UN BUON PADRE DI FAMIGLIA

Federico D’Agostino, 45 anni, è un agiato agricoltore di Palmi. La sera del 26 aprile 1943 sta, come al solito, giocando a carte e bevendo qualche bicchiere di vino con gli amici. All’ora di cena torna a casa dove lo aspettano pazientemente seduti a tavola sua moglie, Brigida Bagalà, e suo figlio Vincenzo. Cenando, Federico manda giù qualche altro bicchiere e poi, senza una ragione precisa, comincia a litigare con sua moglie. La picchia, incurante del fatto che sia ormai all’ottavo mese di gravidanza.

Terminata la baruffa, con passo calmo va in camera da letto, prende la pistola calibro 7,65 che conserva in un cassetto, torna in cucina dove Brigida sta singhiozzando seduta su di una sedia e col capo chino sul tavolo. Vincenzo, il figlio, è assorto nei suoi pensieri e nemmeno lo guarda. Adesso Federico è alle spalle di sua moglie. La afferra per i capelli con la mano sinistra per tenerla ferma, mentre le spara due colpi in testa a bruciapelo. Brigida ha una reazione istintiva di difesa ed uno dei colpi va a vuoto, ma l’altro le centra in pieno la volta cranica dall’alto in basso e per lei non c’è scampo: spappolamento della sostanza cerebrale con imponente emorragia: morte istantanea.

Federico, con la stessa calma con la quale ha ammazzato sua moglie, si avvicina alla porta di casa e la apre. Suo figlio, sorpreso dalla velocità dell’azione che si è svolta sotto i suoi occhi, terrorizzato dalla vista della madre a terra con il sangue e la materia cerebrale che stanno ancora schizzando dappertutto, è immobile come una statua. Ma capisce ciò che suo padre, prima di uscire e chiudersi dietro la porta di casa, gli dice con tono perentorio

Non avvisare nessuno

E Vincenzo ubbidisce. Nessuno sembra essersi accorto di niente, né nessuno racconta in giro di aver sentito due colpi di armi da fuoco provenire dalla casa dei D’Agostino.

Così i Carabinieri vengono a conoscenza dell’uxoricidio solo due giorni dopo, direttamente dalla voce dell’assassino che è appena andato a costituirsi.

Non ricordo i particolari del delitto e non so perché l’ho fatto

– Dove e cosa avete fatto durante questi due giorni?

Ho vagato come un automa per tutto il tempoho pensato di uccidermi con la stessa arma quando i miei parenti mi hanno rimproverato per l’orrendo delitto che ho commesso… poi il pensiero dei miei figli… mi ha fatto desistere…

– Forse vostra moglie vi aveva dato qualche dispiacere?

– No, Brigida non mi ha mai dato alcun dispiacere o motivi di rancore

Dai frammentari racconti di padre e figlio, i Carabinieri procedono non solo per uxoricidio, ma anche per maltrattamenti e omessa denunzia di arma da fuoco.

Per gli inquirenti è un’istruttoria facile facile e il rinvio a giudizio è cosa fatta, anche se Vincenzo ritratta più volte le già contrastanti dichiarazioni che, di volta in volta, rende ai giudici, i quali ritengono di non attribuirgli nessuna importanza.

Nel corso del dibattimento le lagnanze del D’Agostino appaiono fondate. E poiché l’imputato è arrivato all’età di 45 anni senza alcun precedente penale e risulta essere stato buon padre e tutto devoto al lavoro ed alla famiglia, il Procuratore Generale sente la necessità di una indagine psichiatrica che accerti il di lui stato mentale nel momento del delitto. L’esito della perizia certifica che l’imputato è uno psico-degenerato per alcolismo cronico; che nella formazione del suo carattere anormale avevano concorso insieme all’azione del tossico, condizioni ereditarie degenerative per cui, nel momento in cui aveva commesso l’uxoricidio, la sua capacità d’intendere e di volere era grandemente scemata.  Ma la Corte ritiene di non dover tenere conto della diagnosi del perito perché in più punti manca del sostegno dell’accertamento obiettivo e sicuro delle note e dei sintomi più comuni della degenerazione e dell’alcolismo cronico. Così, il 7 dicembre 1944, la Corte di Assise di Palmi condanna Federico D’Agostino all’ergastolo, applicando anche l’aggravante dei motivi abietti e futili e respingendo nello stesso tempo le richieste della difesa tese ad ottenere sia la concessione del vizio parziale di mente che la concessione delle attenuanti generiche.

.La difesa ricorre per Cassazione perché ritiene che la sentenza non sia sufficientemente motivata e il 28 giugno 1946 ottiene soddisfazione delle sue ragioni: la sentenza è annullata per assoluta mancanza di motivazione e gli atti vengono trasmessi alla Corte d’Assise di Cosenza per l’intero esame della causa. Tutto da rifare e dal delitto sono passati ormai 3 anni e due mesi.

