AMBIZIONE, AVIDITÀ, LUSSURIA E MORTE NEL SANTUARIO DI SAN FRANCESCO DI PAOLA

Ambizione, avidità, lussuria, figlie dell’ozio prodotto dall’obblio dè propri religiosi doveri, contaminarono il Santuario fondato da San Francesco di Paola in la sua patria con cure portentose e sovrumane. Queste malnate passioni cominciarono nell’anno 1831 e scissero gli abitatori religiosi di quel Monastero in partiti che assunsero il nome l’uno dè buoni, l’altro dè maligni. Tra pochi del partito dè buoni appartenevasi il Padre Giovanni Cilento, noto per l’illibatezza de’ costumi e candida morale, ed appartenevasi fra i frati del partito dè maligni il Padre Giuseppe Carratelli, che avea intrapreso la carriera monastica non già per elezione ma piuttosto per disperazione, appartenendo ad una famiglia miserabile, per cui sempre guardava di mal’occhio detto Padre Cilento. Nel dì 29 settembre di quell’anno 1831 dovevasi procedere alla nomina del Padre Correttore di quel pio luogo. I buoni proponevano il Padre Cilento. I maligni si opponevano vivamente. L’amor di pace consigliò i buoni a cedere. Fu nominato Correttore il Padre Carratelli. In seguito fu nominato tra maligni per procuratore il Padre Itria. Il Padre Delegato allora nominò il Padre Cilento, l’ottimo fra buoni, per maestro dè novizi.
Pochi giorni dopo escono volontariamente dal noviziato fra Nicola Valitutti e fra Francesco Guagliani. Alle cure di Padre Giovanni Cilento resta solo fra Francesco Macchia il quale ben presto, con il laico fra Domenico Carnevale, si associa al partito dei maligni. Padre Mastro Cilento cerca di convincere il novizio a restare fuori dalle fazioni, ma il novizio, quando una sera viene sorpreso mentre sta cantando a voce alta e viene rimproverato dal suo Maestro, per tutta risposta lo minaccia di prenderlo a schiaffi, se più parlasse. Il Maestro va a riferire tutto al Padre Correttore Carratelli e questi gli risponde di lasciare in pace il novizio e di farsi i fatti suoi. Quando ritorna nei locali del noviziato, Macchia lo assale verbalmente:
Sei uno svergognato! Fra poco sarai straregnato e ti prenderò a schiaffi, ti leverò l’anima da dove Dio te l’ha posta! E lo stesso farò a chi ti protegge!
Da questo momento in poi, Macchia è regolarmente invitato alle riunioni segrete che si tengono tra i capi dei malvagi, il Correttore Carratelli, i Padri Itria, Rocchetti, Catalano e il laico Carnevale.
L’insofferenza per l’intransigenza morale di Padre Cilento si tramuta in vero e proprio odio per la sua persona e quotidianamente deve sopportare insulti e oltraggi.
Intanto Macchia, contravvenendo ai suoi doveri di novizio, fa coppia fissa con il laico Carnevale. I due ogni notte escono furtivamente dal convento col mezzo di funi e di chiavi adulterine, ma nessuno sa dove vadano e per quale motivo.
Per quanto potere possa esercitare all’interno del convento, Carratelli non riesce ad evitare che le voci sulle fughe notturne arrivino ai superiori e che venga istruito un processo monastico contro i due.
Intanto Macchia è arrivato al termine del noviziato e quindi diventare frate, ma ciò gli viene negato da Cilento per la sua sregolata condotta. Padre Carratelli non trova niente di meglio da fare che attribuirne la causa a Cilento, supponendo che questi avesse malamente descritta la sua morale al Superiore Delegato Padre Melograno nell’atto che tali disposizioni erano venute dal Superiore Vicario Generale residente in Roma, per mezzo di Melograno. Non solo. Carratelli nomina sotto procuratore il laico Carnevale, ad onta che dal Delegato Generale era stato inibito di avere impieghi.
