
Sono le 5,30 del 21 agosto 1880. Il cinquantenne mugnaio Alessandro Linardo e sua figlia Raffaela, 32 anni, arrivati dalla campagna di Rende a Cosenza per vendere i loro prodotti, stanno accingendosi ad attraversare Piazza Carmine quando, praticamente davanti alla caserma dei Carabinieri, gli si para davanti la Guardia Daziaria Giuseppe Spadafora che, volendo verificare cosa porti Raffaela nella sporta sistemata sulla testa, comincia con modi irruenti a spostare la mappina che la copre, facendo agitare i pulcini che ci sono dentro. Raffaela protesta:
– Chianu, chianu, chi manera è? ‘A sporta a scummiagliu iu sinnò fujanu i pullicini! – poi si sposta di lato per impedirgli di continuare.
– Vat’a fà futtere ca ti zampu! – risponde arrogantemente la Guardia, cercando di continuare la sua operazione, ma trova una sempre più fiera resistenza. Allora le molla un calcione e comincia ad offenderla pesantemente – Ohi puttana lorda statti ferma!
– Faciti bellu bellu quannu parrati cu na fimmina! – protesta il padre, interponendosi tra i due.
– Vò zampautu puru tu? – gli risponde rabbiosamente la guardia, dandogli una spinta e poi mordendogli la testa e mollandogli una guanciata sul mento.
Il contadino resta sorpreso per un attimo, poi alza il bastone che ha in mano e colpisce la Guardia in testa. Sorpreso a sua volta per il colpo ricevuto e vedendo il sangue colargli sul viso, Spadafora mette mano al revolver e spara all’impazzata, in mezzo alla gente, tutti e sei i colpi contro il contadino, che scappa zigzagando nel fuggifuggi generale verso l’ospedale lì di fronte e riesce a non farsi colpire.
Il trentaquattrenne facchino Luigi Ruffolo è fermo davanti all’ospedale e assiste, come tante altre persone, alla lite tra la Guardia Daziaria e i contadini. Quando Spadafora comincia a sparare sente un dolore fortissimo e come un fuoco alla coscia destra che lo fa cadere a terra urlando. Si guarda la gamba e vede che da un buco nel pantalone comincia ad uscire un fiotto di sangue.
Adesso che è tornata la calma, in Piazza Carmine si sentono solo i lamenti di Luigi Ruffolo. Qualcuno cerca di aiutarlo a rialzarsi ma non ce la fa, allora, tra le urla di dolore, lo sistemano su una barella e, fatti la decina di metri che mancano, lo portano all’ospedale.
Intanto, attirati dalle revolverate, i Carabinieri escono dalla caserma con le armi in pugno e la gente urla loro che la Guardia Daziaria è scappata verso Via Rivocati, proprio dietro l’ospedale. Ed è proprio in Via Rivocati, accovacciato col revolver in mano in una grotta (qui per “grotta” è da intendersi un locale sotterraneo. Nda), che viene arrestato e subito si scopre che l’arma è detenuta illegalmente. In questi stessi momenti il Maresciallo Maurizio Fortunato, uscito dal suo ufficio di comandante della caserma, arriva sulla piazza e arresta Alessandro Linardo, indicatogli come partecipante alla rissa.
Il dottor Felice Roberti visita Luigi Ruffolo e constata che il proiettile calibro 12, entrando dalla parte superiore frontale della coscia, ha fratturato il femore ed è uscito dalla parte inferiore interna della coscia, poi specifica:
– Per la frattura dell’osso le due ferite sono gravi e produrranno incapacità al lavoro per oltre quaranta giorni, con pericolo d’indebolimento permanente dell’arto offeso. In atto pericolo di vita non esiste, ma potrebbe svilupparsi il flemmone (Il flemmone è un’infiammazione acuta dei tessuti molli che si concretizza in un processo suppurativo, pericoloso per la sua tendenza invasiva. Nda) ed in questo caso sarebbe compromessa anche la vita del paziente.
Non resta che sperare in un decorso benigno.
