SI SPARÒ DAI FASCISTI ALL’IMPAZZATA

La sera dell’8 gennaio 1923 nel treno proveniente da Napoli e diretto a Reggio Calabria, viaggia un gruppo di ex Guardie Regie di ritorno alle proprie abitazioni dopo lo scioglimento del Corpo, voluto del governo fascista. Sullo stesso treno viaggia anche Agostino Guerresi, alto commissario del fascio per le Calabrie, il quale viene riconosciuto da alcune ex guardie, non certo animate da sentimenti amichevoli verso il fascismo e volano insulti e minacce. Guerresi è spaventato, riesce a nascondersi nel bagagliaio del treno ed a scendere di nascosto quando il treno si ferma alla stazione di San Lucido, luogo a lui molto caro.

9 gennaio 1923, ore 20, 30. Anche questa sera il treno Napoli – Reggio Calabria è affollato da ex guardie regie e anche questa sera il treno si ferma a San Lucido. Ma c’è qualcosa di strano: il piazzale è deserto e non illuminato. Si ode un grido, “A noi!”, poi cominciano a partire numerosissimi colpi di arma da fuoco verso la carrozza in cui sono stipate le ex guardie.

Rimangono feriti Benedetto Polizzano e Guido Parisi. Una delle ex guardie, Annunziato Nava, ai primi colpi di fucile, riesce a scendere dal treno ed a rifugiarsi sulla spiaggia, ma quando cerca di tornare sul treno viene circondato da circa trenta fascisti, tutti variamente armati, i quali gridano di volerlo uccidere. Nava, in ginocchio e in lacrime, li supplica di non farlo. Sono attimi di puro terrore quelli che vive il malcapitato, quindi la decisione dei fascisti di risparmiarlo. Di risparmiarlo in un modo assai crudele, bastonandolo e sparandogli una revolverata ad una gamba.

Poi i fascisti si dileguano nel buio. Sul treno, che intanto riprende la sua corsa, le condizioni di Benedetto Polizzano appaiono subito molto gravi e viene fatto scendere a Nicastro, dove morirà il giorno dopo. Parisi e Nava, fortunatamente, se la caveranno rispettivamente in mesi quattro e mesi due.

Connivenza di ufficiali della polizia giudiziaria, intromissione di autorità, travisamento del fatto (esposto come un conflitto provocato dalle guardie, come se esse avessero iniziato le violenze, ma, più che di un conflitto, si trattò di una aggressione o, come allora si usava dire, di una spedizione punitiva), rendono dapprima impossibile l’accertamento delle vere circostanze dei delitti, la liquidazione e la punizione dei colpevoli. Pertanto, il Giudice Istruttore presso il Tribunale di Cosenza, con sentenza del 27 ottobre 1923, dichiara il “non doversi procedere, essendo rimasti ignoti gli autori”.

Nel 1924, però, in seguito ad un articolo pubblicato su “Il Mondo”, il Pubblico Ministero riprende le indagini e molti elementi vengono acquisiti per l’accertamento della verità. Tuttavia anche questa volta non si arriva a nessun provvedimento contro i colpevoli, che continuano a dormire sonni tranquilli fino al 24 agosto 1945.

Il fascismo è ormai miseramente caduto da due anni e il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Cosenza, Guido Gabriele, sollecitato da più parti fa tirare fuori dall’Archivio il fascicolo e chiede al Giudice Istruttore di emettere mandato di cattura contro Emilio Camera, Salvatore Scaramella, Sestilio Lattari, Michele Gentile, Erminio Chiappetta e Francesco Cinelli. Proseguendo le indagini vengono incriminati anche Giuseppe Camera, Francesco Camera, Francesco Pelosi, Luigi Sturzo e Cesare Camera e viene emesso un mandato di cattura anche nei confronti di Agostino Guerresi, ritenuto il mandante dell’agguato.

E finalmente sono rinviati al giudizio di questa Corte d’Assise di Cosenza per rispondere del reato di complicità corrispettiva in omicidio volontario, Emilio Camera, Salvatore Scaramella, Michele Gentile, Erminio Chiappetta, Francesco Cinelli, Giuseppe Camera, Francesco Camera, Francesco Pelosi e Cesare Camera, mentre gli altri, che parteciparono al fatto o hanno lasciato l’Italia o han trovato modo di giustificarsi come il Guerresi, causa prima di esso, vengono prosciolti.