Una sera del mese di luglio del 1832, Carratelli con Padre Itria va nel noviziato con la scusa di visitare il novizio Macchia che stava poco bene. Padre Cilento, per essere molto zelante per l’esecuzione della regola, gli fece conoscere che non era permesso a chiunque di entrare nel Noviziato senza sua licenza, non escluso il Superiore e quante volte questo voleva praticarlo, poteva farlo accompagnato da due Padri seniori, al che il Carratelli si rivolse al Cilento e si espresse così:
– Coglione, ritirati in stanza!
Cilento rispose che non avea mancato, ma gli avea ricordato la regola, e se mancanza avea commessa, dovea essere giudicato da’ Padri Seniori.
 Questa risposta basta a Carratelli per aizzarlo maggiormente e ordina al laico Carnevale l’arresto di Padre Cilento.
Ora che sei nelle mie mani non scappi più! – gli dice Carnevale ridendo sguaiatamente.
Per sua fortuna, nel giro di pochi giorni, l’intervento dell’Autorità Amministrativa rimette in libertà Padre Cilento che può ritornare nel convento con la speranza che, essendo il mandato di Padre Carratelli giunto quasi alla sua scadenza, le cose possano ritornare alla normalità. E le premesse sembrano davvero buone quando, nel settembre del 1832, viene nominato Superiore il Padre Raffaele Iorio del partito dei buoni. Ma questi ultimi non hanno fatto i conti con gli avversari: Carratelli, Rocchetti, Catalano ed Itria sottoscrivono una protesta notarile e quindi unitisi in Capitolo Anarchico nominano Correttore il Padre Itria. Il Vicario Generale, Padre Romano, informato di questa grave insubordinazione, interviene immediatamente togliendo loro ogni voce attiva riconoscendo ufficialmente come Correttore Padre Iorio.
Ma in una notte del mese di novembre del 1832, don Nicola Carratelli, fratello del capo del partito dei maligni, va sotto le mura del convento e canta una canzone dispettosa e minacciosa:
Ho veduto castelli in aria
Poi ridursi in polvere
Cosa, questa, assolutamente vietata dalla Regola. Padre Cilento riferisce tutto al Superiore Iorio: la guerra, quella vera, per il potere nel convento è appena cominciata.
Il 2 gennaio 1833 Cilento e Iorio vedono il laico Carnevale allontanarsi dal convento verso le 19,30. Subito lo seguono ma lo perdono di vista. Vagano a lungo finché, verso le 22,00, lo vedono tornare da un sospetto luogo: la strada che viene dal paese di Paola, per andare nella casetta della sua druda Maria Montanaro. Carnevale però, sbirciando da dietro una finestra, avendo conosciuto Cilento che lo spiava, mentre esce dalla casetta prorompe con la sua amante in minacce di vita contro il Padre Cilento, che imputava come suo persecutore e giunse a cavarsi dal petto uno stile, manifestando che sotto i colpi dello stesso lo avrebbe fatto cader vittima in qualche giorno. Sembra che altre due volte Carnevale avesse manifestato alla sua compagna di dissolutezza propositi di vendetta contro Cilento perché questi si opponeva all’amore che per lei sentiva.
Dopo questo fatto Carnevale viene posto sotto stretta sorveglianza da parte del Superiore Iorio e gli viene categoricamente vietato di avere altro contatto con quella druda e malgrado le premure che da costei ne avea ricevuto, la di lui passione era molto inoltrata poiché la sazietà non avea ancor ammorzato i suoi sentimenti ed infatti, anche nelle prigioni il Carnevale non si occupava che della cura di raccomandare ed a voce  e con lettera alla di lui druda una condotta fedele e costante. Inoltre, il novizio Macchia ed il laico Carnevale pronunziaron minacce di morte contro il Padre Cilento. In particolare, Carnevale è imbestialito perché ha saputo che sarà trasferito in un altro monastero e di ciò si lamenta con Padre Catalano:
Padre Francesco, non sapete ch’è venuto Padre Giovanni Cilento e mi ha portato l’ubbidienza? La lancetta tanto va all’acqua fino a che si spezza… per Dio che li farò ricordare il mio nome!
