IL PARANOIDE DI CAROLEI

È il 9 febbraio 1915 e il sole è ormai quasi tramontato del tutto. Carolina Massaro, 65 anni, comincia a preoccuparsi perché suo marito, il settantacinquenne Vincenzo Cava, non è ancora tornato dall’orto a un centinaio di metri da casa, in contrada Casino Rizzo di Carolei, contrariamente a quanto, immancabilmente, suole fare. Si mette addosso uno scialle e lo va a cercare. Attraversa la rotabile Cosenza – Carolei chiamandolo a gran voce senza avere risposta, poi alla fioca luce rimasta nota per terra accanto a una pianta di ulivo l’accetta, il piatto di creta con la colazione ancora avvolto nella mappina, l’orciuolo e la giacchetta di lana bianca del marito, del quale tuttavia non c’è traccia. “Manca la zappa”, pensa, “forse è a casa di Maria…”. Torna sui propri passi e va a casa della figlia distante poco più di duecento metri:
– Marì… Maria! – la chiama. Maria si affaccia e lei continua – Tuo padre è qui?
– No, non l’ho visto oggi… perché?
– Non è tornato… nell’orto ci sono le sue cose ma lui non c’è.
– Sarà da Giacinto.
– Hai ragione, vado a cercarlo da tuo fratello.
Carolina percorre altri cento metri, ma Vincenzo non è neppure lì così torna dalla figlia, sempre più preoccupata. Adesso è buio pesto.
– Marì, prendi una lanterna e andiamo a cercarlo.
La preoccupazione è grande anche in casa di Maria e, accesa una lanterna, tutta la famiglia, suoceri e cognati della donna compresi, si avvia alla ricerca dell’anziano.
– Hai detto che manca la zappa? – le chiede Antonio Gaudio, il consuocero.
– Si, non l’ho vista…
– Andiamo all’orto, noi contadini alla fine della giornata seppelliamo la zappa dove abbiamo finito di lavorare…
– E che significa se c’è o non c’è la zappa? – gli chiede Carolina.
– Se c’è significa che è stato lì e manca da poco, se non c’è significa che potrebbe essere andato ad aiutare qualcuno e si è portato la zappa e ci stiamo preoccupando inutilmente – così discorrendo arrivano nell’orto. Antonio Gaudio, illuminando il terreno con la lanterna, cerca di individuare il posto zappato più recentemente e si accorge che dove il terreno sembra più umido c’è un mucchio di terra più alto. Porge la lanterna a suo figlio e si mette a scavare con le mani per cercare la zappa.
Gesummaria! – urla quando alla luce tremolante della lanterna appaiono le dita di una mano che spuntano dalla terra, poi si alza di scatto e fa per scappare terrorizzato. Anche tutti gli altri urlano e scappano con i cuori che sembrano volere uscire dai petti. Poi Antonio riesce a recuperare la calma e convince gli altri a tornare al mucchio di terra. Si china sulla mano,  la prende tra le sue e, con gli occhi chiusi, tira più forte che può.
Di nuovo urla di terrore. Una ragazza sviene, un ragazzino vomita, qualcun altro scappa alla vista del tronco umano dal quale penzola la testa quasi completamente recisa dal collo. Antonio, d’istinto, molla la presa e cade all’indietro mentre il busto sta per raggiungerlo in un macabro abbraccio. Per l’inerzia dello strattone, ma i presenti giurano che si tratti di una magarìa, la testa del povero Vincenzo Cava sembra ritornare al proprio posto, solo un po’ spostata verso sinistra, mostrando parte dello squarcio come una specie di orrendo, satanico ghigno.
Sono le 21,30 quando Antonio Gaudio bussa alla porta dei Carabinieri di Carolei per denunciare la macabra scoperta all’assonnato Vicebrigadiere Giuseppe Mele. Il tempo di indossare la divisa e tutti corrono sul posto, ma le cose sembrano avvolte nel più cupo mistero. Tutti giurano che Vincenzo non aveva inimicizie e non c’è motivo per sospettare di questo o di quello. Una cosa è certa: il delitto indubbiamente era stato consumato quando ancora era giorno perché altrimenti il piatto sarebbe dovuto essere vuoto. Ma a chi, ad appena 7 metri di distanza dalla rotabile Cosenza – Carolei battuta continuamente da pedoni e da vetture d’ogni genere, in un terreno circondato per tre parti da quella strada, in un terreno alberato di rare piante di ulivo che non impediscono affatto la visuale della rivendita di Sali e Tabacchi di Maria Sicilia, del casino della signora Rosina Ferrante vedova Rizzo e della casa di Maria Cava, può essere venuto in mente di rischiare di essere visto mentre ammazzava barbaramente Vincenzo?
