INGINOCCHIATI E MUORI!

I primi, flebili bagliori di luce sorprendono il venticinquenne Giuseppe Sinopoli mentre, per andare a lavorare, percorre la strada convicinale che da San Marco Argentano va alla contrada Valentoni . È l’11 settembre 1895.

Oltrepassato il gruppo di case coloniche di contrada Testola, dove abitano i contadini che lavorano per la famiglia Selvaggi, la sua attenzione viene attirata da un cappello a terra proprio nel centro della strada. Si ferma, lo raccoglie e bestemmia:

– Giovanni si è ubriacato di nuovo! – esclama a voce alta, poi col cappello in mano prosegue verso la sua destinazione.

Giovanni Sinopoli è il fratello di Giuseppe e ha l’abitudine, quando beve troppo, di abbandonare il cappello qua e là o, spesso, di lacerarlo. Per questo Giuseppe non si è preoccupato più di tanto.

È ormai giorno fatto quando Giuseppe viene raggiunto sul lavoro da sua cognata, la moglie di Giovanni, che sembra preoccupata:

– È partito ieri mattina per San Marco dove doveva lavorare per conto di Ciccio Arcuri e non l’ho più visto… a casa non è tornato…

Giuseppe entra in apprensione e, lasciato il lavoro, comincia a chiedere in giro notizie sul fratello. L’apprensione diventa panico quando gli dicono che la sera prima qualcuno dei contadini che abitano in contrada Testola  ha sentito dei colpi di rivoltella provenire più o meno dal posto in cui ha trovato il cappello di Giovanni.

Giuseppe corre a perdifiato e comincia a cercare qualche indizio nel punto dove ha trovato il cappello. Sul terrapieno a lato della strada si apre, nei cespugli esistenti, un piccolo varco che immette in un fondo agricolo. Giuseppe entra e alla distanza di tre metri dal varco, nascosto alla vista di chi percorre la strada, c’è una striscia di ristoppie, ammassate come se su di esse si fosse trascinato un peso. Poi un corpo disteso bocconi, poggiato maggiormente sul lato destro, con un braccio sotto il corpo e l’altro arcuato, posante sul terreno la sola mano; una gamba stesa e l’altra rannicchiata. Ai piedi calza stivaletti; ha addosso un paio di calzoni di fustagno nero, giacca di panno verdognolo, sbiadito dall’uso. Da una sacca della giacchetta esce fuori la punta di un fazzoletto bianco e rosso. Stringe ancora nella mano sinistra una pipa di creta. Non c’è dubbio che si tratti di suo fratello.

– Giovà svegliati, malanova tua! – urla. In realtà niente, se non il braccio arcuato, gli suggerisce che suo fratello stia dormendo, ma lui vuole crederci e continua a chiamarlo e ad avanzare senza avere risposta. Lo scuote. Niente. Cerca di girarlo ma è come girare un pezzo di rigido e freddo marmo. Gli sfila dalla tasca il fazzoletto e dentro, come sempre, ci sono delle pietre di sale contro il malocchio. Adesso deve convincersi che Giovanni è morto. E non appena se ne convince, prima posa il cappello che aveva portato con sé, poi lancia un urlo disumano che attira l’attenzione dei contadini nelle vicinanze e subito si fa una piccola folla intorno al cadavere di Giovanni Sinopoli.

Quando arrivano il Pretore ed il medico legale è subito evidente che si tratta di un omicidio: una ferita da arma da fuoco al torace destro, da cui è uscita una grande quantità di sangue che ha inzuppato la camicia ed il corpetto. Sulla gamba destra altre due ferite della stessa arma ed un’ultima sulla piega della natica sinistra.

– Avete dei sospetti? – gli chiede il Pretore, ma Giuseppe è come inebetito e farfuglia qualcosa di incomprensibile, poi sembra riprendersi e dice:

Affranto come sono, non sono in grado di concepire con animo sereno chi abbia potuto essere l’autore di tanta sciagura… però stamane mi si disse, non sono ora in grado di precisare da chi perché non vi badai per nulla, che ieri sera mio fratello fu veduto assieme al genero di Giuseppe Serra ed al cognato di Francesco Iantorno, con i quali Giovanni non doveva vivere in troppo buone relazioni perché, per quanto si è detto, l’anno scorso avea ferito il Serra con un colpo di rivoltella e qualche giorno addietro avea percosso la moglie di Iantorno, sorella dell’individuo con cui ieri fu veduto assieme e che da poco è reduce dall’America e credo che abbia il nome di Gabriele