Giuseppe Spadafora, una volta arrestato, è stato fatto medicare e adesso è seduto davanti al Maresciallo Fortunato per raccontare la sua versione dei fatti:
– Verso le cinque e un quarto di stamane ero di servizio al largo tra l’Ospedale Civile ed il quartiere dei Carabinieri di questa città, quando sono arrivati dalla strada di Rende una donna con una cesta di polli sulla testa ed un uomo. Li ho fermati per vedere cosa portassero e il contadino, senza ragione alcuna, è montato in furia. Nonostante che io giustificassi la legalità del mio operato, egli mi ha tirato una bastonata sulla testa ed io, caduto a terra, ho dato di piglio al revolver e gli ho tirato un colpo senza però ferirlo. Nella confusione è scosso il revolver e senza mia volontà sono esplosi gli altri cinque colpi, ma non ho visto se avessi ferito ad alcuno…
Fatto uscire Spadafora, adesso è il turno di Alessandro Linardo:
– Io venivo in Cosenza con mia figlia a vendere pollastri. Arrivati innanzi al quartiere dei Carabinieri, una Guardia Daziaria, che non conosco, ci ha fermati per perquisire nella cesta e mia figlia ha ubbidito. Siccome la Guardia faceva svolazzare i pollastri, mia figlia l’ha pregato di permettere che scovrisse ella la cesta. La Guardia con violenza ha detto “Vatti a far fottere tu e i pulcini, ché ti zampo!”. Io l’ho pregato di condursi con maggiore moderazione ed egli, ripetendo anche a me l’ingiuria, mi ha dato una spinta, un morso sul capo ed una guanciata sul mento. Io, non potendone più, ho alzato il bastone e gli ho tirato un colpo. Egli ha tratto il revolver e da pochi passi di distanza mi ha esploso cinque colpi senza ferirmi.
Fattolo osservare da un medico, in effetti ha l’impronta di un morso sul cuoio capelluto.
– Vidi una donna che veniva dalla strada di Rende, portando sul capo una cesta. Le si avvicinò la Guardia Daziaria e le chiese cosa vi fosse dentro – racconta Luigi Tenuta, testimone oculare, che continua – e, nonostante ch’ella avesse risposto portar del pollame, la Guardia un po’ bruscamente prese la cesta con una mano e mettendola a terra disse “vatti a far fottere”. A pochi passi, intanto, quella donna era seguita dal padre il quale, a sentir quelle parole, voltatosi alla Guardia, disse “non sono modi di mandar a far fottere una donna!” e vennero fra loro alle prese, ma frappostesi delle persone furono divisi. Era già cessata ogni cosa, quando quella donna disse “questi cornuti pure ci hanno da menare!”. Ciò spiacque alla Guardia onde, avvicinatosi novellamente, dié un calcio alla donna ed un urto violento al padre, facendolo cadere a terra. Rialzatosi, costui vibrò un colpo di bastone sulla testa della Guardia la quale, tratta fuori immantinente la sua rivoltella, si dié ad inseguirlo esplodendo contro di lui non meno di cinque colpi…
Una versione dei fatti che si discosta da quelle fornite dai protagonisti della rissa. Uno di quelli che si frapposero fra Spadafora e Linardo è Michele De Paola, che racconta:
– Io mi frapposi ed allontanai lo Spadafora ma costui, avendo inteso che la donna gli dava del cornuto, si avventò novellamente contro di loro e diede un calcio alla donna ed un forte urto con le mani al padre, facendolo cadere per terra. Rialzatosi, lo colpì con un bastone alla testa. Spadafora, per vendicarsi, trasse fuori la sua rivoltella ed esplose contro il contadino cinque colpi, uno dei quali ferì il facchino Luigi Ruffolo.
– Avete visto se Spadafora diede un morso all’avversario?
– Nel primo momento che vennero alle mani io mi trovavo rivolto altrove e non mi accorsi se Spadafora mercè qualche morso o altrimenti lo avesse ferito…
Vengono interrogati altri testimoni che raccontano la stessa versione, compreso il fatto di non aver visto la Guardia dare un morso a Linardo, eppure un’impronta di denti, fresca, sulla sua testa c’è. Come si spiega? Speriamo che gli inquirenti riescano a risolvere il dilemma.
Intanto il 7 settembre arriva in Procura una fredda nota dell’ospedale, a firma del Direttore, dottor Felice Migliori:
Si porta a conoscenza della S.V. che il nominato Luigi Ruffolo, di anni 35, è deceduto in questo ospedale in data di oggi ed in seguito a ferita di arma da fuoco alla coscia destra. Il cadavere sarà trattenuto per oggi a disposizione dell’autorità giudiziaria. Elasso tal tempo, sarà provveduto a norma del Regolamento dell’ospedale.
Bisogna fare in fretta e dalla Procura parte immediatamente l’incarico allo stesso Felice Migliori e al dottor Domenico Magliari di effettuare l’esame autoptico.