Secondo i medici che eseguono l’autopsia la vastissima ferita al collo si sarebbe potuta considerare come una vera e propria decapitazione se la cute e qualche muscolo del primo strato della regione nucale non avessero sorretto la testa che dondolava a destra e sinistra ad ogni lieve movimento che si imprimeva al cadavere.
– Dato che l’omicidio è avvenuto di giorno, ritengo che sia da attribuirsi ad un pazzo – dice Antonio Gaudio al Pretore dopo averci pensato su tutta la notte – e tale mia convinzione è rafforzata dal fatto che nell’ora in cui si presume sia avvenuto l’omicidio, un certo Pulice Francesco Giuseppe, alienato di mente, è stato visto in quei pressi mentre se ne tornava in Carolei.
Rimosso il cadavere, nella buca viene trovata un’accetta che presenta evidenti tracce di sangue e sicuramente deve trattarsi dell’arma del delitto. Dalle caratteristiche dell’attrezzo si risale al fabbro Giovanni Albo di Carolei che viene convocato in Pretura.
La scure è stata fatta da me e io la riconosco perfettamente. È molto vecchia e consumata e ritengo di averla fatta non prima di sette od otto anni dietro. Non so, né posso ricordare a chi l’abbia venduta giacché ne ho fatte e vendute di simili a centinaia.
– Vi ricordate se avete mai venduto un’accetta simile a Francesco Pulice o a qualcuno della sua famiglia?
– No, non sono mai stati miei clienti.
Il Vicebrigadiere Mele, intanto, riceve la testimonianza di Carolina Aquino, la quale dice che il giorno del delitto, più o meno a mezzogiorno, Francesco Pulice le si è presentato a casa rivolgendole minacce qualora non avesse pagato la fondiaria a Quintieri e siccome le minacce incalzavano, fece appena in tempo a chiudere la porta d’ingresso. Le stesse minacce che, uno dopo l’altro, quasi tutti gli abitanti della contrada Vadue, si presentano per denunciare! È quanto basta per mettersi alla ricerca dello squilibrato che viene rintracciato poco dopo nelle vicinanze della propria abitazione e portato in caserma.
– Come ti chiami?
Sono Quintieri Salvio Abissiniano.
– Non sei Francesco Giuseppe Pulice?
Pulice sono i miei amici ma io non li conosco.
– Perché hai ammazzato quel povero vecchio? – gli chiede a muso duro Mele.
Quel vecchio mi disse di non entrare nella sua proprietà e teneva un bastone in mano a Domodossola col deputato
Ma tu l’hai ucciso quel vecchio? – insiste Mele.
Io non ho ucciso nessuno ma il vecchio che teneva il bastone in mano non voleva pagare la fondiaria a Quintieri. Io gli ho dato un pugno sul viso ed è uscito un po’ di sangue
Di chi era l’accetta sotterrata col vecchio?
L’accetta che io ho sotterrato lei lo sa… forse l’avrà sotterrata Menelik nell’Abissiniano
Ma perché hai ammazzato il vecchio?
L’ho ammazzato perché non pagava la fondiaria a Quintieri.
E dopo che l’hai ammazzato dove l’hai messo?
L’ho bruciato… finora non ho ammazzato nessuno ma da ora in avanti se non pagano ammazzo tutti.
Il vecchio però è morto.
Il vecchio non è morto, però se non muore oggi muore domani… se il vecchio piglia la bibita che gli ordina il medico guarirà fra quindici giorni. Esso è stato ferito dall’Abissinianomi hanno detto che hanno ammazzato un vecchio ma io non so nulla perché sono metodista e la mia religione mi impedisce di ammazzare.
È chiaro che il trentasettenne Francesco Pulice ha dei grossi problemi. Le sue risposte sono incoerenti e non ci si può fare affidamento. C’è però un particolare che lo accusa del barbaro omicidio: le evidenti macchie di sangue sui suoi pantaloni.
E se è chiaro che Francesco Pulice ha dei grossi problemi mentali, è altrettanto chiaro che prima di compiere ulteriori passi istruttori si deve accertare lo stato di mente dell’indiziato. Fatte le dovute richieste, viene scelto il manicomio di Nocera Inferiore e Francesco viene affidato ai dottori Raffaele Vitolo e Raffaele Galdi.
