IL MISTERO DEL SOLDATO SCOMPARSO

Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, all’epoca dello sbandamento delle Forze Armate, il soldato Domenico Tassone, classe 1923, fa subito ritorno al suo paese, Grotteria in provincia di Reggio Calabria, proveniente dalla Compagnia di sussistenza di stanza ad Avellino, presso la quale aveva prestato servizio.

La guerra è finita, così credono tutti, ma evidentemente nessuno ha fatto attenzione alle ultime parole pronunciate dal Maresciallo Badoglio nell’annuncio dell’armistizio: “Esse (le Forze Armate. Nda) però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. E così,verso la fine di settembre, le Autorità Militari emanano un ordine col quale si ingiunge a tutti i militari sbandati di presentarsi ai rispettivi Comandi entro i primi del mese di ottobre. A Catanzaro, per la Calabria.

Per ottemperare alla chiamata, anche Domenico Tassone parte da Grotteria assieme a molti altri suoi compaesani, tra i quali Mario Ligustro, classe 1915, soldato di cavalleria in servizio, prima dell’armistizio, presso un reparto della Difesa Costiera di stanza a Soverato.

Da questo momento la famiglia di Domenico Tassone non ha più sue notizie, così suo padre Vincenzo, il 28 giugno 1946, dopo quasi tre anni dalla scomparsa, presenta un esposto alla Procura di Locri, al Comando Legione Carabinieri di Catanzaro e alla stazione dei Carabinieri di Grotteria, fornendo le frammentarie e contrastanti notizie da lui raccolte sulla sorte di suo figlio.

Vincenzo Tassone racconta che Mario Ligustro, rientrato da Catanzaro pochi giorni dopo la partenza da Grotteria, rispondendo alle sue domande gli rispose di aver lasciato Domenico a Catanzaro Marina in condizioni di non poter proseguire a piedi il viaggio di ritorno (era l’epoca in cui i treni viaggiavano saltuariamente). Poi nessuna notizia sino al febbraio 1945 quando certo Pasquale Galluzzo, intimo amico e compare di Domenico, disse ad uno zio dello scomparso di essere sua intenzione svolgere ricerche a Catanzaro al fine di scoprire quale sorte fosse toccata al suo amico e compare, temendo che avesse fatto una brutta fine. Dopo qualche mese, Galluzzo raccontò allo zio dello scomparso, che a sua volta riportò al padre, di avere appreso a Catanzaro che nei giorni successivi alla partenza, Domenico viveva in quella città assieme ad altri tre compaesani, recandosi di giorno a lavorare nelle campagne; che un giorno aveva litigato con uno dei suoi compagni, tale Mimì, e che una sera soltanto tre dei quattro compaesani avevano fatto ritorno nell’abitazione di Catanzaro e costoro, alle domande della padrona di casa avevano risposto che Domenico era stato rastrellato dai Carabinieri ed inviato al fronte. Poi Galluzzo aggiunge un particolare inquietante, in contrasto con la storia del rastrellamento: in una casa di campagna, sita nel luogo ove i quattro compaesani si recavano a lavorare, erano state rinvenute tracce di sangue. La storia non convinse il padre e alla richiesta di chiarimenti, Galluzzo rispose di non aver mai detto quelle cose allo zio e che se effettivamente quelle notizie aveva dato, doveva certamente essersi trovato in stato di ubriachezza perché non rispondevano a verità e ammise di avere, a suo tempo, ricevuto da Catanzaro una cartolina da Domenico, che aveva però smarrito. Alle ulteriori richieste di chiarimenti, Galluzzo aveva sibillinamente risposto di non sapere nulla e di rivolgersi ad altri meglio informati.

Questo qualcuno potrebbe essere Mario Ligustro, detto “U figghiu di lu carognu”, dato che sembrerebbe essere stata l’ultima persona ad aver visto Domenico a Catanzaro:

Purtroppo Domenico è morto… – rivelò tra lo stupore generale.

– E perché hai aspettato tutto questo tempo?