Nel convento di San Francesco di Paola è consuetudine di celebrarsi la sera dell’Epifania una cerimonia che termina con piacevoli ristori. Ma la sera del 6 gennaio 1833 Padre Maddalena è malato e i confratelli decidono di festeggiare nella sua cella e la lieta unione si scioglie alle 4 della notte [circa le 20,00. Nda]. Padre Cilento e il novizio Macchia si ritirano nei locali del noviziato e gli altri Padri e Frati nelle loro rispettive celle. Solo il laico Carnevale non è nella sua stanza.
I locali del noviziato, nel convento di Paola, sono in ben lunga distanza da’ dormitori. Una doppia chiave ne chiude la porta e una di queste chiavi conservasi dal novizio MacchiaLa mattina del 7 gennaio un urlo turba la quiete del convento: Padre Giovanni Cilento viene rinvenuto cadavere nella corrente del fiume detto di San Francesco, e precisamente nel punto sottoposto al noviziato, precipitato dal luogo detto Deserto, attraversando il luogo detto Grotta di San Francesco Lamato e ponte del Diavolo. Un capestro eragli strettamente legato al collo; un ramo verdeggiante di rovere erasi attaccato al suo braccio, aveva le scarpe ai piedi e la testa scoverta, il volto rosso, livido e tumido, la bocca aperta colla lingua fra i denti ed alquanto sporta in fuori. Le labbra tumide ed illividite con sangue spumoso che dalla bocca grondava. Le narici offrivano una spuma sanguigna nelle due aperture con specialità nella sinistra. L’orecchio sinistro tramandava sangue dal foro uditorio. Sulla palpebra superiore dell’occhio sinistro vi era una piccola ferita lacera. Un’altra simile si osservava al di sopra del sopracciglio destro ed a tutta la regione sinistra della faccia diverse graffiature. Due contusioni visibili nella fronte, una nella gobba destra e l’altra nella sinistra della grossezza di una castagna.
Nella cella di Padre Cilento il letto è intatto ma il suo saio è lacerato e imbrattato d’immondezza che si rinvenne tolta dal luogo immondo così detto chiatra, sperimentato forse non atto per gittarvi il cadavere. I lumi del noviziato sono spenti senza esserne consumato l’olio. Sulla metà del pavimento di una stanza del noviziato sono sparse immondezze calcine e pedate umane di varia dimensione. Avanti la porta della legniera e della carboniera si osservarono impressioni di vomito. Impressioni di sangue furon rinvenute su di una scala servita da trasporto al cadavere. Stille di sangue furon rinvenute vicino a due finestroni del noviziato, da uno de’ quali era stato il cadavere gittato.
Conoscendo le minacce rivolte a Cilento dal novizio Macchia e, soprattutto, dal laico Carnevale, i gendarmi chiamati dal Correttore perquisiscono la stanza di quest’ultimo e trovano indizi interessanti: due funicoli e tre chiavi adulterine atte ad aprir alcune officine del Convento e i funicoli si verificarono uguali al capestro con cui fu strangolato Cilento. Carnevale viene arrestato e mentre trovavasi ristretto nelle prigioni di Paola mandò ambasciata al laico fra Giuseppe Santoro che, se venisse dalla giustizia esaminato, avesse detto che la notte del 6 gennaio avevano dormito insieme. Poi, considerato che le pedate umane di varia dimensione fanno pensare che siano state lasciate da più di due persone, vanno a visitare il novizio e un altro laico, Domenico Gatto, in ottimi rapporti con Carnevale. Nelle loro stanze non trovano niente di interessante, ma sono le loro mani a destare sospetti perché vi si rinvennero de’ laceramenti prodotti da strumenti di sfregatura.
