Quando la mattina del 24 maggio 1936 la madre ed il fratello di Santo Presta si accorgono che il suo letto è intatto e che, quindi, non è rientrato a casa la sera precedente, sono molto preoccupati perché non era mai successa una cosa del genere e si mettono affannosamente alla sua ricerca, temendo che possa essergli capitato qualche brutto guaio. Chiedono in giro a Belvedere Marittimo e qualcuno dice loro di averlo visto andare, il pomeriggio del giorno prima, verso Diamante, forse per giocare a carte con gli amici nella cantina di Antonino Triburzio.
– Si, è stato qui a giocare un paio di partite a briscola, erano in quattro: Santo, Bernardino Filippo, Raffaele Fortunato e Giuseppe De Luca. Hanno bevuto in tutto un litro di vino e ha pagato Santo. Mi ha dato un biglietto da cinquanta lire e io gli ho dato il resto… ricordo perfettamente di avergli dato quattro biglietti da dieci che conservò in un librettino notes – la madre ed il fratello di Santo annuiscono perché quella di mettere i soldi nel notes è una sua abitudine – una moneta d’argento da cinque lire e tre spezzati di nichelio da una lira…
– E poi?
– Poi se ne sono andati… ah! Dimenticavo… mentre stava uscendo, si è voltato e mi ha chiesto indietro l’involto col baccalà che mi aveva dato in consegna appena entrato…
– Che ora era quando sono usciti?
– Potevano essere le 18,30 e ho visto che con lui si è avviato Giuseppe De Luca il quale, prima di uscire ha insistito per fare un altro paio di partite, ma Santo ha detto che aveva fretta di tornare a casa…
– Erano ubriachi?
– Beh… sembrava di si…
Quindi, pensano i familiari di Santo, se alle 18,30 era vivo e vegeto, qualunque cosa gli è capitata deve essere stato sulla via del ritorno, così ripercorrono la rotabile Diamante-Belvedere alla ricerca di qualche indizio.
Non distante dall’osteria, quasi di fronte al ponte ferroviario “Vallecupo”, c’è un gruppetto di case. Vedono una donna davanti ad una delle case e le si avvicinano
– Non è che ieri sera dopo le 18,30 avete visto passare da qui due uomini?
– Si, a me sembrò che fossero ubbriachi perché barcollavano. Li vidi anche sedere sul brecciame, lì – continua indicando lo spazio stradale a forma di piazzola che precede di circa 125 metri il ponte ferroviario –, poi entrai in casa e non li vidi più…
Madre e figlio corrono a guardare nei dintorni del cumulo di pietrisco e notano che, dietro le pietre, il terreno strapiomba per un paio di metri. Il giovanotto scende nel terreno sottostante e urla di disperazione perché ha trovato il cadavere di suo fratello Santo.
Quando arrivano i Carabinieri e perlustrano il luogo, si accorgono subito che non può essersi trattato di una disgraziata caduta perché a venti metri dal cadavere rinvengono un pezzo della cravatta di cui la vittima si era fasciata e nello stesso punto, fra l’erba calpestata, una grossa pietra intrisa di sangue, mentre altre due pietre, pur esse macchiate di sangue, sono vicinissime alla testa del cadavere. Ma è il medico legale a certificare che siamo di fronte ad un omicidio, non tanto per la vasta ferita, contusa fino all’osso, alla regione sovraorbitale sinistra e per le altre due ferite contuse alla regione frontale, ma per la cravatta strettamente aderente intorno al collo che, funzionando da cappio, avea determinato una ecchimosi di forma lineare ed un affossamento dei tessuti, più o meno rilevanti. Asfissia per strangolamento.
Il movente della rapina appare subito evidente quando, perquisiti gli indumenti di cui il cadavere è coperto e che sono tutti sporchi di sangue, non viene trovato denaro di sorta, ma soltanto un libretto notes, una bustina di cartine per sigarette, due fazzoletti ed una chiave.