Per non arrecarvi dispiacere… – rispose imbarazzato, poi aggiunse – Di ritorno da Catanzaro cercammo di prendere il treno alla stazione di Catanzaro Marina, ma ne fummo impediti da un militare alleato. Domenico non era in grado di proseguire il viaggio a piedi perché aveva le estremità inferiori doloranti. Mentre stavamo riposando scorgemmo in quei pressi alcuni cavalli intenti a pascolare e ci venne l’idea di servirci di uno di quegli animali per proseguire. Riuscimmo ad impadronirci di un cavallo ed iniziammo il viaggio seguendo la spiaggia lungo il battente dell’onda al fine di far disperdere le orme. A un dato momento, fra Catanzaro Marina e Squillace, mentre Domenico era in groppa all’animale ed io lo conducevo per la cavezza, vi fu un gran frastuono, in seguito al quale persi i sensi. Dopo rinvenuto, potei scorgere pochi resti del cavallo e nessuna traccia di Domenico, così capii che entrambi erano stati investiti dallo scoppio di una mina

La storia non convinse del tutto il padre e la conferma ai suoi sospetti venne il 15 maggio 1946 quando Raffaele Saturno, un mendicante girovago, rivelò al cognato dello scomparso, alla presenza di un testimone, di essere a conoscenza che Domenico era stato assassinato da due persone di Grotteria e di conoscere anche il luogo ove era stato sepolto.

In seguito a queste notizie riportate nell’esposto, i Carabinieri di Grotteria cominciano ad indagare ed intanto ottengono da tutti i testimoni interrogati la conferma a quanto scritto nell’esposto, poi due testimoni aggiungono qualcosa che parrebbe essere la conferma che Domenico sia stato ucciso e fatto sparire. I due raccontano di aver saputo da Saturno che questi aveva incontrato Domenico a Catanzaro Marina in compagnia di altri paesani e che tutti erano soliti consumare i pasti presso una donna di Grotteria a nome Stella e che una sera, non avendo incontrato Domenico, gli altri gli avevano detto che era partito e non avrebbe fatto più ritorno perché era stato ucciso da due paesani e che uno di essi era stato in seguito colpito da grave malattia, per cui aveva dato fondo a tutti i suoi risparmi e si era ridotto in miseria. Chi potrebbe essere l’uomo colpito da grave malattia? Raffaele Saturno, paralizzato ad una gamba!

Bisogna interrogare quelli che sembrano essere i più informati e, soprattutto, coinvolti nella brutta faccenda: Galluzzo, Saturno e Ligustro. I primi due vengono rintracciati a Grotteria e messi in stato di fermo il 26 luglio 1946, il terzo in paese non c’è perché ha trovato lavoro a Bari e i Carabinieri lo fanno cercare lì, ma il 28 luglio Ligustro si presenta spontaneamente in caserma a Grotteria per chiarire la sua posizione.

Saturno è il primo ad essere interrogato:

Nel mese di ottobre 1943 incontrai Tassone, Ligustro e Galluzzo a Catanzaro e mi dissero che si recavano spesso alla Marina ove consumavano i pasti presso una tale Stella da Grotteria. In una di queste sere Tassone e Ligustro si bisticciarono per via di una relazione che Tassone avrebbe avuto con una cugina dell’altro. La sera successiva non incontrai Tassone assieme agli altri nella solita casa e Ligustro mi fece capire di averlo ucciso. Il giorno dopo incontrai a Catanzaro Ligustro e Galluzzo e il primo mi confidò che Tassone era stato sepolto nei pressi della funicolare che dalla stazione mena in città e precisamente nelle vicinanze del luogo in cui viene attaccato il cavo alla vettura. Ligustro mi avvertì di non fare parola con alcuno, pena la vita, e lo stesso avvertimento me lo fece a Bari nel 1945 e nel 1946. Anche Galluzzo mi esortò a non dire nulla, minacciandomi.