Ai Carabinieri non serve molto tempo per stabilire che il genero di Giuseppe Serra risponde al nome di Camillo Frassetti e il cognato di Francesco Iantorno risponde al nome di Gabriele Di Scianni. Li fermano e li interrogano:

– Ieri pomeriggio partii dalla contrada Velentoni, dove abito, e andai a San Marco nella cantina di Francesco Arcuri – racconta il diciannovenne Camillo Frassetti – dove trovai Gabriele Di Scianni, mio vicino di casa, col quale cominciai a discorrere. Poi sono arrivati due altri miei vicini di casa, Giovanni Sinopoli e un certo Antonio; io ho bevuto un mezzo litro di vino, quindi tutti e quattro ci siamo diretti a casa. Arrivati ad un certo punto Antonio si allontanò e noi continuammo la nostra via, incontrando Domenico Carnevale col quale facemmo qualche metro insieme. Allontanatosi Carnevale, dopo 4 o 5 minuti, ebbi bisogno di spandere un po’ d’acqua e mi fermai qualche metro dietro ai miei compagni. Sentii Di Scianni che diceva a Sinopoli: “Tu hai menato mia sorella e mio cognato, ma io non me ne incarico”. Sinopoli rispose: “Ho fregato a tua sorella e a tuo cognato e ti frego anche a te!”. Di Scianni rispose: “Giacché devi fottere a me, ora ti fotto io!” ed in ciò dire gli tirò un primo colpo di rivoltella vicinissimo. Sinopoli cadde e si alzò subito dandosi alla fuga; Di Scianni continuò a tirare altri colpi che, credo, furono tirati inseguendolo. Ai colpi che venivano tirati, io mi buttai sotto la via e cercai di disperdermi, temendo che Di Scianni, per fare sparire il testimone del delitto, avesse potuto anche rivolgersi contro di me. Dopo centocinquanta o duecento metri, precisamente dove la strada s’immette in una cava di terra, fui raggiunto da Di Scianni, il quale era intento a caricare il revolvero, buttando le capsule esplose. Io gli domandai: “Cosa hai fatto? L’hai ammazzato?”. Egli mi rispose: “Non so… mi è sparito dinanzi gli occhi, non so dove sia andato…”. Quindi continuammo assieme per un altro centinaio di metri fino ad una curva, dove egli si staccò tirando per la sua casa ed io per la mia. Stamattina, un quarto d’ora dopo mezzogiorno, incontrai Di Scianni che mi disse: “Se io sapessi che Giovanni Sinopoli è morto, mi andrei a presentare” e continuò raccomandandomi di nascondere il fatto, ma io gli dissi che avrei tutto detto perché non intendevo compromettermi per lui e lo consigliai a presentarsi. Poco dopo sopraggiunsero i Carabinieri e ci trassero in arresto

– Questo revolver ti dice qualcosa? – gli chiede il Pretore mostrandogli l’arma trovata addosso a Di Scianni.

È precisamente quello di cui si servì Di Scianni per consumare il delitto

– E il tuo revolver dove lo hai nascosto?

L’ho avuto, è vero, tempo fa, ma due mesi e più dietro lo vendei a Raffaele Orrico da Cervicati per dieci lire… io sono innocente!

Ora è il turno del ventottenne Gabriele Di Scianni:

 – Ieri incontrai Camillo Frassetti ed andammo in una cantina a bere del vino. Uscito dalla cantina in compagnia del solo Frassetti, m’incamminai verso la contrada Valentoni tre ore dopo mezzogiorno ed arrivai in pieno giorno in detta contrada e dimorai tutto il resto della giornata, senza più allontanarmene, in casa mia e nel podere attiguo. Stanotte ho dormito innanzi la porta. Col Frassetti ci siamo divisi ad un crocevia prendendo ciascuno la strada che conduce alla propria abitazione

– Il revolver ti è rimasto in tasca da ieri sera? – gli fa il Pretore.

Ieri ero inerme, stamani però ho portato meco un revolvero che è di mia pertinenza

– Come mai Giovanni Sinopoli aveva picchiato tua sorella e tuo cognato?

Lo ignoravo, come completamente lo ignoro

– Sai chi ha ucciso Sinopoli?