– Manca il portamonete che gli avevo regalato al mio ritorno dall’Africa – specifica il fratello
Interrogati, i testimoni indicati dai familiari della vittima confermano ciò che hanno già raccontato alla madre ed al fratello di Santo ed è chiaro che, essendo stata l’ultima persona ad averlo visto vivo, il principale sospettato del delitto è Giuseppe De Luca.
– Si, siamo usciti insieme dall’osteria e abbiamo fatto la strada insieme fin poco dopo il ponte Vallecupo e precisamente fino ad un accumulo di pietre esistente dopo oltrepassato il ponte. Qui Presta, accusando un malessere, si sedette e vomitò e poiché non accennava ad alzarsi, né a voler continuare il viaggio, lo lasciai dirigendomi da solo verso casa – racconta De Luca al Maresciallo che lo ha posto in stato di fermo
Il Maresciallo, sospettoso per mestiere, però trova strano il fatto che De Luca, che era stato tutta la giornata a vagabondare affiancandosi a Presta nella prima e seconda osteria, non che nell’intraprendere il viaggio di ritorno alle rispettive, non distanti, case, si distaccasse nel momento che era più utile stargli vicino. E trova strano anche il fatto che egli, che avea mostrato per tutto il giorno di non avere fretta, lo abbandonasse senza un ragionevole motivo, solo in aperta campagna a sera fatta ed ubbriaco.
– Andiamo a fare una passeggiata nel punto in cui lo hai lasciato e vediamo – ordina il Maresciallo
Arrivano sul primo cumulo di breccia ch’avvi appena superato il ponte, precisamente a 110 metri prima del punto dove giaceva il cadavere, ma non c’è nessuna traccia di vomito. È chiaro che De Luca ha mentito ed ora è proprio il caso di andare a perquisire l’abitazione del sospettato per cercare di rinvenire elementi utili alla soluzione del caso.
Trovano in un cassetto una moneta di argento da lire cinque, le scarpe ed il vestito indossati da De Luca il giorno avanti, spruzzati di macchioline rosse, che però non sono di sangue. Sul ginocchio sinistro dei calzoni c’è un’impronta di macchia verdastra di erba fresca
– Quella – dice la moglie di De Luca, ignara di tutto, indicando la moneta d’argento – l’ha portata mio marito ieri sera quando è tornato verso le 19,00…
Poi trovano l’involto con il baccalà e la frittata è fatta! De Luca, consapevole della gravità delle prove raccolte in casa sua, cerca di inventarsi qualcosa per deviare i sospetti
– Mentre mi avviavo a casa mia e percorrevo la strada del Calabro che inizia dopo il ponte Vallecupo e corre sull’argine dello stesso, fra la prima e la seconda casa abitate dai fratelli Donato, rinvenni per terra, legato in un fazzoletto bianco, un pezzo di baccalà. Lo raccolsi… giunto a casa tacqui ogni cosa a mia moglie…
– Da qui non è passato nessuno la sera del 23 maggio, per tutto il tempo che va dalle ore 18,30 alle 20,30, perché altrimenti lo avremmo notato o, quantomeno, ne avremmo avvertito i passi – giurano i fratelli Donato.
Al Maresciallo viene in mente che, viste le condizioni del cadavere, è probabile che ci sia stata una colluttazione tra la vittima e l’assassino, così, tornati in caserma, fa denudare De Luca per scoprire se abbia riportato qualche lesione. E infatti ha una escoriazione molto recente nella regione tibiale sinistra al di sotto della rotula avvenuta per caduta, come certifica il medico che lo visita, esattamente in corrispondenza della macchia di erba trovata sui pantaloni.
Non basta? Bene. I Carabinieri perquisiscono gli indumenti che de Luca indossava il 23 maggio e, tra la fodera e la stoffa di una manica, avvertono la presenza di un piccolo corpo duro. Scucita la fodera, viene fuori un borsellino di pelle con chiusura lampo, contenente 4 biglietti da 10 lire. De Luca, impallidendo terribilmente, farfuglia
– L’ho nascosto per togliere a mia moglie la possibilità di spendere il denaro…
– Quindi il borsellino è tuo?