Poi è il turno di Galluzzo:

Nel mese di ottobre 1943 incontrai a Catanzaro Ligustro e Tassone e insieme ci incamminammo verso la Marina seguendo la linea della funicolare che mena alla stazione di Catanzaro Sala. Durante il percorso i miei due compagni si bisticciarono per via di una relazione che, secondo Ligustro, era stata intrecciata da Tassone con una cugina del primo. Giunti alla fine della discesa della funicolare i due si azzuffarono e Tassone cadde per terra, ruzzolando più volte. Ligustro, con minacce, mi costrinse ad andarmene e qualche giorno dopo a Grotteria mi avvertì di non dire nulla della scomparsa di Tassone ed aggiunse che ai parenti del morto avrebbe riferito che il loro congiunto era rimasto vittima dello scoppio di una mina.

Due racconti concordanti, Ligustro sembra spacciato e, quando viene interrogato, dopo aver cercato di accreditare la versione dello scoppio della mina, dice:

Il 6 ottobre 1943 partii da Grotteria per Catanzaro, ma interruppi subito il viaggio e tornai a casa. Ripartii la mattina dopo e giunsi a Catanzaro in giornata. La notte tra il 7 e l’8 la passai in compagnia di Tassone in una casa rurale diroccata e la mattina dell’8 entrambi girovagammo per le campagne e poi arrivammo là dove ha inizio la salita della funicolare. In quel luogo ebbe inizio fra di noi una vivace discussione perché io volevo far ritorno in paese e Tassone invece desiderava recarsi al comando militare. Durante la discussione ci ingiuriammo e Tassone mi chiamò “cornuto”; alle mie rimostranze mi disse di essersi coricato con mia moglie e allora persi il controllo e gli vibrai un colpo di pugnale all’addome, che lo uccise immediatamente. Poi trasportai il cadavere sotto un ponte vicino e lo coprii con rami ed erba, quindi feci ritorno a Grotteria la sera del 9 ottobre.

Tutto risolto ora che c’è la confessione, ma manca ancora il cadavere. Ligustro, il 2 agosto 1946, viene portato a Catanzaro per indicare il luogo esatto dove cercare i poveri resti. Ma appena Ligustro è davanti al comandante della stazione dei Carabinieri di Catanzaro Borgo, ritratta tutto e si dichiara innocente, ripetendo la versione della disgrazia avvenuta per lo scoppio della mina e precisando:

La sera dell’8 ottobre 1943 io e Tassone, provenendo da Catanzaro, giungemmo alla stazione di Fascio Corace in contrada Roccelletta, ove facemmo incontro con alcuni paesani diretti in città – e questo lascerebbe intendere che Tassone non sarebbe stato ucciso ai piedi della funicolare nella giornata dell’8 ottobre perché la sera, se i testimoni confermeranno, sarebbe stato ancora vivo. Poi fornisce altri particolari a sostegno della sua versione –. L’equino di cui ci impadronimmo era una cavalla di colore rossastro, alla quale adattammo una cavezza di fortuna, fatta con filo telefonico; l’animale era al pascolo presso la riva destra del fiume Corace e l’esplosione avvenne a circa due chilometri dal luogo di partenza. Dopo lo scoppio della mina notai che avevo la giacca sporca di sangue alle spalle. Quella notte pernottai a Soverato presso un mio conoscente, Domenico Careri, al quale non raccontai l’accaduto. La mattina dopo proseguii in treno per Grotteria

– Tua moglie non ti disse niente quando vide la giacca sporca di sangue?

Le dissi di essermi sporcato per avere aiutato un tale a trasportare alcune pecore investite dal treno

In seguito a queste dichiarazioni, Ligustro viene rispedito a Grotteria. Nel frattempo Saturno modifica la sua deposizione:

Ligustro e Tassone non litigarono per il fatto della cugina, ma per la divisione della somma ricavata dalla vendita di un mulo rubato – e se si riuscisse a dimostrare, ammesso sempre che Tassone sia stato assassinato, che il movente fu il denaro, l’accusa sarebbe omicidio a scopo di rapina e l’ergastolo sarebbe assicurato. Forse potrebbe dipendere anche da ciò che, viste le nuove dichiarazioni di Saturno, dirà Galluzzo:

Nella prima decade di ottobre 1943 incontrai a Catanzaro Tassone e Ligustro, i quali mi dissero di non essersi presentati al comando militare; in loro compagnia mi incamminai verso Catanzaro Marina seguendo la funicolare. Lungo il tragitto, Ligustro pretendeva da Tassone una certa somma per un affare fatto in comune, ma Tassone opponeva che il ricavato era stato diviso in parti uguali e pertanto niente altro competeva a Ligustro. Quest’ultimo ingiuriava l’altro, rimproverandogli anche di avere avuto rapporti carnali con una sua cugina. Giunti a Catanzaro Marina, non essendovi treni, decidemmo di proseguire a piedi verso Squillace. Ad un certo punto la lite si riaccese e Ligustro provocava in tutti i modi Tassone e più volte aveva rimproverato e ingiuriato anche me perché cercavo di mettere pace, diffidandomi a non interessarmi di cose che non mi riguardavano. In contrada Roccelletta la lite diventò più aspra e Ligustro cominciò a dare spintoni a Tassone. Prima che potessi intervenire, Ligustro inferse una prima ed una seconda coltellata all’addome di Tassone, che stramazzò al suolo. Poi minacciò anche me con una pistola, costringendomi ad allontanarmi. Dopo pochi giorni, a Grotteria, mi diffidò nuovamente, sotto minaccia di morte, a non far parola dell’accaduto.

Sembra una dichiarazione mediata tra quella di Saturno e quella di Ligustro: il movente è quello segnalato dal primo, il luogo dove sarebbe avvenuta la morte è quello indicato dal secondo, con la differenza che Ligustro sostiene che non c’erano altre persone con lui e Tassone e che quest’ultimo saltò in aria su una mina.

In questa confusione di continue ritrattazioni, potrebbe esserci un punto a favore di Ligustro perché il suo conoscente presso il quale avrebbe dormito la notte in cui sarebbe morto Tassone, conferma. Per cercare di capire se Galluzzo ha detto il vero o no, viene portato nel luogo dove, secondo lui, Ligustro avrebbe ucciso Tassone, ma le ricerche volte a trovare i resti della vittima non danno alcun esito. Viene trovata anche la giacca di Ligustro con sulle spalle alcune tracce che sembrano di sangue ma, sottoposta ad analisi, l’esito è negativo: le macchie non sono di sangue. A questo punto lo stato di fermo di Ligustro viene formalmente tramutato in arresto e si procede per omicidio, soppressione di cadavere, violenza privata e porto abusivo di armi, mentre Galluzzo e Saturno vengono rimessi in libertà. È il 9 agosto 1946.

Interrogato dal Procuratore della Repubblica di Locri, Ligustro ribadisce che Tassone, in sella alla cavalla, saltò in aria su una mina.

– Ma se è come sostieni, perché non dirlo alla famiglia del morto?

– Signor Giudice, sia per non recare loro dispiacere, sia per non correre il rischio di dover rispondere del furto della cavalla. Tenete presente che, essendo sicuro della mia innocenza, sono tornato da Bari spontaneamente. Appena arrivato a Grotteria incontrai mia moglie che mi disse di aver fatto incontro con la moglie di Galluzzo la quale, alle sue rimostranze, le disse che il marito, verosimilmente, mi aveva accusato senza nulla conoscere dei fatti.

Il 21 agosto 1946 l’istruttoria viene assegnata al Giudice Istruttore del Tribunale di Catanzaro, che avrà l’arduo compito di accertare quale delle due versioni tra quella dell’imputato e quella di Galluzzo risponda a verità. La prima cosa che fa il Giudice Istruttore è procedere alla verifica delle distanze tra le varie località interessate, in un modo o nell’altro, al delitto e la descrizione delle stesse. Da questi accertamenti sembrerebbero emergere delle incongruenze nelle versioni date da Galluzzo e Saturno, sia che l’omicidio fosse stato commesso nei pressi della funicolare, sia nei pressi di Roccelletta. Viceversa, il luogo indicato da Ligustro come quello in cui Tassone saltò in aria su una mina sembra essere coerente con quanto raccontato.