Gli indizi sono sufficienti per arrestare anche questi due, ma quando i monaci del partito dei buoni raccontano tutte le angherie sofferte dal povero Cilento, i ferri vengono messi anche a Padre Carratelli, Padre Itria, Padre Rocchetti e Padre Catalano. Quasi tre mesi dopo Gatto viene rimesso in libertà e il 13 aprile 1833 muore in carcere il novizio Macchia. Nel frattempo i Padri Itria, Rocchetti e Catalano vengono scagionati e in carcere restano solo Carnevale, accusato di essere uno degli esecutori materiali dell’omicidio e Padre Carratelli, accusato di esserne stato il mandante.
Il 2 luglio 1834, la Gran Corte Criminale di Cosenza processa i due imputati e giunge alla conclusione che Domenico Carnevale avea commesso omicidio premeditato in persona del Padre Giovanni Cilento per causa propria e lo condanna alla pena di morte. Per Padre Carratelli il discorso è diverso. La Gran Corte non lo ritiene il mandante dell’omicidio, nè un complice di secondo grado e lo assolve. Tuttavia ritiene che ci sia bisogno di un supplemento di indagine per stabilire con certezza se Padre Carratelli, partendo dal convento il 2 gennaio 1833, abbia avuto nel convento o fuori di esso de’ segreti colloquii col defunto novizio Francesco Macchia e col suo laico fra Domenico Carnevale e se in tali colloquii segreti detto Padre Carratelli abbia dato mandato a’ medesimi per commettere l’omicidio o pure avesse insinuato a’ cooperatori, facilitando gli autori principali alla consumazione di tale atroce misfatto. E se ciò fosse accertato, si tratterebbe non più di un omicidio per causa propria, ma di un omicidio su mandato.
I giudici della Gran Corte Criminale non si fermano a questo. Individuano in numerose testimonianze alcune circostanze che avrebbero dovuto insospettire gli inquirenti: don Nicola Carratelli, fratello germano di Padre Carratelli, era solito portarsi nel santuario ed andava ad intrattenersi nella stanza di Padre Dionigi Rocchetti e la sera dell’avvenimento, 6 gennaio 1833, Padre Iorio lo vide ancora in detto Santuario nella stanza di Rocchetti fino alle ore 24 circa, senza di aver veduto se se ne fosse andato o pur no. Ma dopo l’epoca del commesso omicidio, il mentovato Nicola Carratelli non si è fatto più vedere secondo il solito nel Santuario e né alla stanza di Padre Rocchetti. Bisognerà indagare su questi aspetti e anche sulla strettissima amicizia di don Nicola con fra Carnevale, con il defunto canonico Macchia, con Padre Itria, con Padre Catalano, con Padre Molezzi e con Padre Rocchetti, co’ quali spesso si univa nelle loro stanze mangiando e confabulando in segreto fra loro. Non solo. Secondo la testimonianza di Padre Molezzi, mentre la mattina seguente all’omicidio, il 7 gennaio, a circa mezzora dopo fatto giorno,  si trovava dentro il chiostro di basso per andare a dir messa, vide nello stesso il Nicola Carratelli, che di tutta fretta si diriggeva per la gradinata segreta che conduce negli appartamenti del Monistero, senza che l’avesse più veduto in prosieguo di detto giorno, né quando si rinvenne il cadavere di Padre Cilento, né del tratto successivo si è fatto vedere nel Monistero. Don Nicola Carratelli, invece, fu visto, nel pomeriggio del 7 gennaio, venire da sotto il sopportico del signor Zicari – la strada che conduce nel Monastero – e passare davanti la casa di Nicola Maddalena a Paola nel luogo detto il cancello, per poi entrare nel caffè di Filippo Fraganto in andamento sospettoso e, senza essere stato richiesto, incominciò a parlare dell’omicidio di Padre Cilento e, tra le altre cose, disse le seguenti espressioni: “Io nulla sapevo di detto omicidio, pure è buono che la notte scorsa mi sono trovato nel molino del signor Pietro Maraviglia”, circostanza questa che è rimasta smentita colle dichiarazioni dei mugnai.