– Il borsellino l’ho trovato ieri quando stavo andando da Belvedere all’osteria di Tribuzio in compagnia di mia zia e mio cugino, ma il denaro è mio…
Il problema, per De Luca, è che suo cugino, la mattina del 26 maggio, lo sbugiarda in regolare atto di confronto, negando che alla sua presenza ed a quella di sua mamma egli avesse trovato alcunché. E se neanche questo basta, il borsellino viene riconosciuto proprio per quello appartenuto alla vittima.
Nello stesso pomeriggio del 26 maggio Giuseppe De Luca viene interrogato di nuovo e finalmente si decide a parlare, seppure con molte reticenze
– Quando giungemmo alla piazzola col pietrisco, sorse tra di noi una discussione, della quale non ricordo più l’argomento, e Presta mi colpì con uno schiaffo; io risposi con un pugno e subito dopo lo afferrai per la cravatta che, non resistendo, si strappò… ma servendomi della parte residua, gliel’attorcigliai strettamente al collo, onde Presta barcollò, precipitando nel punto ove fu trovato morto…
– E i soldi?
– Tre di quei quattro biglietti contenuti nel borsellino li trovai in prossimità del luogo ove avvenne la colluttazione, il quarto è mio…
Secondo i Carabinieri le cose sono andate diversamente: stordito la vittima mercé improvviso colpo di pietra sul capo e soffocatola, l’avrebbe depredata nella supposizione che avesse molto denaro addosso, dal momento che Santo Presta godea fama di danaroso. Egli, infatti, qualche giorno avanti aveva riscosso da un libretto postale la somma di lire 1175 e possedeva, inoltre, buoni postali per lire 3500, nonché cambiali per la valuta di lire 1135.
Omicidio per commettere il reato di furto.
Quando gli inquirenti gli contestano la ricostruzione del delitto fatta dai Carabinieri, De Luca nega di aver colpito Presta con una pietra
– Va bene, se è come dici tu, allora spiegaci come mai una grossa pietra intrisa di sangue è stata rinvenuta a venti metri di distanza dal cadavere…
De Luca scrolla le spalle e resta in silenzio. E resta in silenzio anche quando gli viene chiesto come si è procurato la ferita al ginocchio, né omette di negare di essersi accorto che Presta cambiò un biglietto da 50 lire nell’osteria di Triburzio.
– Io non volevo uccidere! – continua a ripetere.
Le cose per Giuseppe De Luca potrebbero mettersi ancora peggio perché, durante il periodo istruttorio, viene presentata una denuncia a suo carico per il furto aggravato di una catena con ciondolo d’oro e di 10 lire in danno di tal Daniello Filomena, che sarebbe stato commesso nel 1935 e i due procedimenti penali vengono unificati.
Verso la fine di giugno 1936 De Luca viene interrogato in merito al furto ai danni di Filomena Daniello e si dichiara innocente. Poi, senza che nessuno glielo avesse chiesto, torna a parlare dell’omicidio di cui è accusato
– Sono anche innocente dell’omicidio e tutte le cose che ho detto nei miei precedenti interrogatori sono menzogne che fui costretto a dire perché costrettovi dai Carabinieri!
Conclusa l’istruttoria, il 6 marzo 1938 il Giudice Istruttore rinvia Giuseppe De Luca al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio e furto in danno di Santo Presta, ma lo proscioglie dall’accusa di furto in danno di Filomena Daniello per insufficienza di prove.
Il dibattimento si tiene nelle udienze del 5 e 7 novembre 1938 e subito il Pubblico Ministero chiede che venga contestata all’imputato l’aggravante del futile ed abietto motivo e la Corte, nonostante le opposizioni della difesa, accoglie la richiesta. Ora sono davvero guai seri.
Chiusasi la fase dell’escussione dei testi e della lettura degli atti, il Pubblico Ministero, avuta la parola, chiede che, affermandosi la responsabilità del prevenuto quale colpevole di omicidio e furto, venga condannato alla pena di morte. La difesa, al contrario, chiede l’assoluzione di Giuseppe De Luca per non aver commesso il fatto; in subordinato per insufficienza di prove; ancor più subordinatamente condannarsi quale colpevole di omicidio preterintenzionale e gradatamente, infine, quale colpevole di omicidio volontario con esclusione delle aggravanti.