A questo punto Saturno ritratta tutto e dice di avere reso le sue contraddittorie narrazioni unicamente perché pressato dai Carabinieri e perché dotato di fervida fantasia. Poi aggiunge:

In camera di sicurezza Galluzzo mi riferì i fatti in conformità con la sua versione resa alla Polizia Giudiziaria

Galluzzo invece conferma tutto. I compaesani che sarebbero stati incontrati da Ligustro e Tassone confermano di averli realmente incontrati, ma non concordano le date. Insomma, continua a regnare la confusione più totale quando la difesa di Ligustro presenta due esposti, rispettivamente il 3 ed il 20 dicembre 1947, nei quali sostiene di avere la certezza che nel mese di ottobre 1943, fra Catanzaro Marina e Squillace era stato rinvenuto il cadavere di un uomo e la carogna di un cavallo, uccisi in seguito all’esplosione di una mina. E questa è davvero una bomba! Ma come fanno ad essere certi della cosa? Così semplicemente banale da arrossire per la vergogna: risulta tutto negli atti della caserma dei Carabinieri di Squillace!

E infatti risulta che la stazione dei Carabinieri di Borgia, il 14 ottobre 1943, comunicò ai colleghi di Squillace con verbale 245/1285, che in contrada “Principe” erano stati rinvenuti sulla spiaggia il cadavere di un uomo e la carogna di una cavalla, uccisi per l’esplosione di una mina e che la cavalla era stata riconosciuta per quella rubata al barone Gregorio Mazza qualche giorno prima. I Carabinieri di Squillace, a loro volta, avevano interessato il Comando Tenenza di Catanzaro al fine di far aprire un varco nella zona minata onde raggiungere il cadavere per il riconoscimento. Ma per problemi di approvvigionamento di carburante, il XXIII Battaglione Artieri Speciali non effettuò lo sminamento e non fu possibile riconoscere il cadavere. Solo molto tempo dopo la zona fu bonificata, ma ormai il cadavere era già stato completamente dilaniato e disperso dagli animali.

A questo punto bisogna ripartire daccapo con l’istruttoria e prima di tutto Ligustro viene portato sul posto da lui indicato come quello della tragedia, a circa 45 metri dalla riva del mare, distante dalla foce del fiume Corace circa 1.100 metri, corrispondente sulla strada statale parallela al mare ad un punto sito a circa 150 metri dalla pietra miliare N. 187 verso Catanzaro Marina. Poi lo portano sul luogo dove furono rinvenuti i resti dell’uomo e della cavalla e i due siti non corrispondono come coordinate geografiche per circa 3 chilometri, ma sono assolutamente identici dal punto di vista paesaggistico.

Ancora dubbi. E riesaminando gli atti ci sono dubbi anche sulla data di partenza di Tassone e Ligustro da Grotteria: il 3 ottobre secondo i Carabinieri, il 5 o il 6 secondo il padre di Tassone, il 7 secondo alcuni testimoni. Difficile venirne a capo, sono passati ormai 4 anni e questa incertezza lascia aperte tutte le ipotesi, ma quella più accreditata dal Giudice Istruttore è sempre la stessa: omicidio a scopo di rapina, oltre agli altri reati e così, il 14 gennaio 1950, decide di rinviare Mario Ligustro al giudizio della Corte d’Assise di Catanzaro per i reati di cui è accusato.

Il 27 aprile 1950 la Corte, letti gli atti e ascoltati i testimoni, passa ad esporre i motivi del suo convincimento, che si esprime nella incertezza sulla responsabilità dell’imputato.