Esplorando la coscia destra si trova che il processo cancrenoso à distrutto gran parte dei tessuti molli della parte anteriore della coscia e si è diffuso superiormente fino ai muscoli della linea intertrocanterica. L’osso femorale è spezzato, con frammenti lunghi dodici centimetri; l’inferiore è sotto dalla faccia anteriore interna, il superiore da quella posteriore esterna del femore. In corrispondenza dell’estremo superiore della frattura scorgesi distaccato un frammento osseo di due centimetri di altezza per un centimetro e mezzo di base. Quindi concludono con la diagnosi medico legale e la causa della morte: cancrena della coscia destra in seguito a ferita da arma da fuoco; processo d’icoremia e consecutivo catarro gastro enterico; trasudamenti sierosi leggeri; meningiti cerebrali a focolai disseminati già pregresse da più tempo. Stante tali risultamenti dell’autopsia, giudichiamo che causa della morte sia stata la grave ferita da arma da fuoco che indusse il processo cancrenoso nell’arto ferito e la icoremia generale dell’organismo.
La Procura a questo punto decide di procedere contro Giuseppe Spadafora per omicidio volontario. L’accusa per Alessandro Linardo, invece, resta quella ferita volontaria prodotta con arma impropria.
Ma perché si è deciso di qualificare il reato come omicidio volontario e non, come sembrerebbe più appropriato, come omicidio per errore? Semplice, nel codice penale sabaudo, modificato ed adottato in tutte le regioni del regno nel 1859, questa tipologia di reato non è prevista (sarà introdotto nel 1930 col codice Rocco. Nda). Leggiamo il ragionamento dei magistrati che compongono il Collegio della Sezione d’Accusa, deputata ad accogliere o meno la richiesta della Procura: nel reato di che trattasi è fuor di dubbio la piena intenzione nell’agente di spegnere Linardo e tale volontà informa il ferimento nella persona di Ruffolo, comunque costui non ne fosse morto immediatamente. Chi volle conseguire un crimine letale contro uno, anche lo volle contro altri. Se invece del Ruffolo fosse rimasto offeso Linardo, chi avrebbe potuto mai sostenere che, dopo tanta pertinacia di mezzi attissimi, lo Spadafora non avesse voluto ucciderlo? Questo è appunto il caso del Ruffolo. Spadafora esplose volontariamente a brevissima distanza sei consecutivi colpi di revolver contro Alessandro Linardo con piena intenzione di togliergli la vita e volontariamente, quindi, ferito Luigi Ruffolo il quale, per sola natura della grave offesa, morì dopo sedici giorni.
Accolta la richiesta nell’udienza del 19 novembre 1880, la situazione processuale di Giuseppe Spadafora si fa drammatica perché nel codice sabaudo l’omicidio volontario può essere punito anche con la morte.
Ad occuparsi del caso è la Corte d’Assise di Cosenza il 23 marzo 1881.
Il Pubblico Ministero sostiene la responsabilità di entrambi gli imputati e chiede la condanna di Giuseppe Spadafora al 1° grado di lavori forzati (20 anni) e di Alessandro Linardo al 1° grado del carcere (da mesi 1 ad anni 2 di reclusione) ed entrambi alle rispettive indennità e spese.
La difesa di Spadafora, sostenendo che la morte di Ruffolo avvenne per cause sopravvenute alla ferita, chiede la concessione delle attenuanti dell’eccesso di fine e della grave provocazione. La difesa di Linardo sostiene che il reato fu commesso nello stato di legittima difesa e che quindi deve essere assolto.
La Corte, letti gli atti ed ascoltati i testimoni e le parti, ritiene Giuseppe Spadafora responsabile di omicidio volontario, ma ritiene fondata la richiesta della difesa e, concesse le attenuanti, scrive: attesoché dalla pena di venti anni di lavori forzati, discendendo di un grado per le ammesse circostanze attenuanti, si va al primo grado ed essendo facoltata la Corte a spaziarsi nel primo grado disceso, crede applicare, per le modalità del fatto, dieci anni di lavori forzati.
La Corte ritiene anche Alessandro Linardo responsabile del reato ascrittogli, ma gli concede l’attenuante della provocazione grave e scrive: la pena può ridursi, per la modalità del fatto, a giorni sei di carcere, comunque già abbondantemente scontati.
Spadafora presenta appello per Cassazione e la Suprema Corte sedente a Napoli il 20 maggio 1881 accoglie parzialmente il ricorso e rinvia gli atti alla Corte d’Assise di Cosenza per il nuovo giudizio, che viene fissato per il 3 dicembre 1881.
Alla fine della lunga discussione in aula con accesi scontri tra la Difesa, la Corte ed il Pubblico Ministero, Giuseppe Spadafora viene riconosciuto responsabile del reato ascrittogli e viene condannato a dieci anni di lavori forzati, esattamente come nel primo processo.
Spadafora ricorre di nuovo per Cassazione, ma il 18 marzo 1882 la Corte questa volta respinge il ricorso e mette la parola fine alla vicenda.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.