– Guardia! Abbiamo sete! – urla Antonio Ferraro, ventiduenne acrese, all’indirizzo del secondino di turno nel carcere mandamentale di Acri durante il pomeriggio del 5 maggio 1924.
Antonio Ferraro è rinchiuso da un giorno insieme ai suoi complici Giovanni Fusaro, Mariano Romano e Nicola Vitiello per un furto dell’ingente valore di ottantamila lire, perpetrato ai danni di Angelo Falcone di Acri.
Il secondino, l’unico presente nel carcere, si avvicina al cancello della cella con fare annoiato, sfila le chiavi appese alla cintura e fa girare la serratura.
– Andate a bere alla fontanella in fondo al corridoio, però muovetevi! – gli fa.
Antonio Ferraro e Giovanni Fusaro non stanno aspettando altro. Con un poderoso spintone mandano gambe all’aria il secondino, percorrono di corsa il corridoio, aprono la porta del carcere e si danno alla fuga, mentre gli altri due detenuti se ne stanno buoni buoni, stesi sui loro tavolacci.
Tornati liberi, non hanno altra scelta che darsi ai furti per sopravvivere e sperare di trovare il modo di lasciare l’Italia. Così vagano per la valle del Crati compiendo almeno cinque furti in case coloniche, appropriandosi, tra le altre cose, anche di quattro fucili e di numerose munizioni. Tutto ciò dura fino alla metà di settembre, quando i due latitanti, in compagnia di un certo Francesco Fusaro, uno sbandato, vanno a rapinare la casa di Fedele Chimenti nella campagna di Montalto Uffugo. Quella notte i tre si tingono il viso col carbone, sfondano una porta mezzo sgangherata e salgono al primo piano del casino di campagna dei Chimenti, in contrada Insidia. Dopo aver rovistato in tutti gli angoli e non aver trovato niente di particolare valore, penetrano nella camera dove Fedele, la moglie Clorinda e la loro bambina di due anni stanno dormendo profondamente. Chimenti viene svegliato dal tonfo di un oggetto che cade per terra ma prima di rendersi conto di ciò che sta accadendo si trova con il collo stretto nella mano di uno degli assalitori e un coltello piantato in una spalla. Anche Clorinda si sveglia e comincia a urlare, iniziando una viva colluttazione con gli altri due che cercano di strapparle la bambina dalle mani senza riuscirci. Alle grida della donna accorre il fratello di Fedele il quale non fa nemmeno in tempo a entrare nella stanza che viene colpito al petto da una fucilata e cade a terra.
Solo all’esplosione il custode dei Chimenti si rende conto che qualcosa sta accadendo e si precipita nell’ala del casino dove dormono i padroni ma i malviventi, temendo di essere riconosciuti, se la danno a gambe levate senza prendere niente.
Antonio e Giovanni si separano dal loro compagno occasionale e si rifugiano tra i boschi della Sila dove incontrano un giovanotto diciottenne, Nicola Cofone, che ha appena incendiato la stalla del proprio genitore facendogli morire quasi tutti gli animali. Nicola, armato di due pistole e un fucile, si unisce a loro. Ma Giovanni Fusaro è stanco di vivere alla macchia braccato dai carabinieri per l’evasione, i furti e adesso anche per i due probabili omicidi, così preferisce lasciare la compagnia consegnandosi alla giustizia nella speranza di cavarsela con poco.
Antonio Ferraro resta così in compagnia del solo Nicola Cofone, che ha un’indole criminale e uno stato di esaltazione di gran lunga superiore a quella del compagno di sventura, tanto è vero che nei momenti in cui si riposa passa il tempo a fabbricarsi dei rudimentali bigliettini da visita sui quali scrive a matita: COFONE NICOLA – Brigante effettivo.
A questo punto è Nicola a prendere in mano la situazione e, conoscendo a menadito vita, morte e miracoli dei contadini e dei proprietari della contrada Lagarò, chiede assistenza e riparo a Natale Rubino che vive in una baracca con l’amante Teresa Bonacci di Soveria Mannelli e i figli che entrambi hanno avuto da precedenti relazioni. In questo contesto, Antonio Ferraro intreccia una relazione con la trentenne figlia del padrone di casa, Bernardina Rubino.