Di fronte alla tesi dell’accusa che rileva come la responsabilità di Ligustro trovi il primo fondamento nella confessione stessa dell’imputato, la Corte osserva che la voluta confessione non può avere alcun valore probatorio ove si consideri che essa viene narrata aderendo “grosso modo” alla prima versione di Galluzzo, versione che lo stesso teste d’accusa successivamente ritratta fornendo una versione completamente diversa. Quella confessione, che la stessa accusa deve riconoscere non essere corrispondente alla realtà per quanto si riferisce al tempo, al luogo ed al modo dell’azione, ha tutto l’aspetto di una ammissione forzata, resa per sfuggire a delle pressioni che, se pure non emergenti dalle risultanze processuali, possono intravedersi nel fatto che l’imputato stesso, interrogato da altro verbalizzante, si è affrettato a ritrattare. Escluso che quella confessione possa avere valore probatorio, resta a carico di Ligustro l’accusa formulata da Galluzzo e per vero ampiamente circostanziata e costantemente sostenuta, ma non lascia la Corte esente da perplessità perché preceduta da altra narrazione completamente diversa. La versione  di Galluzzo importa un problema di capitale importanza: il cadavere. Che ne avrebbe fatto l’omicida? La zona dove Galluzzo afferma essere avvenuto il delitto è vicinissima al Ponte Corace, a sud del quale, quindi ancora più vicino al teatro del delitto, si è visto essersi fermati i treni provenienti da Soverato ed essersi ammassata frequentemente notevole folla in attesa e nella speranza di potersi servire del mezzo ferroviario. Il delitto si sarebbe svolto, quindi, in una zona aperta, senza folta vegetazione, vicina all’abitato di Catanzaro Marina, vicina ad un casello ferroviario, alle sparse case di Roccelletta, alla strada statale di notevole traffico, talché sembra strano come un omicidio abbia potuto avvenire di giorno in quella zona senza essere stato segnalato ed ancor di più come un cadavere abbia potuto essere occultato in quei pressi. Ovviamente queste perplessità, per diventare certezze, devono essere supportate da una condizione: un motivo per cui Galluzzo si sia potuto indurre a riferire il falso. Detto, fatto: Galluzzo era stato tirato in ballo da Saturno molto prima che uscisse il nome di Ligustro e, quando fu fatto il nome dell’attuale imputato, il Maresciallo dei Carabinieri avvertì Galluzzo che, qualora non avesse offerto una convincente versione dei fatti, sarebbe stato costretto, sulla scorta della deposizione di Saturno, a denunciare sia lui che Ligustro. Quindi, continua la Corte, non può escludersi in modo assoluto la possibilità che Galluzzo, per evitare la denuncia, abbia architettato un’accusa calunniosa a carico di Ligustro. Poi la Corte stronca le deposizioni di Saturno per le contraddizioni e le ritrattazioni di cui sono piene.

Detto questo, non resta che analizzare criticamente le parole dell’imputato, ammettere le incongruenze e le contraddizioni che contengono, ma riconoscere che la tesi della mina è rimasta inalterata dal 1945 fino al dibattimento e, quindi, gli dà credito quando dice di non aver rivelato subito ai familiari di Tassone la disgrazia sia per non acuirne il dolore ed evitare di non essere creduto con tutte le conseguenze del caso, sia, ma soprattutto, per timore di essere denunciato per il furto della cavalla; per quanto riguarda l’obiezione dell’accusa di non essere verosimile il fatto che l’imputato non avesse riportato alcuna ferita allo scoppio della mina, la Corte ribatte che è, al contrario, possibile perché le mine anti uomo dilaniano solo coloro che le fanno esplodere, lasciando incolumi chi si trovi sia pure a breve distanza. C’è un ultimo punto a cui si appiglia l’accusa: come è possibile che Ligustro non abbia visto, quando rinvenne, i resti dei due esseri che erano con lui? La Corte ribatte che la cosa è verosimile perché, secondo la narrazione dell’imputato, il fatto avvenne di notte, che Ligustro doveva trovarsi in condizioni di spirito tutt’altro che serene, sia per il pericolo scampato, sia per quello cui andava incontro se era capitato in un campo minato; ma poi, si può escludere che lo scoppio lo abbia lanciato lontano da Tassone e dalla cavalla e proprio per questo non li vide?

Troppi dubbi per mandare un uomo all’ergastolo, quindi la Corte assolve Mario Ligustro per insufficienza di prove.

Sia Ligustro che il Pubblico Ministero ricorrono per Cassazione con motivazioni, ovviamente, opposte.

La Suprema Corte, l’11 marzo 1953, rigetta entrambi i ricorsi e chiude questa brutta storia.

Domenico Tassone non avrà mai una tomba sulla quale essere pianto dai genitori.[1]

[1] ASCZ, Sezione di Lamezia Terme, Sentenze della Corte d’Assise di Catanzaro.