È l’8 giugno 1915 il giorno in cui Francesco Pulice entra nel manicomio interprovinciale Vittorio Emanuele II. Ha la barba castana lunga, liscia e folta e la sua fisionomia, agli occhi dei medici che lo accolgono, ha un non so che di mistico. Ma nasce subito un problema: il dottor Raffaele Vitolo è stato richiamato alle armi perché l’Italia è in guerra. A sostituirlo sarà il primario del manicomio, dottor Salvatore Tommasini.
Di Francesco si sa soltanto che andò a scuola e che la frequentò per diversi anni, indi si diede al lavoro nei campi. È alcolista: non solo gli piaceva il vino, ma era dedito più ai liquori, agli spiriti – dice l’imputato stesso. All’età richiesta compì il suo dovere di soldato e stette per due anni sotto le armi, destinato al 91° Reggimento di Fanteria. È stato in diverse città col suo reggimento e di esse conserva il ricordo. Tenne ottima condotta e fu promosso al grado di caporale. Subito dopo il congedo andò in America: qui non ebbe mai un mestiere fisso; conobbe una giovanetta del suo paese e la sposò procreando tre figli tuttora viventi in America. Assicura che le donne non gli piacciono.
Per quanto riguarda l’inizio della probabile psicopatia, i periti dicono: Ignoriamo se forti cause morali abbiano agito (patemi d’animo) ma pare che no: non ha avuto perdita di averi, di figli, non ha avuto contrasti d’amore ecc. né pare abbiano contribuito cause fisiche come traumi, né cause sociali come condizioni economiche misere. Sola causa della presente probabile psicopatia sarebbe l’intossicazione alcoolica.
I periti ipotizzano che la malattia potrebbe essersi manifestata circa un anno e mezzo prima, quando, cioè, ubriacatosi si risvegliò in una cella di ospedale, che poi seppe essere il Manicomio di Houssemburg (?), come riferisce lo stesso Francesco. Dopo sette o otto mesi di ricovero, la moglie lo riprese in casa. Ma era diventato più che matto, la malattia lo perseguitava (sono sue parole), era geloso della moglie che corrispondeva col papa. Dietro le forti pressioni della moglie fu rimandato in Italia e fece il viaggio sotto sorveglianza, chiuso in una cabina con altre dieci o dodici persone e da essa non lo fecero mai uscire. A Napoli andò a prenderlo il padre che lo riportò a Carolei.
Durante i quasi quattro mesi di osservazione in manicomio, i periti lo interrogano parecchie volte e la coerenza delle risposte varia moltissimo da un mese all’altro. A giugno, subito dopo il ricovero, sembra lucido e le sue risposte sono coerenti e ben collocate nel tempo e nello spazio, poi le cose cominciano a peggiorare e già il 20 giugno torna quello che era al momento dell’arresto:
Sai dove ti trovi qui?
Al manicomio provinciale di Nocera.
Nel manicomio sai che vi sono i pazzi?
Vi sono i pazzi ed i sapienti.
E allora tu che cosa sei pazzo o sapiente?
Se sono colpevole debbo piangere la pena dell’omicidio commesso; se no non mi ammette la mia coscienza di restare qui un giorno. Mandatemi a libertà e parto per l’Abissinia.
Chi conosci in Abissinia?
In Abissinia ci ho degli amici. Ci è Quintieri, il mio padrone che non si sa se è Abissiniano o Italiano o Europeo.
Che relazione ci hai col tuo padrone?
Mi da lire cinque al giorno. Quando beve troppo dice che in Abissinia non si trova male.
Hai commesso tu l’omicidio?
Nossignore.
E allora perché ti hanno arrestato?
La ragione è stata per non fare la concorrenza del denaro dell’Abissinia con quello dell’Italia.
L’ucciso come si chiamava?
Bandiera o io.
Chi è che si chiama Bandiera?
Credo che si chiami Bandiera sua maestà.
Poi il 15 luglio:
Mio padre è un maggiore generale dell’esercito italiano, appartiene al presidio di Novara, vicino Roma, Primo Corpo d’Armata, provincia di Vercelli.
Conosci Quintieri?
Si, sono signori prepotenti, sono otto fratelli, per niente fanno decapitare la gente.
Tu hai avuto l’ordine di decapitare qualcuno?