Queste richieste, osserva la Corte Suprema, fanno sorgere dei problemi procedurali perché ove rimanesse fermo il giudicato di omicidio premeditato per causa propria, non si potrebbe cangiare più la natura in omicidio per mandato: ove la nuova istruzione mostrasse il mandato nell’omicidio, non si sarebbe sicuro sullo sviluppo del mandatario. Intanto, nel dubbio di un omicidio per mandato, nella certezza di una nuova istruzione aperta sul mandato e nella incertezza di poterne risultare un altro mandatario, se ne manderebbe uno a morte come omicida per causa propria.
Intanto Carnevale presenta ricorso per annullamento, poi si vedrà.
Ma i giudici della Gran Corte Criminale di Cosenza non accolgono il suggerimento e vanno avanti con la nuova istruzione contro don Nicola Carratelli, scatenando l’ira dei giudici della Corte Suprema che accolgono il ricorso di Carnevale e annullano la sentenza della Gran Corte Criminale di Cosenza, rinviando la causa alla Gran Corte di Catanzaro: Gli estinti non si possono richiamare in vita. I complici presenti sono giudicati nello stesso giudizio secondo le regole stabilite. Forte di ciò, Padre Carratelli chiede ed ottiene la libertà provvisoria.
A Catanzaro il nuovo processo si tiene il 18 novembre 1836, quasi quattro anni dopo i fatti e, in attesa che sia completata la nuova istruttoria a carico di Padre Carratelli, i giudici riesaminano tutti gli atti relativi a fra Carnevale, interrogano nuovamente tutti i testimoni già ascoltati e ne interrogano di nuovi. Interrogano una donna, Maddalena Caruso, la quale sostiene di essere stata indotta da Maria Mantovano a dichiarare di essere a conoscenza che Padre Iorio sedusse e prevaricò Maria Mantovano a deporre che aveva avuto commercio carnale con lei nella casetta di Barone nel giorno in cui Cilento riconobbe invece Carnevale, anzi le complimentò dieci piastre per asserire che Carnevale era sempre stato l’amante di Maria Mantovano. Di più, Padre Iorio avrebbe minacciato la Mantovano quando questa stava in esperimento nel carcere di Paola, facendole conoscere che se non dichiarava a seconda de’ suoi desideri, stava sempre carcerata, tanto vero che detta Mantovano, volgendosi a Maddalena Caruso, le parlò così: “io devo deporre la falsità, mentre in quel giorno mi trovavo col Superiore nella casetta, non già con Carnevale, avendomi a ciò indotto il molinaro del Superiore”. Ma queste parole sono confuse e contraddittorie e i giudici non le credono.
Riascoltata, Maria Mantovano racconta che quasi quattro anni prima, mentre si trovava detenuta nel carcere di Paola, fra Giuseppe Santoro, deceduto da poco, le inviò un messaggio per mezzo di Maddalena Caruso alla quale aveva indirizzato una lettera, perché facesse la sua dichiarazione contraria all’accusato, come voleva il Padre Iorio:
Ma Maria non sa leggere e, tuttavia, decide di non farsi leggere la lettera da nessuno e di averla tenuta presso di sé per esibirla alla Gran Corte di Cosenza, ma se ne dimenticò. In seguito, consegnò la lettera alla madre del giudicabile Carnevale e che questa gliela restituì a sua volta e che ora la lettera è in possesso del difensore di Carnevale, il quale la consegna alla Corte:
Mia cara Maddalena
Il Superiore P Raffaele Iorio e venuto anche da noi a dirci come dobbiamo deporrire al Sig. Giudice altrimento a noi tutti ne fa passare guai forte, che ne fa morire dentra il carcere se non deponemo a suo piacero; dunque siamo costrette fare come lui vuole perche assolutamente vuole regonare il povero innocente uomo di Carnovale, noi per tale lo conoscemo, ma noi non abbiamo che farle: tutto ciò dite a Maria Mantuano
Vi saluto = V.ro amico
Fra Giuseppe Santoro
