È il pomeriggio del 10 gennaio 1896, è nevicato e fa freddo. Domenico Martino, fabbro ferraio, va con il suo omonimo Ernesto nella bottega del più che settantenne falegname Francesco Libonati a San Marco Argentano. Nella bottega c’è anche Angiolino Aiello, il diciassettenne apprendista, che sta seduto a riscaldarsi al braciere.
– Ah! Siete venuti? Allora facciamoci una partita a vino! – fa Libonati, un po’ alticcio per il vino che ha già bevuto, ai due amici.
In questo preciso momento entra anche Giuseppe Renzelli e anche lui viene invitato a giocare.
– Mastru Francì, posso giocare anche io per favore? – interviene Angiolino l’apprendista.
– No!
– Per favore…
– Noni…
Angiolino continua ad insistere e Mastro Francesco finalmente cede. Può giocare, ma prima deve andare a comprare le tre bottiglie di vino da giocare e bere nella vicina bottega di Giuseppe D’Ardis. Il gioco scorre senza intoppi e qualcuno beve un po’ di più, qualcuno un po’ di meno, fa parte del gioco.
Quando è rimasta una sola bottiglia, bussano alla porta. Sono Rosa Ambrosio e sua madre Saveria Del Vecchio.
– Zu Francì, non è che ci potete complimentare un po’ di vino? – fa Rosa.
– E come no! Prendetevi questa bottiglia – risponde con trasporto porgendole la bottiglia, poi continua – anzi, adesso vi do anche dei fichi e delle olive. Per voi qualunque cosa!
– Grazie! Grazie! Allora, se non vi è di troppo disturbo, ci servirebbe un po’ di carbone… – azzarda Rosa.
Certamente! Venite con me a prenderlo – dice avviandosi verso una specie di sgabuzzino ricavato dietro alcune assi di legno sistemate in piedi. Le due donne lo seguono, mentre i giocatori restano seduti in attesa di andare a comprare un’altra bottiglia di vino e finire il gioco. Angiolino no, non resta seduto ma segue le donne e si ferma a sbirciare attraverso lo spazio tra due assi ciò che accade nello sgabuzzino. Mastro Francesco se ne accorge ma non dice niente. Quando le due donne se ne vanno, l’anziano rimprovera aspramente il discepolo:
– Fissillu fricatu, che sei venuto a spiare? È mia nipote, ti credevi tu che ce lo potevo mettere? Nessuno dei miei discepoli ha fatto la spia in casa mia! Sei un porco ed uno scostumato!
– Allora hai avuto per discepolo Domenico stumanicu – risponde in tono di scherno portando le mani ad indicare il suo “manico”, il membro virile.
Mastro Francesco, urtato da questa risposta insolente, gli tira, a scopo di correzione, uno schiaffo, dicendogli:
– Scostumato vagabondo, a me queste parole? Stumanicu lo porti a tua madre e a tuo padre che non ti hanno saputo educare!
A queste parole Angiolino scatta e da una scansia afferra uno scalpello slanciandosi contro l’anziano e urlando:
– Mi fricu i tia, non m’importa che hai fatto venticinque anni di galera! – poi comincia a prenderlo a calci e mastro Francesco, per difendersi gli tira addosso un mortaio di legno. Quando tutto sembra mettersi davvero male, Domenico ed Ernesto Martino li dividono e spingono Angiolino fuori dalla bottega, mentre mastro Francesco gli urla:
– Vattene, non ti voglio più come discepolo!
Per una sciocchezza sarebbe potuta accadere una tragedia, ma ora è tutto finito e i compagni di gioco se ne vanno nell’attigua bottega di Domenico Martino, mentre l’anziano falegname, borbottando, si chiude nella sua.
Dopo pochi minuti, però, Angiolino torna indietro e chiede scusa al maestro per lo sgarbo fattogli, ma l’anziano non ne vuole sapere di accettare le scuse e Angiolino, caccia lo scalpello che aveva preso dalla scansia e ricomincia a minacciarlo. Ernesto Martino sente tutto e interviene per mettere pace, ma il giovanotto gli si rivolta contro ed in tono molto poco rassicurante gli dice:
– Lasciami stare perché quello che non faccio a lui faccio a te!