Non so se lo abbiano ucciso

Due sospettati, due versioni completamente diverse. Chi mente? Forse mettendoli a confronto si potrà capire meglio:

Frassetti: Sei stato tu, Gabriele Di Scianni, che hai ucciso Giovanni Sinopoli dopo che ha ammesso di avere picchiato tua sorella e tuo cognato e avrebbe picchiato anche te…

Di Scianni: Si, è vero che noi ci siamo avviati da San Marco assieme a Sinopoli il quale mi disse che avea menato a mia sorella e a mio cognato e che era buono a menare anche a me. A tali parole, per evitare quistioni, feci silenzio e ci siamo divisi e ce ne siamo andati per la nostra casa lasciandolo in quel sito e quindi non so chi l’abbia ucciso

Frassetti: Niente affatto, lo ammazzasti tu che, alle parole suddette, gli esplodesti contro diversi colpi di rivoltella! Stamattina mi dicesti: “Se sapessi che Sinopoli è morto, mi presenterei” e mi raccomandasti di tacere il fatto alla giustizia.

Di Scianni: Non è affatto vero quello che dici! Anzi, il revolver sequestratomi dai Carabinieri me lo hai dato tu tre giorni dietro!

Frassetti: Non ti ho dato nulla, il revolver mi hai detto di averlo comprato a Napoli al ritorno dall’America!

Pare proprio che le accuse di Frassetti siano precise e ferme. Forse per Di Scianni le cose si mettono male. E forse ci sono delle novità perché, riportato in camera di sicurezza, Di Scianni chiede di essere nuovamente sentito dal Pretore:

Intendo dire la verità che prima non ho detto

– Sentiamo…

 Effettivamente ci siamo avviati con Sinopoli per andare in contrada Valentoni verso l’Avemaria di ieri sera. Arrivati in contrada Testola, Sinopoli mi disse: “Ho battuto tua sorella e tuo cognato e sono buono a battere anche te”. Io, che non volevo cimentarmi, cercai con buone parole evitare la quistione, ma Camillo Frassetti, che era al mio fianco, mi tirò per un braccio parecchie volte e quindi, appartatici un po’, mi disse: “Perché non lo spari?” e continuò a parlare con Sinopoli per dar campo a me d’irritarmi, dicendogli: “Tu non dovevi ferire la sorella, questa cosa non la dovevi fare!”. Indi da capo mi tirò per il braccio per incitarmi ed io, allora, eccitato tirai di tasca il revolvero e sparai un primo colpo contro Sinopoli, alla distanza di un paio di metri ed indi, accecato dall’ira, continuai a sparare contro di lui per altre tre o quattro volte. Sinopoli, quando ricevette i colpi, disse: “Mamma mia!”. Quando sparai, Frassetti mi stava a fianco e dopo ci dirigemmo assieme verso le nostre abitazioni… noi non abbiamo concertato l’omicidio, però certamente avevamo dei rancori contro Sinopoli perché avea menato mia sorella ed il suocero di Frassetti

E Frassetti cosa ha da dire in merito a queste accuse?

Non è vero che io eccitati Di Scianni all’omicidio di Sinopoli. Non avevo alcun rancore verso Sinopoli perché se avea ferito mio suocero Giuseppe Serra, lo aveva fatto prima che io ne avessi sposata la figlia, anzi nell’ultima domenica diedi da bere a Sinopoli a Cervicati…

– È vero che hai un revolver?

Tengo il revolver, ma l’ho dato da più giorni ad accomodarlo a tale Arturi in San Marco… volevo ritirarlo jeri ma non potei perché non avevo i quindici soldi necessari per pagare

Poi il Maresciallo Federico Cimarosa scopre alcune cose che potrebbero essere state alla base dei rancori nei confronti di Sinopoli, fatti che vanno oltre le botte di cui abbiamo già raccontato: da ulteriori indagini assodammo che sia Di Scianni che Frassetti nutrivano rancori verso Sinopoli, il primo perché pretendeva la moglie di Sinopoli in isposa e siccome Di Scianni partì per le Americhe, così la ragazza si unì in matrimonio con Sinopoli, oltre che per aver maltrattata la cognata e la sorella, come sopra si è detto; il secondo perché Sinopoli, il 24 novembre 1894, esplose un colpo di rivoltella contro suo suocero, per il quale reato Sinopoli era stato condannato a mesi 9 e giorni 10 di reclusione dal Tribunale di Cosenza, circostanza, questa, che Frassetti usò per minacciare più volte Sinopoli.

