue nelle vene!

E infatti, quando Zampaglione e Imbalzano tornano dalla stazione, Cardile è lì ad aspettarli e li affronta, dicendo:

Voi non siete “uomini”, ma siete stronzi e miserabili. Io vi rompo il culo! – intendendo che non sono “uomini d’onore”, ‘ndranghetisti, come lo è lui.

Zampaglione, che non lo teme, risponde:

So di non essere un “uomo”, ma non sono uno stronzo, né mi rompi il culo!

A questa risposta, Cardile alza il tono della sfida:

Togli il ferro!

Non ne ho – risponde Zampaglione, che non vuole arrivare ad una sfida al coltello, poi continua – non è questo il momento, mi farò avanti tra qualche giorno.

Cardile è furioso, prende un pezzo di legno che trova a portata di mano e si lancia contro l’avversario per colpirlo, ma viene trattenuto dal suo amico Francesco D’Ascola e questo dà il tempo a Zampaglione di raccattare da terra un pezzo di legno e fronteggiare Cardile, che nel frattempo si è liberato dalla presa. Zampaglione attacca, i bastoni si incrociano come se fossero spadoni medioevali e l’esito della sfida è incerto, ma il bastone di Zampaglione è più robusto ed a furia di colpire quello di Cardile glielo spezza.

Zampaglione adesso potrebbe colpire l’avversario, ma si ferma e lascia cadere il bastone, dando l’opportunità a Cardile di mettere mano al coltello con una mossa fulminea per colpirlo al petto, in corrispondenza della regione mammaria, nel quinto spazio intercostale, spezzandogli l’apice del cuore sulla faccia anteriore sinistra.

Ahi! Esclama Zampaglione – mi hai ucciso, questo è il mio ultimo respiro! – poi stramazza al suolo.

Alla vista del sangue zampillante dal petto di Zampaglione, Imbalzano si toglie la maglia tentando un tamponaggio. Cardile tenta di fuggire, ma è bloccato da D’Ascola che gli dice:

Tu sei un vigliacco! Devi anche tu prestare aiuto!

Cardile si ferma e aiuta gli altri a trasportare il ferito in una casa presso la stazione di Moccone, poi lo bacia in faccia chiedendogli perdono. Imbalzano lascia gli altri col ferito e corre in cerca di un medico il quale, arrivato poco dopo, non può far altro che constatare la morte di Zampaglione, mentre Cardile ed i suoi due amici tornano al campeggio.

Diremo ai superiori che si è ferito da solo col coltello, nel far la punta ad un pezzo di legno. Intesi? – il tono, più che di un consiglio per cercare di togliersi dagli impicci, è quello di una vera e propria minaccia e De Felice e D’Ascola, avendo visto con i propri occhi di cosa è capace Cardile, acconsentono.

Ma quando arrivano i Carabinieri ed interrogano Imbalzano, la menzogna viene scoperta. Anche D’Ascola e De Felice lo sconfessano, giustificandosi col timore che incute loro Cardile, il quale, al contrario, insiste nella sua versione dei fatti fino a quando non si deve accomodare davanti al Procuratore del re

Non l’ho cominciata io la lite e non è stato per questione di donne. Ha cominciato Zampaglione dopo che D’Ascola gli chiese la restituzione di venti lire che gli aveva dato in prestito e poiché i due cominciavano ad alterarsi, io mi misi in mezzo… allora Zampaglione si rivolse contro di me, gli animi si accalorarono e mi diede una bastonata. Io lo afferrai ed egli continuò a dar legnate… cercai di dargli un morso al viso, al che Zampaglione tirò fuori un coltello dicendo: “Adesso ti scanno”. Tentò di darmi un colpo, ma io parai ed estratto un coltellino mi lanciai alla sua volta, ma senza intenzione di ucciderlo… disgraziatamente lo attinsi in un punto vitale. Cadde… lo sollevai, me lo caricai addosso mentre Imbalzano corse in cerca di un dottore… ma pensavo che la ferita non fosse mortale, gli chiesi perdono, lo baciaie poco dopo morì… Imbalzano rimase sul posto col cadavere, mentre noialtri tre ci allontanammo per raccontare i fatti ai superiori… – si ferma per riprendere fiato. Poi, come se le menzogne che ha raccontato non siano sufficienti, aggiunge altre perle – nell’allontanarci Imbalzano ci disse: “Dobbiamo dire che Zampaglione si è fatto male da solo”. Strada facendo, io, D’Ascola e De Felice ci mettemmo d’accordo di dire che Zampaglione si era fatto male appuntendo un bastone. A proporre di dire in questa maniera furono gli altri due e, anzi, De Felice aggiunse: “se no prendiamo trent’anni per ciascheduno”.

Il Procuratore, che ne ha sentite e viste tante, non si fa abbindolare dalla confessione satura di illogicità e bugie, non fosse altro che Imbalzano, D’Ascola e De Felice non hanno nessun interesse a nascondere la verità dei fatti. Piuttosto è un estremo tentativo per togliere gravità al delitto, un delitto di mala vita, e per creare gli elementi della legittima difesa o, almeno, della provocazione.

Terminate le indagini, il 26 dicembre 1938, Giuseppe Cardile viene rinviato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio semplice.

Il dibattimento si tiene nell’unica udienza del 28 marzo 1939 ed il Pubblico Ministero chiede la condanna dell’imputato a 28 anni di reclusione, la difesa chiede che il reato venga derubricato in omicidio preterintenzionale con la concessione dell’attenuante della provocazione.

La Corte osserva che le dichiarazioni dei testi Imbalzano, D’Ascola e De Felice, i soli che furono presenti alla rapida scena, portano ad escludere che concorra la richiesta diminuente della provocazione. Fu proprio l’imputato, col suo contegno teppistico e provocatore ad iniziare la quistione, alla quale la povera vittima avrebbe voluto, per amor di pace, ad ogni costo sfuggire; e fu sempre l’imputato che la volle concludere tragicamente, approfittando del generoso ed incauto atteggiamento della vittima, onde la quistione perdette perfino la iniziale fisionomia di duello rusticano, bastone contro bastone, per assumere quella, ancora più prava, di una vile aggressione, coltello contro mani inermi.

Poi continua: ma pur affermando che non competono al prevenuto né discriminanti, né diminuenti, tuttavia non puossi, con convinzione, affermare che egli avesse voluto uccidere. Il di lui contegno, anteriore e successivo al delitto, fa seriamente pensare che ebbe in animo soltanto di ferire, onde l’evento superò l’intenzione. Non iterò i colpi. Accortosi che il ferito stava male, gli chiese perdono e lo baciò. Questo non è il contegno di chi, nella sua cieca collera, ha voluto uccidere; tale contegno è connaturato – ove non sia una infernale finzione, né si hanno elementi per affermarla – a colui che, male oprando, ha ottenuto eventi maggiori ed imprevisti, testandone sorpreso, sgomento e pentito. Ciò posto è giustizia degradar la rubrica in omicidio preterintenzionale e precisamente lesione, aggravata per l’arma, seguita da morte.

In quanto alla pena da irrogare, la Corte non crede di poter indulgere, in considerazione della pravità d’animo addimostrata dal prevenuto. Pravità addimostrata  ancora dopo il delitto preparandosi un alibi falso, mercé intimidazione di testi contrari. Ciò posto, credesi equo partire dalla pena base di anni 14, aumentata di un settimo per l’aggravante dell’arma, cioè anni 16, e poscia aumentando questi di un ottavo per la recidiva, cioè ad anni 18 di reclusione, oltre a pene accessorie, spese e danni.[1]

È il 28 marzo 1939.

 

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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.