IL MALANDRINO DI GRISOLIA

È la sera del 28 agosto 1937 e nel salone di tal Servidio a Grisolia un gruppo di amici sta giocando a carte. Poi la porta si apre ed entra Pietro De Marco, noto e temibile pregiudicato, accompagnato da Giuseppe Capalbo. Senza pronunciare parola, Pietro De Marco dà un buffetto in faccia ad uno dei giocatori, Bonifacio De Marco, il quale, stanco di essere quotidianamente sbeffeggiato dal pregiudicato, persona da cui vuole restare lontano, sbotta:

– Mò finisciala!

‘U Piglianculu si rivota! – dice ridendo – Sentiti ‘u ciucciu cumu raglia! Ma tu lo sai con chi stai parlando? Finiscila tu ché se no ti rompo il culo!

– Si? E vediamo! – risponde Bonifacio sbuffando. Le due ultime offese sono la goccia che fa traboccare il vaso. Butta le carte in aria, si alza in piedi pronto a menare le mani e finisca come deve finire perché anche una persona tranquilla come lui prima o poi dice basta ai soprusi.

I presenti cercano di calmare gli animi, ma i due non vogliono sentire ragioni, escono dal locale e si accapigliano. Per fortuna tutto dura pochi secondi e si risolve in un nulla di fatto per il pronto intervento dei presenti che impediscono possibili gravi conseguenze. Bonifacio rientra nel salone con gli amici, mentre Pietro si allontana da solo verso la piazza del paese e si mette in agguato in prossimità della porta di casa dell’avversario. Deve vendicare l’onta subita da un piglianculu qualsiasi come Bonifacio. Si, perché lui è un malandrino affiliato alla malavita e che figura ci farebbe agli occhi dei suoi compari se non gli desse una lezione, magari tagliandogli la faccia? A pensarci bene, la lezione che darà a Bonifacio servirà da monito agli altri piglianculu, che ci penseranno bene prima di alzare la testa e protestare.

Nascosto nel buio accarezza il coltello, poi finalmente sente dei passi avvicinarsi e si prepara.

Bonifacio è a pochi metri da casa quando il malandrino gli si para davanti col coltello in mano e in faccia un ghigno che non promette niente di buono. Ma Bonifacio, conoscendo Pietro, se lo aspettava, così anche lui tira fuori dalla tasca un coltello, oltre ad un coraggio che non si sarebbe mai aspettato di avere. Il coraggio della disperazione.

E così i due si affrontano in un breve duello rusticano, subito di nuovo sedato dagli amici di Bonifacio che lo hanno seguito, temendo anche loro un agguato.

Nel parapiglia si sente una esclamazione di dolore. Tutti guardano Bonifacio per vedere la sua faccia sporca di sangue, perché questo si aspettano, ma si sbagliano: il sangue invece scorre sul collo di Pietro De Marco che comincia a bestemmiare come un turco mentre tenta di tamponare la ferita.

Torna la calma. Pietro è attorniato dai presenti che vogliono accertarsi che non si tratti di nulla di grave. Nessuno bada a Bonifacio che corre verso casa, forse per la paura che da un momento all’altro l’avversario, imbestialito, possa aggredirlo di nuovo e questa volta farla davvero finita.

Mentre tutti sono ancora impegnati a tamponare il sangue che scorre dalla ferita sul collo di Pietro, Bonifacio esce da casa con il braccio destro proteso in avanti ed in mano qualcosa che nel buio non si distingue bene. Adesso sbuffa anche lui come un toro e urla, facendosi spazio tra i presenti, increduli

Largo, largo!

È evidente che sta cercando di identificare tra le persone presenti in piazza il suo avversario e, come lo vede a qualche metro di distanza da lui, tutti si accorgono che gli sta puntando contro una pistola. Intorno ai due contendenti si fa il vuoto e Pietro De Marco, sotto l’imminente pericolo, cerca di farsi avanti col coltello in mano.

Sono attimi interminabili: Bonifacio con la pistola in mano sa che se non spara sarà un uomo morto, se non oggi, domani o tra un anno; Pietro col coltello in mano sa che per uscirne vivo può contare solo sulla propria temibile fama e sulla paura che può far tremare l’avversario, così fa un altro passo in avanti agitando il coltello come si usa nei duelli e col suo solito ghigno sulle labbra, mentre il sangue continua a scorrergli addosso.

Ora o mai più, pensano entrambi. La mano di Bonifacio non trema mentre tira il grilletto con gli occhi chiusi e Pietro, colpito in pieno petto, si accascia al suolo.

Svaniti il rimbombo della detonazione e la nuvoletta di fumo intorno a Bonifacio, tutti lo guardano che abbassa lentamente il braccio mentre si mette a piangere e farfuglia:

– Io… io non volevo… aiutatelo… non volevo… mi ha costretto… – poi lascia cadere l’arma e corre dai Carabinieri a costituirsi, pregandoli di andare a soccorrere il ferito.