Discutendo del più e del meno, i due fuorilegge vengono a sapere che nelle vicinanze, cioè nel casino di campagna del barone Stanislao Lupinacci, si trova in villeggiatura il genero di costui, Luigi Feraudo di Acri, così organizzano un’estorsione ai suoi danni. Gli scrivono una lettera nella quale, sotto la minaccia di incendiare il casino con tutti gli abitanti dentro, chiedono il pagamento di quarantamila lire in contanti da consegnare entro mezz’ora dal ricevimento a Teresa Bonacci la quale, a sua volta, usa come tramite il fattore di Lupinacci. Feraudo non ha con sé quella cifra ma, conoscendo Antonio Ferraro, che ha avuto anche la spudoratezza di firmare la lettera col proprio nome e cognome, mette in una busta dieci biglietti da cento lire ciascuno, avendo però cura di appuntarsi tutti i numeri di serie delle banconote. Consegna la busta al fattore e questi la consegna a sua volta alla Bonacci che, notato il rigonfiamento della busta, se ne torna alla baracca tutta allegra e giuliva. Il barone Lupinacci però non può subire passivamente quest’onta. Il mattino successivo fa ripartire per Acri la figlia e il genero, mentre lui stesso va a Celico a denunciare il tutto ai carabinieri, che avvisano immediatamente il comando di Cosenza.
NON ARRESTARE TALE BONACCI TERESA AL FINE DI NON COMPROMETTERE INDAGINI è l’ordine che arriva dal Comando. Viene ordinato, invece, di pattugliare con discrezione la zona per cercare di bloccare i banditi. E per poco i carabinieri di Celico non ci riescono il 15 ottobre quando, avvisati da Francesco Cofone (il padre di Nicola) del tentativo di estorsione ricevuto, si appostano nelle vicinanze del luogo dove i banditi hanno stabilito che Cofone debba lasciare le mille lire richieste e aspettano che si facciano vivi. Ma Antonio e Nicola si accorgono di tutto e scappano sparando contro i carabinieri.
Si, è vero che anche questa volta sono riusciti a scappare, però i carabinieri ormai stanno stringendo il cerchio e, attraverso informazioni riservate, vengono a sapere che non dormono più nella baracca di Natale Rubino ma girano per i casolari disabitati. In ogni caso, informatori fidati tengono d’occhio la baracca dei favoreggiatori, pronti in qualsiasi momento a segnalare l’arrivo dei banditi. Viene anche formata una squadra speciale di carabinieri al comando del vice brigadiere Salvatore Di Prima che, in abiti civili, battono la montagna e per la notte si rifugiano nel casino dei Lupinacci.
All’alba del 17 ottobre il bracciante Domenico Mauro, ingaggiato dal barone come guardiano, va nella baracca data in fitto insieme al pascolo circostante al pastore Francesco Chiarelli di Mandatoriccio per prendere del latte. In mezzo alle vacche si trova davanti Antonio Ferraro il quale, non appena lo vede, mette subito mano al fucile. Mauro, per quanto impaurito, finge di non averlo visto e prosegue. Entra nella baracca e vede Nicola Cofone che sta ancora dormendo vicino al fuoco acceso. Più in là c’è il figlio di Chiarelli che gli porge la bottiglia del latte e gli fa segno di andarsene. Mauro se ne va indisturbato alla volta del casino e avverte tempestivamente il vice brigadiere Di Prima il quale, prima di disporre l’accerchiamento della baracca, decide di mandare sul posto un giovanotto fidato, Giovanni Medaglia, con la scusa di comprare delle ricotte e verificare che i due siano ancora lì. Il giovanotto torna al casino accompagnato dal pastore e conferma la presenza dei banditi nella baracca. Di Prima ammanetta il pastore e lo chiude in una stanza temendo che possa correre ad avvisare i due latitanti e fa scattare l’operazione. Un carabiniere, in compagnia di Mauro e Medaglia, viene mandato ad appostarsi in un fosso poco distante dalla baracca; gli altri quattro carabinieri, seguiti da altri due guardiani, si appostano a cerchio intorno alla baracca.
Nicola Cofone vede con la coda dell’occhio nel riquadro della finestra il luccichio di una canna di moschetto e, facendo segno al compare di tacere, gli sussurra all’orecchio:
– Compare, ci hanno fregati… ci sono i carabinieri qui fuori, ma forse non è detta l’ultima parola…
– Come? – gli chiede Ferraro cercando di vedere la posizione dei carabinieri nascosti tra l’erba.