La Corte d’Assise di Cosenza concorda con i giudici di Palmi riguardo ai dubbi sulla perizia psichiatrica, ma osserva che non può negarsi, d’altra parte, che il delitto in sé stesso, per le sue circostanze, per la mancanza di ogni causale, per la figura del colpevole postula l’azione o il concorso di una infermità mentale. Non è facile ammettere che il D’Agostino, avendo già trascorso la maggior parte della sua vita senza commettere alcun reato, caso veramente raro per un contadino di questi paesi, abbia ad un tratto manifestata una così efferata e inumana malvagità da uccidere, senza un motivo valutabile, la madre dei suoi figli e precipitare sé e la sua famiglia in un abisso di miseria e di pene. Una perversità siffatta, che avesse avuto origine nella particolare costituzione psichica del subietto, si sarebbe manifestata in qualche modo assai prima. Non si può dare nemmeno la colpa al vino, visto che quella sera Federico aveva, si, bevuto, ma non eccessivamente, non tanto, cioè, da perdere anche in parte la capacità di comprendere e di volere: era “avvinazzato”, era in quella condizione in cui s’era trovato tante altre volte in cui il vino ch’egli, come da sue stesse ammissioni e da riferimenti di alcuni testi, sopportava male, l’aveva spinto soltanto a litigare con la moglie e a darle qualche bussa, fatto comunissimo nelle famiglie dei contadini.

Per la Corte, adesso, Federico D’Agostino non è più un agiato agricoltore, ma un semplice contadino e, come tale, normalmente violento con sua moglie.

D’Agostino, continua la Corte, ha negato di essere geloso della moglie, forse perché non ha voluto accennare ad una causa, che la sapiente riflessione dopo la morte di quella sventurata gli si mostrava del tutto priva di consistenza e di giustificazione: la Bagaladi era donna di una onestà e di una fedeltà veramente esemplari. Ma che fosse geloso risulta dal coro unanime dei testimoni, i quali hanno difficoltà a spiegare le ragioni della gelosia e ad assegnare gli elementi su cui fondano il loro convincimento, ma altro non dicono. D’Agostino era geloso, effettivamente, di una gelosia cupa e sconsolata perché rampollava più che da sospetti e indizi, della coscienza sempre presente dell’avvenenza della moglie, ch’era di tanto più giovane di lui, avendo ventisette anni; era geloso a tal punto da tiranneggiare continuamente la donna cui inibiva ogni rapporto con estranei e finanche con i propri parenti. E tale passione veniva in lui rinfocolata troppo spesso dall’alcool che, per insegnamento comune, è il più grande fomentatore della gelosia.

Poi la Corte si addentra nei meandri della psichiatria senza la guida di specialisti: nessuno potrebbe, poi, negare, al lume della ordinaria esperienza e degli insegnamenti più sicuri della scienza, che uno stato passionale, persistente per lungo tempo, senza bastevoli remissioni, senza possibilità di reintegrazioni e pacificazioni sia pure provvisorie, necessariamente finisce con alterare patologicamente il sistema nervoso e la personalità psichica del subietto. Non si è in presenza, nella specie, di un caso tipico di paranoia in cui la capacità dell’agente sia stata completamente sommersa sotto i flutti del delirio geloso e l’azione completamente necessitata da rappresentazioni abnormi da immagini e da fatti lontani da ogni realtà, ma di una deformazione morbosa della personalità psichica del reo sotto la prolungata azione della gelosia e dell’alcool, per la quale la di lui capacità d’intendere e di volere deve ridursi, al momento del delitto, grandemente scemata, non abolita.

Quindi, ricapitolando, Federico D’Agostino quella sera se avesse solo bevuto sarebbe stato pienamente capace di intendere e volere, ma la combinazione di gelosia e alcol gli fece scemare grandemente questa capacità.

Con questo autonomo ragionamento, la Corte va incontro ai desiderata della Suprema Corte di Cassazione riguardo alla concessione della semi infermità di mente, ma ora deve smontare un altro, decisivo, pezzo della sentenza emessa a Palmi, quello che ha permesso la comminazione dell’ergastolo: l’aggravante dei futili motivi.

La futilità del motivo si commisura con quella che è la spinta normalmente agente su uomini normali; in un uomo affetto da infermità mentale il delitto può essere determinato anche dal più lieve stimolo. Problema risolto.

La Corte ritiene anche necessario non negare le attenuanti generiche ad un uomo giunto ai suoi quarantasei anni senza aver mai violato la legge penale, gettato improvvisamente nell’abisso più dalla infelicità del suo destino che dalla malvagità del suo carattere. Ma, d’altra parte, non è il caso di trascurare le circostanze che, nella specie, dimostrano la eccezionale gravità del delitto.

Quindi, le conclusioni: par giusto infliggere al colpevole la pena di anni sedici di reclusione, cui si perviene partendo da trenta anni, diminuendo di un terzo per il vizio di mente e di anni quattro per le attenuanti generiche. Il D’Agostino deve essere sottoposto alle misure di sicurezza. Egli è tenuto, inoltre, al pagamento delle spese processuali e di custodia preventiva. Deve, infine, essere condannato al rimborso delle spese e al risarcimento del danno verso le parti civili.

Poi c’è l’emissione del provvedimento consequenziale alla concessione del vizio parziale di mente: il ricovero in una casa di cura e di custodia per tempo non inferiore a tre anni.

È il 19 gennaio 1948 e dalla assurda morte di Brigida sono passati 4 anni e 9 mesi.

Il 2 febbraio 1954 la Corte di Appello di Catanzaro, applicando l’amnistia decretata il 19 dicembre 1953, dichiara condonati a Federico D’Agostino 3 anni della pena residua.[1]


[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Cosenza.

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