È la sera del 7 maggio 1892 e l’assenza della luna rende il buio ancora più pesto. Nella strada sotto la fontana di Verbicaro un gruppo di giovani sta cantando. Poco distante un altro gruppo di giovani chiacchiera del più e del meno. Un cane è accucciato accanto a loro e aspetta pazientemente che il padrone riprenda la strada per seguirlo.
– E finitela! Se volete cantare andate in piazza o al Piano – urla Carmelo Cirimele all’indirizzo dei giovani che cantano e tutto ritornò nel silenzio.
Dopo qualche minuto passa accanto ai giovani che chiacchierano il ventisettenne Pietro Lucia. Forse per il buio non si accorge del cane accucciato o forse lo vede, ma sta il fatto che dà un pestone all’animale che guaisce per il dolore e scappa.
– Perché hai battuto il cane pezzo di fesso? – protesta uno dei giovani, Francesco Cirimele.
– Il cane è forse tuo? Per questo ti risenti? Io non l’ho fatto appositamente ma vi sono inciampato per caso – gli risponde Pietro Lucia.
– Il cane non è mio ma è di Carmelo Cirimele qui presente e, come suol dirsi, tu dovevi rispettare il cane per amor del padrone! – ribatte Cirimele che comincia a insultare l’avversario urlando – Bestia! Porco! Animale! Attento che ti cavo gli occhi! – Pietro Lucia stava calmo. Poi Cirimele comincia a dare degli spintoni all’avversario che non reagisce ma dice:
– Ma che cosa ho fatto? – Cirimele continua a spingerlo e, mentre gli altri giovani li guardano, i due si allontanano di qualche passo e si azzuffano.
Pietro le sta prendendo e, all’improvviso, caccia il coltello. Francesco si ferma di botto e alza le mani avanzando verso Pietro che ansante abbassa il coltello. Francesco, infingendo di abbracciarlo con una mano, con l’altra gli vibrò un colpo di coltello alla parte sinistra inferiore del ventre, praticamente all’inguine.
– Ci sei riuscito… – farfuglia Pietro barcollando mentre tenta di entrare in casa sua che è a una decina di metri da lui, ma fatti altri cinque o sei passi fu preso da svenimento a causa della quantità del sangue perduta e, giunto che fu nel Vico Fontana, stramazzò a terra rimanendo dopo pochi minuti cadavere fra le braccia di alcuni suoi parenti.
In pochi minuti arrivano i Carabinieri, il Sindaco e il Pretore che cominciano i rilievi e cercano Francesco Cirimele. Invano perché è sparito nel buio di quella notte senza luna.
Recisione della vena femorale. L’arma adoperata ritengo che sia stata un trincetto da calzolaio data l’ambiezza della ferita, ambiezza conservata fino quasi al fondo della ferita, certifica il dottor Francesco Adduci che esegue l’autopsia.
Francesco Cirimele, ventiquattrenne calzolaio, si costituisce due giorni dopo e racconta la sua versione dei fatti
– Ero con amici in Via Motta a tenere conversazione, quando passando Lucia Pietro calpestava la zampa del cane di Carmelo Cirimele che stava presso di noi. Di tal fatto redarguii esso Lucia dicendogli che tanto valeva maltrattare il cane quando voleva maltrattare il padrone; e però egli che veniva verso di me dicendomi “che cosa vuoi?” mi afferrava per la gola invitandomi di spingermi innanzi. Poscia cacciò di sacca un coltello e alla mia vista lo snodò dal manico. Io, temendo che mi ferisse, gli diedi una spinta e Lucia si allontanò. Restammo sul luogo altri due minuti circa e poi la brigata si sciolse ritirandosi ciascuno nella propria abitazione; io però invece di andare a casa siccome era di sabato, andai a trovare mio fratello Felice Antonio nella contrada Pastina. Il mattino appresso stavo per rientrare in paese quando incontrai compaesani che non conosco, i quali avvertivano mio fratello a non ritirarmi poiché io la sera prima avevo fatto quistioni col Lucia e l’avevo ucciso. Mio fratello mi interrogò sul riguardo ed io rimasi sorpreso e per non essere arrestato mi diedi in latitanza, però stamattina pensai meglio e mi costituii volontariamente… Lucia se ne andò senza punto lamentarsi che né io, né i miei compagni, come debbo credere per non avermi nulla detto, ebbimo ad accorgerci che il Lucia era rimasto ferito…
– Ma il trincetto lo avevi…
– Io quella sera, come tutte le altre notti, non portavo arma alcuna e perciò non è possibile che abbia ferito Lucia…
– Avevate avuto qualche questione prima dell’altra sera?
– Io a costui non lo conoscia neppure di nome ed in conseguenza nessun precedente né di amicizia e né di inimicizia passava fra noi due… mi reputo innocente del fatto che mi viene addebitato…
– Eri ubriaco?
– Io quella sera ero nella pienezza dei sensi perché di vino ne avea bevuto appena un tredicesimo del litro…
Sorprendente! Tanto sorprendente che al Pretore viene il dubbio che forse i testimoni possano avere equivocato i fatti e che quindi Pietro Lucia possa essersi ferito da solo accidentalmente, così richiama il dottor Adduci per chiarire questa eventualità.
– L’arma che ha ferito pare molto difficile che fosse impugnata dal defunto Lucia, atteso il punto rimasto leso, dove difficilmente potea raggiungere la propria mano.
– E l’arma potrebbe essere stata questa? – gli chiede il Pretore mostrandogli il coltello a serramanico trovato nelle vicinanze del cadavere.
– Escludo che la ferita potette essere cagionata dal coltello che mi fate osservare per la stessa ragione della sua ampiezza, circa due centimetri, mentre la lama di cotesto coltello è larga appena un centimetro
Tutto chiaro adesso, omicidio volontario. E per questo reato Francesco Cirimele viene rinviato a giudizio presso la Corte d’Assise di Cosenza.
Il dibattimento comincia il 18 ottobre 1892 e nella stessa giornata viene emessa la sentenza di colpevolezza. Francesco Cirimele viene condannato a 20 anni di reclusione e pene accessorie. Il 10 febbraio 1893 la Suprema Corte di Cassazione rigetta il ricorso di Francesco Cirimele e la condanna passa in giudicato.
L’11 luglio 1893 la Corte d’Appello di Catanzaro ammette il condannato a godere dei benefici dell’indulto appena approvato e dichiara la pena diminuita di 3 mesi.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.
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