– Noi siamo qui – comincia a spiegargli tracciando un rudimentale disegno sul pavimento di terra – se riusciamo a correre tra i fossi fino alla collinetta siamo salvi perché li ammazziamo tutti a uno a uno e poi ci nascondiamo nel bosco – termina la spiegazione facendo l’occhiolino.
– Uhm… non fa una piega – concorda Ferraro – carichiamo tutte le armi e usciamo correndo e sparando, chissà che non ci riusciamo davvero! Una cosa è certa, io in galera non ci torno. Se mi feriscono e tu puoi salvarti, ammazzami e scappa, lo stesso farò io con te!
– D’accordo compare – gli risponde Nicola Cofone abbracciandolo – o vivi o morti, così facevano i briganti!
– Arrendetevi! Siete circondati! – urla Di Prima sparando un colpo di moschetto in aria ma i malviventi, imbracciate le armi, cominciano a correre verso la collinetta poco distante sparando all’impazzata. I carabinieri hanno un attimo di smarrimento e cercano riparo dalle pallottole che fischiano da tutte le parti, poi si riorganizzano e rispondono al fuoco sparando a raffica.
Ferraro e Cofone capiscono che continuando a correre allo scoperto verranno sicuramente centrati e così si fermano, si inginocchiano mettendosi uno di spalle all’altro e cominciano a sparare non più alla cieca ma cercando di mirare per uccidere. La battaglia, perché di una vera e propria battaglia si tratta, dura quasi mezz’ora e nessun colpo va a segno, poi il vice brigadiere Di Prima riesce a sistemarsi per bene in un fosso e a prendere la mira con precisione e tira il grilletto.
Antonio Ferraro viene colpito dietro l’orecchio destro da una pallottola che gli spappola il cervelletto. Nicola Cofone lo vede abbattersi al suolo senza un lamento e capisce che anche per lui ormai è finita. Con un urlo disumano si alza in piedi impugnando le due pistole però non fa in tempo a usarle: da ogni buca dove sono appostati i carabinieri partono colpi nella sua direzione ma è uno solo a colpirlo alla tempia sinistra, conficcandosi nel cervello e anche lui cade fulminato all’istante. Nella radura cala il silenzio della morte, mentre i carabinieri e i guardiani del barone Lupinacci si lasciano andare sull’erba ringraziando Iddio di non esserci rimasti secchi.
Rinfrancatisi, i carabinieri raccolgono i bossoli e contano le cartucce che trovano addosso ai malviventi. Secondo i calcoli del vice brigadiere Di Prima sono stati sparati, da una parte e dall’altra non meno di duecento colpi, mentre addosso ai due morti vengono trovate complessivamente altre centodue cartucce inesplose, un moschetto modello 1891, due doppiette, una pistola automatica a diciotto colpi di fabbricazione austriaca, una pistola automatica Beretta calibro 6,35, un coltello a serramanico, un pugnale e una baionetta austriaca. Un piccolo arsenale.
I carabinieri, oltre alle armi, trovano addosso ai cadaveri anche parte degli oggetti rubati nelle loro scorrerie, una banconota da cento lire il cui numero di serie corrisponde a uno dei dieci biglietti di banca pagati da Luigi Feraudo, un termometro nella sua custodia, una lampadina elettrica con pila di ricambio, alcune matite, un paio di lenti da turisti, un pezzo di sapone, alcuni francobolli, una pipa, una scatola di tabacco, un paio di guanti di lana verde, un pettine bianco di osso, alcune scatole di cerini, un libretto per appunti e tre portafogli, uno dei quali di pelle rossa.
La banconota da cento lire è la prova che incastra Teresa Bonacci, il suo amante Natale Rubino e i loro rispettivi figli, i quali vengono arrestati poco dopo. La squadra del vice brigadiere Di Prima scopre ancora che i due sono stati aiutati durante la latitanza anche dai contadini Francesco Greco, Gennaro Capalbo, Luigi Mangone, Luigi Spadaro, Leonardo Spadaro e Giuseppe Caligiuri e li arrestano.
L’unico a cavarsela è Giovanni Fusaro, il primo compagno di sventura di Antonio Ferraro perché nessuno riesce a provare che ha partecipato ai colpi commessi dopo l’evasione e sconterà un aumento di pena solo per questo reato.
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