Una bruttissima gatta da pelare per la Corte, in ballo c’è la vita dell’imputato.
Osservasi che dubitare che il prevenuto sia stata causa materiale e volontaria della uccisione di Santo Presta sarebbe far mal governo delle prove e chiudere colposamente gli occhi alla luce. La iterata di lui confessione fatta prima ai Carabinieri e poscia al Magistrato, è prova sufficiente per poggiarvi il convincimento di colpevolezza, tanto più che detta confessione trova controllo e conferma in una serie di elementi di indiscutibile valore accusatorio. E non sono meno sintomatiche le inventate menzogne per costruirsi un alibi. E se a tutto ciò aggiungasi ch’egli, figlio d’ignoti, cresciuto per mancanza di amorevoli insegnamenti senza freni e senza scrupoli, spinto per giunta da assillanti bisogni che, nell’impossibilità di soddisfarli, dovevano renderlo agitato ed irascibile, capacissimo a delinquere, come ci rivela un episodio della sua vita anteacta nel quale, approfittando che il compagno Giovanni Belmonte fosse ubbriaco, tentò depredarlo; non era perciò stesso nelle migliori condizioni per poter resistere ad una spinta, né per l’intima gioia di conservarsi puro. Con questo ragionamento, “impreziosito” dal riferimento alla sfortunata nascita dell’imputato, la Corte respinge le richieste della difesa.
Ma c’è da affrontare lo scoglio più pericoloso, quello dell’omicidio commesso a scopo di furto, ovvero se la determinazione di rubare sopravvenne all’omicidio. E qui la Corte dà prova di grande prudenza e saggezza: La soluzione del quesito sarebbe assai facile se si potesse giudicare per impressioni perché, interpretando estensivamente i dati forniti dalla duplice istruzione (la segreta e la dibattimentale) o meglio, logicamente ampliando il significato degli elementi di carico acquisiti agli atti, la Corte dovrebbe senz’altro dichiarare che De Luca ha ucciso per commettere il furto. Ma l’impressione o l’interpretazione ampliata dei dati di valutazione debbonsi mettere da parte, specie nel caso concreto nel quale, la conseguente erronea pronunzia darebbe luogo all’irreparabile. Per evitare possibilità di errori, il giudizio ha da esser poggiato alla più serena, generale ed obiettiva valutazione delle prove. In concreto, mentre il ritrovamento, in potere del prevenuto, del denaro e degli oggetti appartenenti alla vittima fa logicamente pensare che egli ricorse all’omicidio a scopo di furto, d’altro canto qualche esitazione può essere lecita di fronte alla posta che è in gioco. Si può pensare, per ragioni d’indulgenza, che l’intenzione di rubare non fu preordinata, salvando l’imputato dalla pena capitale, ma sarebbe estremamente ingiusto che tale indulgenza si spingesse al punto da rovesciare tutti gli elementi di prova ai danni della povera vittima, fino a farne un provocatore. In sostanza, la Corte è indotta a concludere che – se pure De Luca non uccise per poter commettere agevolmente il furto, come tutto indurrebbe a ritenere – fu spinto al delitto per una causa determinante del tutto trascurabile anche da parte dei delinquenti incalliti che non avrebbero agito con tanta perversità.Onde, se egli può sottrarsi alla pena di morte, pur nel concorso dei gravissimi e decisivi elementi che ne consiglierebbero l’applicazione, non può in ogni caso sfuggire alla pena dell’ergastolo, alla quale la Corte, subordinatamente, discende in via di concessione, per il reato di omicidio aggravato per la futilità dei motivi, nonché di furto. Oltre le pene accessorie e la pubblicazione della sentenza, per una sola volta, nei giornali locali “Calabria fascista” e “Cronaca di Calabria”.
È il 7 novembre 1938.[1]
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[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.