È l’imbrunire dell’otto marzo 1936. Sul piazzale della chiesa di San Biagio, fuori dall’abitato di Laino Bruzio, arrivano un uomo ed una donna.
– Dove sono le traverse? – chiede la donna.
– Non ci sono…
– E allora perché mi hai fatto venire qui?
– Perché voglio fottere con te! – le risponde l’uomo, abbrancandola. Poi le torce un braccio dietro la schiena volendola costringere a camminare verso una zona meno visibile ai pochi, improbabili passanti, ma la donna resiste e allora lui toglie di tasca un temperino e comincia a colpirla, come per pungolarla, sulla schiena, sulle braccia e sull’addome.
– Lasciami, mi fai male! – urla la donna, dibattendosi.
– Puttana! Ti piace così? A me si, mi piace farti male prima di fotterti! – Così, passo dopo passo, ferita dopo ferita, urlo dopo urlo, lacrima dopo lacrima i due arrivano nel posto prescelto dall’uomo.
La donna tenta un ultimo, disperato tentativo di liberarsi e cercare scampo nella fuga, ma l’uomo la butta a terra mettendosi sopra di lei che continua a resistere, a urlare, a dibattersi cercando di graffiare in faccia l’uomo che, sentendo ormai vicina la vittoria, comincia a tirare fuori il suo membro, incurante delle unghie che lo segnano e dei denti che la donna cerca di piantargli sulla faccia, senza riuscirci. Lui adesso è padrone della situazione e la guarda quasi divertito attendendone la resa, poi si china sul viso della donna cercando di baciarla, ma lei si lancia in avanti per morderlo, riuscendo solo a sfiorargli il naso, poi gli sputa in faccia.
No, questo non doveva farlo! L’uomo diventa una furia e le sferra in faccia un tremendo pugno che la lascia tramortita, poi afferra un grosso sasso e comincia a colpirla in testa. Colpisce e colpisce con una violenza disumana finché le ossa del cranio non si spappolano e tutto intorno cominciano a schizzare sangue e materia cerebrale, lasciando quel povero viso irriconoscibile.
Si rialza col fiato grosso, si ricompone e rientra tranquillamente in paese.
È la mattina presto del 9 marzo 1936. Il figlio della donna si sveglia e chiama la mamma. Nessuna risposta. Si alza e la cerca. In casa non c’è. Esce in strada, ma non è nemmeno lì davanti.
– Avete visto mia madre? – chiede, di volta in volta, ai vicini che gli aprono le porte.
No, nessuno l’ha vista la mattina del 9 marzo.
– Ieri sera eravamo al fuoco e hanno bussato. Mamma ha aperto. Era un uomo, mi pare di avere riconosciuto la voce di Alfonso Fiordalisi che chiedeva a mamma di andare a prendere delle traverse di legno. Mamma non ci voleva andare, ma ho sentito che chi parlava con lei ha detto che sarebbero andati insieme… – dice il ragazzo al Maresciallo dei Carabinieri e subito partono le ricerche per trovare la cinquantenne Giulia Grisolia.
Giulia, quando sparisce, vive col figlio perché il marito li ha praticamente abbandonati al loro destino appena emigrato in America. Giulia non si è scoraggiata e vive col suo duro lavoro quotidiano facendo la donna di servizio, anche presso la famiglia di uno zio di Alfonso Fiordalisi e quando può fa ogni onesto lavoro che le capiti. Anche trasportare pesanti traverse di legno sulle spalle. Ma soprattutto è conosciuta come una donna onestissima, che non ha mai dato adito al minimo sospetto di intendersela con qualcuno.
Detto questo, è difficile per i Carabinieri ed i paesani immaginare che sia potuta scappare con un uomo, lasciando suo figlio. Deve esserle accaduta qualcosa. Tutto il paese partecipa alle ricerche, ma Giulia sembra essere svanita nel nulla. Poi, nelle ore pomeridiane del 9 marzo, in paese arriva correndo un ragazzo che urla a squarciagola di aver ritrovato un cadavere di donna nascosto nelle vicinanze della chiesa di San Biagio.