A questo punto il dibattimento può considerarsi concluso e la Corte è pronta ad emettere la sentenza, elencando prima ciò che l’ha determinata: Carnevale e il novizio Macchia, già morto nel carcere di Cosenza, odiavano per ragioni diverse Padre Cilento; entrambi palesarono l’odio che covavano nel petto e giunsero sinanche a profferire positive e precise minacce contro Cilento; Carnevale e Macchia, entrambi di pessima morale e di costumi depravati, erano legati da stretti vincoli di amicizia, resi assai più saldi e tenaci dalla uniformità del pensiero e dell’oprare; nel tempo prossimo alla consumazione dell’atroce misfatto, Macchia e Carnevale si intrattennero uniti nella infermeria e pranzarono insieme per poter mangiare della carne, giacché le regole monastiche vietavano di mangiare altrove; il mal umore e l’odio di Carnevale verso Padre Cilento si esacerbò pel fatto avvenuto nelle ore pomeridiane del 2 gennaio 1833, vale a dire quando uscì dal chiostro in ora inopportuna, si recò nella casetta campestre ove l’attendeva la sua vaga Maria Mantovano ed il Padre Cilento, che lo vide uscir solo dal convento, ne informò il Superiore Iorio e ambedue tennero dietro ai di costui passi, furono veduti dall’accusato nelle vicinanze dell’abituro, per cui esso Carnevale montò in collera e profferì con tuono minaccioso, al dire della Mantovano, minacce di morte; del pari si inasprì l’odio dello spento novizio Macchia contro Cilento perché gli impedì di seguirlo nell’abitato di Paola per celebrare una messa e, per questo, profferì, alla presenza di Padre Catalano una precisa minaccia di morte; lo sventurato Padre Cilento, a premure del novizio Mazza ed in compagnia dello stesso si portò a visitare il laico storpio fra Giuseppe Palmieri e, mentre Cilento e Macchia stavano nella camera del Palmieri, esso Macchia uscì sotto il pretesto che doveva soddisfare un bisogno corporale e, ritornato, disse a Cilento che conveniva ritirarsi perché molto tardi e insieme si diressero al noviziato; il tempo dell’assenza di Macchia dalla camera di Palmieri fu sufficiente per andare al noviziato e ritornare; nel mattino del 7 gennaio, il Padre Catalano, portatosi nel refettorio, vide in segreto abboccamento fra Domenico Carnevale ed il trapassato Macchia e questo, per non essere veduto, si abbandonò a precipitosa fuga; le abrasioni sulle mani di Carnevale e Macchia; Carnevale cercò procurarsi una coartata per mezzo del laico Santoro; Carnevale, nel suo interrogatorio, à costituito dedurre di aver dormito nella sua stanza, quando risulta il contrario.
La Gran Corte Criminale, a pieni voti, ritiene fra Domenico Carnevale colpevole di complicità corrispettiva nell’omicidio volontario in persona di Padre Giovanni Cilento per avere scientemente assistito e facilitato gli autori delle azioni nei fatti che la hanno preparata, facilitata e consumata. Poi ammette che l’omicidio fu premeditato, ma ritiene che la cooperazione di fra Domenico Carnevale fu tale, che senza di essa il reato si sarebbe anche commesso. Questa circostanza fa si che la pena di morte sia esclusa e il laico Carnevale viene condannato all’ergastolo. Da queste parole si intuisce che, secondo la Corte, ad uccidere Padre Cilento furono il defunto novizio Macchia ed altri rimasti ignoti, ognuno per motivi propri.
Stando così le cose è chiaro che Padre Giuseppe Carratelli non ha ordinato l’omicidio di Padre Cilento e le accuse penali contro di lui cadono.
Non sappiamo, però, quali furono le conseguenze ecclesiastiche nei suoi confronti, nè se nel Convento di San Francesco la vittoria sia stata dei buoni o dei maligni.
Il 2 agosto 1837 la Suprema Corte di Giustizia rigetta il ricorso di Carnevale contro la condanna all’ergastolo, scrivendo la parola fine a tutta la vicenda. [1]

 

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, atti della Gran Corte Criminale di Catanzaro.

 

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