Ma Pietro De Marco non è ferito, è morto! Morto sul colpo perché il proiettile che lo ha colpito gli ha spaccato il cuore in due e probabilmente non si è reso nemmeno conto di morire.

Tanto Bonifacio De Marco, che tutti i testimoni ricostruiscono i fatti sostanzialmente in modo univoco e quindi l’istruttoria è breve: l’arma usata e la parte del corpo presa di mira non lasciano dubbi: omicidio volontario.

La tesi è fatta propria dal Giudice Istruttore, il quale dispone il rinvio dell’imputato al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

Durante il dibattimento il Pubblico Ministero conferma la richiesta di procedere per omicidio volontario, ma propone la concessione della circostanza attenuante dello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto della vittima; la difesa, al contrario, chiede di derubricare il reato in omicidio preterintenzionale e la non punibilità dell’imputato per avere agito nello stato di legittima difesa o, in subordine, l’eccesso colposo di legittima difesa.

La Corte trae le proprie conclusioni per qualificare il reato: la richiesta del Pubblico Ministero, per quanto attiene all’omicidio volontario, non può essere presa in seria considerazione perché tutte la modalità del delitto stanno a dimostrare come De Marco Bonifacio non abbia agito con l’intenzione di uccidere, ma soltanto con quella di ledere il suo avversario, mentre la morte che ne seguì rappresenta un evento non voluto dall’agente. Questa valutazione giuridica dell’episodio di sangue trova la sua incrollabile base nello stato di esasperazione di De Marco Bonifacio, nella sua limitata attività aggressiva, nella condotta tenuta immediatamente dopo l’avvenimento, del quale dimostrò d’ignorare le conseguenze, come risulta da non equivoci elementi di prova. Egli, nello stato d’ira determinato dal fatto ingiusto del suo avversario – ed in questo concorda col Pubblico Ministero – si armò e sparò contro costui un sol colpo senza proporsi la morte come scopo della sua azione, la quale appare volutamente limitata al conseguimento di effetti minori.

Se è così sussistono gli estremi per ritenere che si tratti di omicidio preterintenzionale e modificare il titolo del reato. Però, continua la Corte, se non è da accogliere la richiesta del Pubblico Ministero, inaccettabile ed insostenibile appare anche quella della difesa, che vorrebbe ravvisare nel fatto del colpevole tutti gli elementi per l’esercizio di una vera e propria auto-tutela perché se è vero che Bonifacio De Marco reagì alle due aggressioni del rivale e queste furono sedate dai presenti, quando rientrò in case e ne uscì armato di pistola in cerca del rivale, non agì più sotto la necessità di difendersi da un pericolo attuale: la necessità era cessata ed il pericolo più non esisteva. In quest’ultima fase l’aggressore diventa Bonifacio De Marco che, sotto l’azione della sua pistola, mette l’altro nello stato d’imminente pericolo e nella necessità della difesa. Quindi è inutile sostenere che se Bonifacio non avesse sparato, Pietro lo avrebbe ucciso. Non è luogo a legittima difesa quando l’agente determina volontariamente la causa che lo mette in condizione di pericolo attuale perché la spinta alla difesa non proviene più dalla necessità, ma dal fatto proprio.

Queste direttive in materia di auto-tutela rispondono all’insegnamento della Suprema Corte regolatrice, della quale è qui opportuno ricordare una massima, che sembra dettata per il caso in esame: “Non può ammettersi legittima difesa a favore dell’aggressore contro chi si difende, mentre permane in stato di legittima difesa l’aggredito finché è a contatto con l’aggressore, ancorché l’aggredito risulta biasimevole per la sua precedente condotta e abbia avuto l’imprudenza di non evitare l’altro” (Cass. 16 luglio 1932 – Giustizia Penale 1932, II, 1221).

Escludendo la legittima difesa, viene automaticamente esclusa anche la richiesta di eccesso colposo di legittima difesa.

Ma se a Bonifacio De Marco non spettano le diminuenti richieste, spetta invece l’attenuante della provocazione: egli era abitualmente deriso da Pietro De Marco, come dicono anche i Carabinieri, e cercava sempre di schivarlo per evitare ogni contatto con quel pregiudicato, ma quella sera l’imputato si ribellò e Pietro De Marco reagì a mano armata di coltello, da qui la reazione al fatto ingiustamente provocante, intervenuta durante lo stato emotivo del soggetto.

Tutto chiaro ed il Pubblico Ministero non si oppone alla concessione ipotizzata dalla Corte. Adesso bisogna quantificare la pena da infliggere a Bonifacio.

Tenendo conto dei buoni precedenti del giudicabile, la Corte è di avviso che la pena debba essere fissata nel minimo di anni 10 di reclusione, aumentati di giorni 45 per l’aggravante dell’arma; diminuita tale pena di un terzo per l’attenuante concessa, si ottengono, in definitiva, anni 6 e mesi 9 di reclusione, a cui si aggiungono complessivamente mesi 3 di arresti per l’omessa denunzia e porto abusivo di arma, oltre al sestuplo della tassa sulle concessioni governative, oltre pene accessorie, spese e danni.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.