A causa dello scempio che è stato fatto del viso, nessuno potrebbe dire che si tratti di Giulia, ma i vestiti sono i suoi e solo lei manca dal paese. Non c’è dubbio alcuno. Però a questo punto è altrettanto chiaro che bisogna rintracciare Alfonso Fiordalisi che potrebbe essere stato l’ultimo ad avere visto viva la disgraziata.
L’uomo, davanti al Maresciallo, sembra volersi togliere un peso dalla coscienza e ammette subito di essere il responsabile di quell’orrore. Ma c’è un ma…
– Durante il percorso dall’abitato al piazzale della chiesa, Giulia Grisolia mi fece proposta di giacere con lei in una vicina fornace. Ad un certo momento, mentre stavamo per raggiungere il posto designato, essa cadde e senza alcun motivo mi dette del “traditore” cercando di colpirmi con una pietra di cui si era munita. Io reagii, ma non volevo ucciderla…
– Uno che non vuole uccidere, al primo colpo si ferma. Tu invece l’hai massacrata! Come è possibile credere a questa sciocchezza? – gli urla in faccia il Maresciallo.
– Però lei… – farfuglia.
– Lei cosa? – tuona di nuovo il Maresciallo – forse vorresti insinuare che era una donnaccia? Piuttosto parlami di questa storia delle traverse da trasportare. Dove sono? Sul piazzale certamente no!
Alfonso abbassa la testa e tace.
In pochi minuti i Carabinieri accertano che il trasporto delle traverse fu soltanto un pretesto escogitato per attrarre la vittima in quel posto, giacché il Fiordalisi le aveva in precedenza date in regalo a tal Pennella. Per accertare che Giulia non era una donna facile a concedere i suoi favori non c’è bisogno di indagini.
Ma se si fosse trattato di una specie di raptus che tolse ad Alfonso la capacità razionale di frenare la sua furia? Forse è il caso di fare una perizia psichiatrica.
La risposta è categorica: no. Un no che viene dai risultati dell’autopsia. Un no che viene da quei numerosi taglietti rinvenuti sulla regione dorsale, sul braccio sinistro e sull’addome, non prodotti da caduta ma da corpo contundente, probabilmente un pezzo di legno acuminato o inferti con un temperino.
Alfonso Fiordalisi ha 21 anni, è quasi un benestante ed in paese è dipinto come un donnaiuolo impenitente, ozioso, vagabondo, viziato e ribelle ad ogni disciplina. Ma è proprio il fatto di essere un donnaiolo che, paradossalmente, rende incomprensibile il motivo per cui, da un giorno all’altro, si sia intestardito nel voler possedere una donna che ha passato la cinquantina.
Profittando delle condizioni di tempo e di luogo che ostacolavano ogni difesa e non essendo riuscito nell’intento per le ripulse e la tenace resistenza di lei, esasperato dalla concupiscenza, in una forma di furore sadico, dopo averla invano tormentata con le punzecchiature di coltello, volutamente la finì con le vaste e profonde lesioni alla testa ed al viso, reso irriconoscibile. Con questa motivazione il Giudice Istruttore dispone il rinvio a giudizio di Alfonso Fiordalisi con le accuse di tentata violenza carnale aggravata e omicidio volontario aggravato dalla crudeltà. Potenzialmente accuse da pena capitale.
Aperto il dibattimento, per la Corte non c’è alcun dubbio sulla volontà omicida dell’imputato e non c’è alcun dubbio nemmeno sulla volontà di usare violenza sessuale sulla vittima, violenza che rappresenta l’antecedente logico della strage, essendo assurdo ammettere che Fiordalisi abbia soltanto aderito agli allettamenti e alle oscene proposte della vittima, com’egli pretende far credere nella sua versione del fatto. L’età inoltrata della donna, il suo passato di onestà e correttezza, riconosciuto e conclamato dagli stessi parenti dell’imputato, i suoi sentimenti religiosi (aveva fatto quella mattina la Comunione), rilevano subito l’artificio e l’inconsistenza della tesi difensiva. Inconsistenza avvalorata anche dalle piccole lesioni da coltello che non avrebbero alcuna spiegazione se non si supponesse un’attività criminosa dell’agente, diretta in primo tempo a conseguire lo scopo della congiunzione carnale ed in un secondo tempo ad uccidere, quando la resistenza della vittima rese infruttuoso e vano il turpe ed insano conato.