La posizione dei due indagati potrebbe peggiorare quando viene chiamato a testimoniare un contadino, Giuseppe Carnevale, che abita nei pressi del luogo dove è stato commesso l’omicidio:

– Ieri sera, dal luogo dove è stato trovato il cadavere di Giovanni Sinopoli, sentii partire una voce che diceva: “Ferma, ferma!” e quasi contemporaneamente l’esplosione di due colpi di arma da fuoco, quindi altra voce che non distinsi bene che diceva: “Mamma mia… mamma mia… mamma mia…” ed infine l’esplosione di altri quattro colpi di arma da fuoco, preceduti dalle parole: “Inginocchiati per la Madonna che sei morto! Non vuoi morire? Tieni!”. Dopo ciò, quasi immediatamente, due persone si allontanarono con passo non troppo veloce dal sito verso la contrada Valentoni e sentii con precisione, stante il silenzio della notte, che uno dei due diceva all’altro queste precise parole: “Gabriè, ora alla casa ce ne dobbiamo andare…”. Non ebbero certo tempo di trasportare il cadavere di Sinopoli dalla strada a sopra il ciglione dove è stato ritrovato. Ritengo, perciò, che Giovanni Sinopoli vi si trasportò solo prima di morire o vi fu portato durante la notte, ma non nel momento del fatto.

– Avete avuto la possibilità di capire se fu una sola arma a sparare o due?

I colpi sembrarono sparati da uno solo perché furono l’uno dopo l’altro sparati e, anzi, ne vidi financo il lampo

E le cose si complicano davvero per tutti e due: la requisitoria del Procuratore Generale del re di Catanzaro per chiedere il rinvio a giudizio degli imputati  è durissima: Di Scianni e Frassetti, per precedenti rancori e dietro reiterate e gravi minacce, si determinarono ad uccidere Giovanni Sinopoli. Finsero d’accompagnarsi allo stesso nelle rispettive casette rurali dopo d’aver avanti tempo concertato la strage e quando lo poterono isolare e trarlo a sicura morte, il Frassetti eccitò il Di Scianni a sparare contro la vittima e senza altro Di Scianni gli scaricò sei colpi di rivoltella, l’un dopo l’altro, accompagnando la reiterazione dei colpi colle salate e crudeli parole: “Inginocchiati… muori, non sei ancora morto? Eccoti quest’altro!”. I malfattori, dopo compiuto l’eccidio, se ne andarono assieme come se nulla avessero commesso e, arrestati, da principio si resero innocenti ma poscia il Di Scianni, vedendosi tradito dal compagno, cioè Frassetti, confessò il reato nella sua interezza.

Quindi, omicidio premeditato per Gabriele Di Scianni e concorso in omicidio premeditato per avere eccitato e rafforzato la risoluzione a commetterlo e per averne facilitato l’esecuzione prestando assistenza prima e durante il fatto e con premeditazione per Frassetti.

È il 29 dicembre 1895.

Due settimane dopo, la Sezione d’Accusa accoglie la richiesta e rinvia i due al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza.

Il dibattimento viene fissato per sabato 29 febbraio 1896 e tutto fila liscio senza intoppi o novità significative. Nella seconda udienza, il 2 marzo, il Pubblico Ministero chiede la condanna dei due per i reati ascritti: 21 anni e 5 giorni per Di Scianni e 8 anni e 9 mesi per Frassetti; la difesa di Di Scianni insiste nel chiedere l’esclusione dell’aggravante della premeditazione e della concessione dell’attenuante della provocazione grave; il difensore di Frassetti ne chiede l’assoluzione per non aver commesso il fatto.

Qualche ora dopo la Giuria dichiara i due imputati colpevoli dei reati loro ascritti e condanna Gabriele Di Scianni a 21 anni e 5 giorni di reclusione, più pene accessorie. Condanna Camillo Frassetti a 8 anni e 9 mesi di reclusione, più pene accessorie.

Il 30 maggio 1896 la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso presentato da Di Scianni e dichiara inammissibile quello proposto da Frassetti.[1]


[1] ASCS, Processi Penali.

Lascia il primo commento

Lascia un commento