No, ma di sparare contro chi non ubbidiva. Io non ho ucciso nessuno.
Se Quintieri ti ordinerà di decapitare qualcuno, come farai?
Do le dimissioni. Ingiustamente certamente.
Conosci tu chi ha ucciso il vecchio Cava?
Può essere questo che sta scrivendo. Uno che è sapiente deve intendere tutto, uno che non è sapiente non capisce niente.
16 agosto:
Mandatemi a Roma, la mia causa è troppo criminosa, voglio andare a Roma per parlare col deputato.
Chi è il deputato?
Sua maestà di Savoia. Essendo imputato di avere ucciso un fratello senza motivo, la causa come si mette non si può più uscire e perciò deve lui giudicare. A Roma vado col treno che si prende alla stazione di Nocera. Roma è una provincia del regno d’Italia, dove sta il deputato di Abissinia, è il re. Come in Italia si chiama Sua maestà, in Abissinia si chiama deputato. In Abissinia sono stato a Brooklyn, facevo il lavoratore decoratore.
Tuo padre dunque, come hai detto, faceva l’ufficiale generale?
Mio padre zappava la terra, faceva tutto. Mio padre è italiano, non è abissiniano. Certo, quando è italiano è generale.
Tu sei abissiniano?
Io sono lo stesso italiano; abissiniana deve essere mia madre che non sa parlare tanto bene l’italiano.
Hai ammazzato tu il vecchio?
No.
Potresti dire chi lo ha ucciso?
Forse qualche europeo. Gli europei sono più brutti, gli italiani sono più pacifici. Gli europei non vogliono vedere vicino gli abissiniani.
Perché hanno incolpato te?
Fu un vice-brigadiere; mi ha trovato a casa e mi disse che il Segretario mi voleva in caserma perché sapevano che non tanto mi piace l’abissiniano in Italia.
I periti annotano che i suoi discorsi sono per lo più sproloqui incomprensibili, il suo frasario è ibrido, formato anche di parole senza senso, oltre che di lingue diverse; è un miscuglio, un impasto di parole che alla fine nulla concludono. Ma sono anche costretti ad ammettere che la negazione del delitto è stata costante, mai si è smentito in così lunghi interrogatori, fatti anche da persone a lui estranee, come sono i suoi compagni di internamento nel manicomio. Egli si dichiara innocente e nei discorsi e negli scritti; nega anche che la scure presentatagli sia la sua, la quale, ha sempre affermato, è più piccola.
Poi giudicano il delitto che, nelle modalità con le quali fu commesso, presenta in sé tutte le apparenze di un delitto per quanto atroce, altrettanto anormale. Mancano le cause. L’ucciso è un vecchio innocuo. Gli viene incontro un uomo forte e robusto, dominato quel giorno da un’idea delirante, quella di imporre le tasse, come lo può fare un re, un capo di stato nella propria nazione. E si badi che nella mentalità del popolo è sempre il re che impone le tasse ai suoi sudditi, non il governo. Forse il vecchietto si ribellava a questa pretesa di pagamento di imposte, si negava perché sosteneva di avere già dato i suoi tributi e certamente non aveva compreso chi gli stava davanti, l’anormalità dell’uomo e le sue pretese. Un colpo di scure al capo che abbatte a terra il povero vecchietto, un secondo colpo così forte, da belva inferocita sitibonda di sangue, che recide quasi completamente la testa dal tronco.
Pulice Francesco è affetto da Demenza precoce paranoide; questa infermità, per gli atti impulsivi facili ad avverarsi, per le idee deliranti che sorgono, è pericolosa a sé ed agli altri.
Francesco Pulice, trovandosi nel momento del delitto in preda ad idee deliranti, era in condizioni psichiche tali da non avere la coscienza e la libertà dei suoi atti e quindi, a norma dell’art. 46 del Codice Penale non è punibile e secondo l’art 215 del Codice di Procedura Penale è pericoloso per sé e per gli altri e deve quindi essere rinchiuso in un manicomio.
È il 15 settembre 1915 quando i periti firmano la perizia di 99 pagine sullo stato mentale di Francesco Pulice.
Il 30 ottobre successivo la Sezione d’Accusa dichiara il non luogo a procedere e ordina l’internamento in manicomio di Francesco, senza specificarne la durata minima.[1]
Siamo proprio sicuri che sia lui l’assassino?

 

 

[1] ASCS, Processi Penali

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