Ernesto Martino capisce che non è il caso di insistere e se ne va, pensando bene di fare intervenire il padre di Angiolino. Nel frattempo sopraggiunge Enrico Tripicchio che vede il giovanotto con lo scalpello in mano mentre, rivolgendosi a mastro Francesco, urla:
– Mi debbo rendere gli schiaffi!
– Vattene figlio, vattene – risponde l’anziano, quasi pregandolo.
– Non me ne vado, mi debbo rendere gli schiaffi! – continua Angiolino. Mastro Francesco perde la pazienza e, impugnata una lima appuntita, risponde:
– Fatti avanti se te la vuoi vedere! – Angiolino non avanza e mastro Francesco, pensando di averlo intimorito, posa la lima su di uno stipo e, scuotendo la testa, continua – non me la posso vedere con un ragazzo!
Angiolino non crede ai suoi occhi, mastro Francesco è davanti a lui disarmato! Allora ne approfitta: gli si lancia addosso e gli vibra un tremendo colpo con lo scalpello che centra l’occhio destro, penetrando in profondità, poi scappa urlando:
– L’ho fatto! L’ho fatto! – e butta per strada lo scalpello.
Mastro Francesco barcolla, poi si affloscia come un sacco vuoto e alle grida di chi ha assistito alla scena interviene Domenico Martino, che lo trova a terra senza coscienza e con la schiuma alla bocca. Con l’aiuto di altra gente lo solleva e lo adagia sul lettino che l’anziano ha nel retro bottega, mentre qualcun altro va ad avvisare il medico, i Carabinieri e il Pretore.
Il primo ad arrivare sul posto è il dottor Raffaele Manfredi, che subito osserva preoccupato la ferita da arma da taglio sulla parte superiore dell’occhio destro, che geme sangue. E la sua preoccupazione aumenta quando constata che mastro Francesco è in preda a coma profondo, senza parola.
– Ha subito grave commozione cerebrale – dice, scuotendo la testa, al Pretore ed al Maresciallo che nel frattempo sono arrivati, poi continua – lo stato è tale che non gli permette pronunziare parola e quindi sono riusciti inutili ed infruttuosi tutti gli sforzi per rianimarlo.
Angiolino Aiello viene rintracciato ed arrestato la mattina dopo. Subito interrogato, racconta la sua versione dei fatti:
– Ieri mi recai alla bottega del mio maestro per lavorare ma, essendo caduta molta neve, il maestro mi disse che per quel giorno non avremmo fatto nulla. Venne nella bottega un tal Ernesto Martino al quale il mio maestro propose di fare una partita a vino e poiché nella bottega non vi erano altre persone tranne che io e Domenico Martino, mi proposero che io fossi della partita. Quindi, con l’ordine del mio maestro, mi recai nell’attigua bottega e mi feci dare due bottiglie di vino ed un mazzo di carte. Mentre giocavamo venne nella bottega la mia cugina Rosa Ambrosio e la madre di lei che chiesero a mastro Francesco una bottiglia di vino ed un po’ di carbone. Ottenuto l’assenso, Rosa si recò nel ripostiglio dei carboni ed io l’accompagnai dietro sua richiesta. Il maestro, che era già brillo pel vino bevuto, vedendo che io accompagnai mia cugina, montò in furia e cominciò a maltrattarmi pronunziando le parole “Vallo a pigliare in culo tu e tua madre!”, tirandomi altresì un ceffone sul viso. Mentre cercavo di scusarmi, mastro Francesco, infuriato come una belva, dié di piglio ad un mortale di legno e me lo lanciò contro, colpendomi nella gamba sinistra. Io me la diedi a gambe e mi rifugiai in una vicina casa, ma uscito trovai sulla via il maestro armato di un bastone e, sebbene disarmato dalle persone accorse, tornò subito nella bottega e prese una lima con cui mi vibrò un colpo che riuscii a schivare, ma che mi bucò il mantello. Si fu allora che io, avendo in mano uno scalpello, allo scopo di difendermi dall’aggressore glielo slanciai contro e lo colpii sull’occhio sinistro.
Mastro Francesco non ce la fa e muore proprio mentre Angiolino viene riportato in camera di sicurezza. Adesso si tratta di omicidio.