Pare proprio che il destino di Arturo Fiordalisi sia segnato.
Per scongiurare l’ipotesi estrema della condanna a morte, la difesa chiede nuovamente di sottoporre a perizia psichiatrica il suo assistito, basando l’istanza sul fatto che l’imputato è venuto alla luce col cranio deformato ed in prosieguo di tempo aveva dato segni evidenti di squilibrio mentale. Squilibrio che troverebbe la sua radice nei precedenti di famiglia e segnatamente nella stessa condotta del padre, il quale avea tentato di suicidarsi, nonché su di un deliquio da cui è stato colto l’imputato durante la sua permanenza in carcere, giusta l’attestazione di due agenti di custodia. La Corte la respinge non sussistendo alcun grave e fondato elemento per darvi corso, in quanto già in periodo istruttorio erano state fatte delle indagini in merito che diedero esito del tutto negativo a traverso testimonianze insospettate e insospettabili, come la levatrice che dichiara:
– Ho assistito alla nascita di Arturo Fiordalisi e non ho notato alcuna anormalità cranica nel neonato
E come il medico condotto del paese:
– Non ho mai curato il giovane per malattia mentale e non ho mai saputo che ne avesse sofferto.
La Corte aggiunge che tutte le altre indagini svolte sulla presunta infermità mentale di Fiordalisi hanno posto in rilievo che era uno scapestrato, poco amante del lavoro e dedito alle donne. Lo stesso tentativo di suicidio del padre s’è rivelato, secondo la dichiarazione del dottor Grimaldi, come un abile trucco giacché del preteso avvelenamento, dovuto in ogni caso a dissesti finanziari, il medico, subito intervenuto, non ha riscontrato alcun sintomo. E nemmeno il deliquio trova riscontro scientifico in quanto i medici che lo visitarono hanno escluso che quell’episodio fosse in relazione a perturbamenti psichici, attribuendone la causa allo stato di anemia del soggetto e ad una crisi puramente transitoria.
L’ultima carta, per la difesa, è quella di invocare la concessione dell’attenuante del vizio parziale di mente perché un delitto così efferato non può essere stato commesso che in uno stato, seppure temporaneo, di alterazione delle capacità di intendere e volere.
No, nemmeno questa richiesta può essere accolta in quanto la Corte ha tratto il convincimento incrollabile che il delitto, nella sua efferatezza, non è il prodotto di una qualsiasi anomalia psichica, ma la manifestazione evidente di una costituzione criminale dell’autore di esso e di sue particolari predisposizioni antisociali. La pena capitale è sempre più vicina per Arturo Fiordalisi.
Ma la Corte non se la sente di mandarlo a morte ed esclude la circostanza aggravante della crudeltà. Senza dubbio lo stato in cui venne trovato il cadavere dimostra con quale efferatezza si sia accanito Fiordalisi, ma non è, in verità, rimasto sufficientemente provato che egli abbia voluto di proposito provocare alla povera Grisolia tormentose sofferenze, non ostante siano state riscontrate le nove piccole ferite da temperino, le quali sarebbero state inferte allo scopo della congiunzione carnale, come manifestazione brutale di violenza per indurre la vittima a consentire e non anche per incrudelire nella consumazione dell’omicidio.
Ciò non solo scongiura l’applicazione del massimo della pena, ma fa si che questa sia fissata in 23 anni di reclusione per l’omicidio ed in 1 anno e 3 mesi per il tentativo di violenza carnale. A queste pena vanno aggiunti complessivamente 1 anno e 9 mesi di reclusione per il concorso della recidiva specifica nei cinque anni.
In tutto fanno 26 anni di reclusione.
Ma non è finita: avendo escluso l’aggravante della crudeltà, Arturo Fiordalisi può godere di 4 anni di condono, giusto il Regio Decreto di Amnistia N. 77 del 15 febbraio 1937.
Le addizioni e le sottrazioni sono terminate. La pena effettiva resta fissata in 22 anni di reclusione, più pene accessorie.
È il 18 marzo 1938, annus horribilis.
Non vi è ricorso.[1]
[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Castrovillari.