Il dibattimento si tiene il 26 novembre 1948 e, osserva subito la Corte, non può mantenersi la definizione della Sezione d’Accusa. È chiaro, per vero, che i fascisti di San Lucido non avevano alcuna causale propria contro le guardie regie, che neppure conoscevano. Vollero, mercè quella “spedizione punitiva”, vendicare l’affronto perpetrato la sera precedente, da altre guardie, contro il loro capo, dottor Guerresi. Per una tale vendetta, qualsiasi azione violenta con qualsiasi risultato era ben sufficiente. Si sparò dai fascisti all’impazzata contro le carrozze del treno, senza una particolare mira e senza la precisa determinazione di uccidere. Quando essi ebbero in loro potere il Nava e l’avrebbero potuto uccidere assai agevolmente, si contentarono di fargli molte minacce di morte, ma soltanto di ferirlo ad una gamba. Né può, nella specie, ritenersi come elemento subiettivo un dolo indeterminato o alternativo che abbia trovato determinazione concreta nello evento raggiunto; nulla infatti dimostra che quei fascisti abbiano agito con il dolo diretto di ledere, una con la previsione di eventi più gravi egualmente da essi accettati e voluti o non, piuttosto, soltanto con quella previsione, una con la speranza, non irragionevole, che eventi più gravi non fossero per verificarsi.

Insomma, almeno undici persone variamente armate fanno spegnere le luci del piazzale della stazione di San Lucido, si appostano nel buio e quando il treno, con un vagone pieno di ex guardie regie, si ferma, cominciano a sparare all’impazzata proprio contro quel vagone con la previsione e la speranza, non irragionevole, che nessuno si faccia del male! Sembra molto difficile da credere. E allora perché non sparare in aria?

Lo scopo evidente della Corte è quello di smontare l’accusa di omicidio volontario. Infatti prosegue citando il Codice Zanardelli abrogato, in virtù dell’art. 3 del Decreto Legge Luogotenenziale n. 159 del 27 luglio 1944 – Sanzioni contro il fascismo – che dispone in materia di giudicabilità delle squadre fasciste: pertanto, non di omicidio volontario può parlarsi, bensì di omicidio preterintenzionale. È a tale figura di reato applicabile la nozione della complicità corrispettiva. Letteralmente l’art. 378 c.p. 1890 (in realtà l’anno di promulgazione del Codice Zanardelli è il 1889. Nda) escluderebbe col suo silenzio, per le forme preterintenzionali, tale applicabilità; ma è noto come la dottrina più autorevole e la giurisprudenza della Corte Suprema abbiano prevalentemente adottata la soluzione contraria. Non diversa è l’opinione di questa Corte.

Ma c’è un altro problema: l’affermazione di preterintenzionalità suppone sempre la conoscenza dell’autore del fatto. La soluzione, per la Corte, è semplice: basta pigliare in considerazione la specie in esame per dovere ammettere che un fatto può presentare evidentissime note di preterintenzionalità anche se l’autore del fatto sia rimasto ignoto, mentre sia certo che più persone abbiano partecipato alla esecuzione.

Quindi si giudicheranno gli imputati per complicità corrispettiva in omicidio preterintenzionale. Sulla loro responsabilità non ci sono dubbi, è evidente e chiara, ma, c’è l’ennesimo ma: visti gli art. 3 del DP 22-6-1946 n. 4 (la famosa “Amnistia di Togliatti”), l’art. 3 del DLT 27-7-1944 n. 159 e l’art 479 CPP, la Corte dichiara non doversi procedere perché il reato risulta estinto per amnistia![1]

Tutti a casa liberi. L’unico che a casa non è mai tornato è il povero Benedetto Polizzano, vittima innocente della brutalità fascista, costretto per l’ennesima volta a rigirarsi nella tomba. Ma questa volta anche lui dovrà capire che ci troviamo in un periodo storico particolare, un periodo in cui ci si deve scordare in fretta del triste passato fascista, in cui si devono pacificare gli animi e la Nazione e quindi ripartire democraticamente. Nessuna vendetta.

Ma si può chiamare vendetta la Giustizia?

 

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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