Le indagini proseguono ascoltando i testimoni presenti al fatto. Il primo a sedersi davanti al Pretore è Giuseppe Renzelli:
– Nelle ore pomeridiane di ieri, mentre uscivo dalla mia bottega di calzolaio alla via Santo Marco, fui chiamato da Domenico Martino per fare una partita con mastro Francesco Libonati. Recatomi nella bottega di Libonati, vi trovai, oltre a Domenico Martino, anche Ernesto Martino e il giovanotto Angiolino Aiello. Mastro Francesco mi parve un po’ preso dal vino, difatti gli astanti mi dissero che poco prima aveva avuto la visita di un suo amico di Fagnano col quale aveva bevuto. Giocammo tre bottiglie di vino, di cui ne bevemmo due e ricordo che Aiello ne bevé da tre a quattro bicchieri. Mentre il vino si beveva fui chiamato dal mio discepolo perché alcuni clienti mi richiedevano in bottega. Tornato dopo un quarto d’ora vidi che Libonati ed il suo discepolo erano venuti a diverbio perché una cugina dell’Aiello a nome Rosa Ambrosio era andata a chiedere un po’ di carbone a Libonati e Aiello era andato ad accompagnare la cugina nel luogo ove erano i carboni, di tal fatto Libonati si doleva, dicendo che non voleva spie in casa sua e Aiello si scusava dicendo che, dopo tutto, non aveva fatto altro che accompagnare la sua parente. Visto ciò mi ritirai nella mia casa, attigua alla bottega di Libonati e non intesi più niente. Dopo poco tempo, però, intesi che la quistione si accentuava e Libonati gridava “Vattene! Vattene!”, mentre Aiello rispondeva “Ma mastro, che ti ho fatto? Che ti ho fatto?” e mi parve di sentire anche Domenico Martino ed Ernesto Martino che dividevano i due litiganti. Scesi per curiosità e vidi i due Martino entrare in una bottega di fabbro e Aiello con uno scalpello in mano venire verso di me, seguito a poca distanza da Libonati armato di un pezzo di bastone. Per evitare quistioni richiusi la porta, ma dopo pochi momenti fui chiamato da Raffaele Murano, il quale mi disse che mastro Francesco era stato ferito. Io però non uscii perché ne fui impedito da mia moglie che aveva paura.
Raffaele Murano:
– Ieri, verso le quattro pomeridiane, passando dinanzi la bottega di Libonati intesi che costui si quistionava col suo discepolo. Libonati diceva “Vattene figlio mio, vattene!” e Aiello, imbrandendo uno scalpello, rispondeva “No per la madonna! Mi debbo rendere gli schiaffi!”. Nella bottega c’era anche Ernesto Martino che cercava di tirare Aiello pel mantello e di trascinarlo fuori, ma il giovanotto gli si rivoltò contro dicendo che avrebbe ferito lui. Martino se ne andò e Aiello, rimasto solo, continuò a provocare mastro Francesco, il quale si decise a pigliare una lima, mettendosi in guardia. Aiello per allora nulla fece, ma appena Libonati posò la lima su di un attiguo stipo, Aiello gli fu sopra violentemente e gli vibrò un colpo di scalpello all’occhio destro, colpo che fece cadere Libonati a terra, indi Aiello se la diede a gambe dicendo “Siatemi testimoni che egli voleva uccidere me ed io ho ucciso lui!”.
Ernesto Martino:
– Mentre ieri pomeriggio si giocava e si beveva vino nella bottega di mastro Francesco Libonati, vennero Rosa Ambrosio e la madre, a cui Libonati regalò una delle tre bottiglie di vino. Dopo di ciò Rosa Ambrosio chiese a Libonati un po’ di carbone e, avendone ottenuto il consenso, madre e figlia andarono a prendere il carbone in un ripostiglio, seguite da Aiello. Quando le due donne andarono via, Libonati cominciò a rimproverare il discepolo perché aveva spiato le donne mentre pigliavano il carbone, lagnandosi che nessuno dei suoi discepoli aveva fatto la spia in casa sua. Non intesi però le altre parole di quel discorso perché m’ero fatto sulla soglia della bottega, ma distinsi, invece, il suono di uno schiaffo e Aiello esclamare “Ma perché mi batti?”. Mi voltai e vidi che i due si erano accapigliati, dandosi reciprocamente delle busse e vidi Libonati lanciare all’Aiello un mortaio di legno. Io e Domenico Martino c’interponemmo e cacciammo dalla bottega il discepolo. Credendo finita la quistione me ne andai nella bottega di Domenico Martino, ma Aiello ritornò dopo poco, cercando nuovamente d’inveire contro Libonati, chiedendogli contemporaneamente scusa dello sgarbo fattogli. Poi Aiello se ne andò e ce ne andammo anche noi, ma non erano scorsi pochi minuti che Aiello ritornò continuando a minacciare il maestro ed io, essendo accorso, cercavo di tirarlo via, pel mantello, persuadendolo a rincasare. Egli, invece, mi si rivoltò contro dicendomi “Lasciami stare perché quello che non faccio a lui, faccio a te!” ed allora me ne andai per chiamare il padre, visto che alla mia preghiera non voleva cedere. Non avevo fatto che pochi passi, quando fui raggiunto da Aiello che scappava senza mantello ed a capo scoperto, dicendomi “Sai, ho punto Libonati, mi ho cacciato l’affronto!”.
Versioni sostanzialmente concordanti, anche se non è ancora chiaro agli inquirenti perché mastro Francesco se la sia presa tanto con il suo discepolo. La deposizione di Domenico Martino potrebbe chiarire tutto.
– Mentre bevevamo vennero Rosa Ambrosio e sua madre che chiesero a Libonati un po’ di vino. Questi, non solo diede loro una delle tre bottiglie, ma anche dei fichi e delle olive, dicendo pure che avrebbe loro data qualunque cosa che avessero chiesto. Allora Rosa gli chiese un po’ di carbone e, avendone ottenuto il consenso, si recarono in un ripostiglio a prenderlo. Aiello seguì le donne ed andò a spiare nel ripostiglio, ma un tal atto indispose Libonati e quando le donne andarono via, rimproverò il discepolo dicendogli che nessuno dei suoi discepoli aveva fatto la spia in casa sua e perciò egli era un porco ed uno scostumato. Aiello, in tono scherzoso, disse “Hai avuto per discepolo Domenico stumanicu!” e Libonati, urtato di questa risposta insolente gli tirò, a scopo di correzione, uno schiaffo soggiungendo “A me dici queste parole? Stumanicu lo porti a tua madre e a tuo padre che non ti hanno saputo educare!”. A tali parole Aiello scattò, afferrò uno scalpello slanciandosi contro il maestro e pronunziando le parole “Mi frego di te! Non m’importa che hai fatto venticinque anni di falera!”. Così dicendo cominciò a dare calci a Libonati il quale, per difendersi, afferrò un pezzo di legno, ma nulla successe perché io ed Ernesto Martino c’infrapponemmo. Libonati licenziò il discepolo dicendo che non l’avrebbe più voluto nella sua bottega e Aiello uscì portando seco lo scalpello.
Beh, anche se il ruolo delle due donne non è ancora chiaro, le parole riferite da Domenico Martino farebbero capire che Libonati non si infuriò per la “spiata” in sé, ma per la risposta offensiva che gli dette il discepolo.
Ma finalmente il Pretore decide che è il momento di ascoltare Rosa Ambrosio:
– Io sono nipote dell’ucciso Francesco Libonati. I carboni si trovavano nella stessa stanza dove s’intratteneva Angiolino Aiello, per cui non faceva bisogno di muoversi per vedere quello che si faceva da me e da mia madre con lo zio Libonati. Io non ho visto Aiello avvicinarsi quando mi venivano consegnati i carboni da mio zio. Questi, quando io stavo per uscire, con parole aspre, disse al discepolo “Fissillu fricatu, che venivi a spiare? Ce lo mettevo io a mia nipote?”.
E invece no, è stata proprio la “spiata” a dare origine a tutto. La conferma arriva quando gli altri presenti nella bottega vengono richiamati dal Pretore e finalmente ammettono che la dichiarazione fatta da Rosa Ambrosio corrisponde alla verità dei fatti.
L’8 maggio 1895 la Sezione d’Accusa rinvia Angiolino Aiello al giudizio della Corte d’Assise di Cosenza per rispondere di omicidio volontario.
La causa si discute il 23 giugno successivo ed il giorno dopo viene emessa la sentenza:
la Corte ritiene Aiello Angiolino, di anni 16, colpevole di omicidio semplice in persona di Francesco Libonati, con la scusante della grave provocazione ed attenuanti generiche, e lo condanna ad anni 5 di reclusione, oltre alle spese, ai danni e alle pene accessorie.[1]
[1] ASCS, Processi Penali.